CAPO II.
Commedie: Tramezzi.
I.
Commedie.
Quanto più siamo persuasi della sagacità dell’ingegno spagnuolo nel trovar nelle cose il ridicolo, come altresì dell’eccellenza della ricchissima lingua di▶ tal nazione che si presta con grazia e lindura alle festive dipinture de’ costumi, tanto maggior maraviglia ci reca il veder in quelle contrade sì negletta la buona commedia in questo secolo, in cui anco nel settentrione vanno sorgendo buoni imitatori ◀di▶ Terenzio, Machiavelli, Wycherley e Moliere.
Non possiamo rammemorare senza ribrezzo tra’ comici scrittori nella prima metà del secolo altri che Giuseppe Cañizares sebbene motteggiato da’ satirici del suo tempo come cattivo verseggiatore. Seguitando il sistema de’ passati drammatici egli scrisse commedie sregolate ma dilettevoli per la buffoneria e prossime alla farsa. La farsa però non è mica opera spregevole o facile. L’esperienza giornaliera dimostra che per mille drammatici che tesseranno tragedie regolate ma insipide destinate a morire il dì della loro nascita, a stento se ne incontrerà uno che sappia comporre una farsa piacevole atta a resistere agli urti del tempo, come son quelle ◀di▶ Aristofane o ◀di▶ Moliere. Le favole del Cañizares da me vedute ripetere in Madrid sono: el Honor dà entendimiento, el Montañès en la Corte, el Domine Lucas. Nella prima si dipinge una specie ◀di▶ Cimone del Boccaccio, il quale non per amore ma per onore diviene scaltro, cangiamento che si rende verisimile per la durata dell’azione ◀di▶ più mesi. Nella seconda si fa una piacevole pittura locale della vanità degli abitatori delle Asturie, i quali si tengono per nobili nati, ed ostentano la loro executoria ossia carta ◀di▶ nobilità in ogni incontro. Il titolo del Domine Lucas è tolto da una commedia ◀di▶ Lope de Vega che ebbe luogo nel Teatro Spagnuolo del Linguet; ma la favola del Cañizares è assai più piacevole, ed è la sola che con tal titolo comparisce su quelle scene. Il Domine Lucas è uno studente delle montagne Asturiane sommamente goffo ed ignorante, ed il ◀di▶ lui zio che esercita l’avogheria, non è meno ridicolo. Ha costui due figliuole, la prima delle quali vorrebbe dare a Don Lucas il quale però ama l’altra sciocca e semplice al pari ◀di▶ lui. Aumenta il ridicolo del carattere ◀di▶ Don Lucas il capriccio ◀di▶ voler fare esperienza ◀di▶ Leonora a lui promessa, e prega un suo amico che è ◀di▶ lei occulto amante, a fingere ◀di▶ amarla, e gliene dà tutto l’agio.
Il primo che abbia osato pubblicare in Ispagna una commedia senza stravaganze fu l’autore ◀di▶ una buona Poetica Spagnuola Ignazio Luzàn. Diede egli nel 1751 alla luce in Madrid sotto il nome del Pellegrino una giudiziosa traduzione in versi coll’ assonante del Pregiudizio alla moda ◀di▶ M. La Chaussée intitolandola la Razon contra la moda.
L’avvocato Nicolàs Fernandez de Moratin già lodato fra’ tragici si provò anche nel genere comico, e nel 1762 impresse la sua Petimetra, nella quale, ad onta ◀di▶ una buona versificazione, della lingua pura, e della ◀di▶ lui natural vivacità e grazia, riuscì debole nel dipingere la sua Doña Geronima e sforzato ne’ motteggi, e cadde in certi difetti ch’ egli in altri avea ripresi. Ne scrisse poi un’ altra col titolo El ridiculo DonSancho che rimase inedita. Essendosi compiaciuto l’autore ◀di▶ permettermene la lettura, vi ammirai pari armonia nella versificazione e felicità ◀di▶ locuzione, ma parvemi priva ◀di▶ energia e d’interesse nella favola e nel costume.
Nel Saggio teatrale del sig. Sebastian y Latre uscì anche una riforma del Parecido en la Corte, in cui l’ autore procurò ◀di▶ guardare le unità, ma non ritenne le grazie dell’ originale,
Nel 1770 uscì in Madrid una commedia intitolata Hacer que hacemos, cui noi potremmo dar il titolo ◀di▶ Ser Faccendone. L’autore a me ignoto si occultò sotto il nome anagrammatico ◀di▶ Don Tirso Ymareta. L’inazione ◀di▶ questa favola si chiude in un giorno con particolare nojosità. L’autore avea in mente un embrione accozzato ◀di▶ molti tratti ridicoli ◀di▶ un uomo che vuol mostrarsi affaccendato, ma gli mancò la necessaria sagacità nella scelta de’ più teatrali, nel dar loro la dovuta graduazione, nell’ incatenarli ad un’ azione vivace, e nel prestare alla sua commedia interesse e calore24.
Tutte le altre favole pubblicate nella penisola sino a questi ultimi anni sono tali che ci rendono preziose le stravaganze del passato secolo. E quando mai nel tempo del Calderone venne fuori una favola più mostruosa del Koulicàn ◀di▶ un tal Camacho? Quando si videro più sciocche fanfaluche ◀di▶ quelle che portano il titolo ◀di▶ Marta Romorandina mostruosità insipidissime ◀di▶ trasformazioni e magie, che nella state del 1782 per più ◀di▶ un mese si recitarono con maraviglioso concorso ogni giorno? Quando si tradussero ottimi drammi forestieri più scioccamente ◀di▶ quello che Don Ramòn La Cruz ed altri simili poetastri fecero del Temistocle, dell’Artaserse, del Demetrio, dell’Ezio, dell’Olimpiade deteriorate da per tutto e segnatamente imbrattate coll’ introdurvi il buffone? Quando ne’ secoli più rozzi d’ogni nazione si sono poste in iscena favole più incondite ◀di▶ quelle rappresentate in Madrid dal 1780 inclusivamente sino al carnevale del 1782 della Conquista del Perù, del Mago ◀di▶ Astracan, del Mago del Mogol? Io non ne nomino i meschini autori per rispettar la nazione; ma probabilmente essi troveranno ricetto nella Biblioteca del Sampere per morire in coro in siffatto scartabello, ◀di▶ cui in Ispagna altri già più non favella se non che il proprio autore.
Gli ultimi anni però si sono composte in Madrid quattro commedie, benchè non se ne sia rappresentata che una sola, le quali meritano ◀di▶ conoscersi. Due ◀di▶ esse scritte sin dal 1786 non hanno veduta la luce delle stampe; due altre si sono impresse nel 1786 e 1788.
Appartengono le inedite a Don Leandro Fernandez de Moratin ◀di▶ Madrid degno figliuolo del prelodato Don Nicolas da cui ha ereditato l’indole poetica, l’eleganza e la grazia dello stile, la dolcezza del verseggiare e la purezza del linguaggio. S’intitola l’una el Viejo y la Niña (il Vecchio e la Fanciulla) e l’altra la Mogigata, che tra noi può intitolarsi la Bacchettona, trattando ◀di▶ una donna che si fa credere chiamata a monacarsi.
Un perverso tutore (ecco il soggetto della prima) a condizione ◀di▶ non essere astretto a dar conto dell’amministrazione de’ beni d’Isabella sua pupilla che conta poco più ◀di▶ tre lustri, la sacrifica facendola sposa ◀di▶ un vecchiaccio caduco, mal sano, rantoloso che ne ha passati quattordici, ed ha atterrate tre altre mogli. Ella amava un giovanetto suo uguale che era andato in Madrid, e per vincerla le vien dato a credere con false lettere ch’egli abbia colà preso moglie. Si conchiude l’inegualissimo matrimonio, e dopo due o tre settimane arriva l’amante e trova Isabella sposata a Don Rocco suo corrispondente, in casa ◀di▶ cui viene ad albergare. La virtù e la passione della fanciulla sono a cimento. Egli si determina a partire e gire in America. Ella sente il tiro ◀di▶ leva, sviene, e ripigliati i sensi obbliga Don Rocco con mille ragioni a consentire che vada a chiudersi in un ritiro. Questa commedia è nel buon genere tenero ed insinua l’avversione alle nozze disuguali ◀di▶ una fanciulla ◀di▶ quindici a venti anni con un vecchio che ne ha scorsi più ◀di▶ settanta. Il giudizio, la regolarità, la morale, la delicatezza delle dipinture, la versificazione e la locuzione eccellente, ne formano i pregi principali. Merita ben ◀di▶ essere dagli esteri conosciuta, singolarmente per le seguenti cose: per le piacevoli scene ◀di▶ Don Rocco col suo domestico Muñoz; per quelle d’Isabella col suo amante, e spezialmente per la 12 dell’atto I, e l’11 del II; per l’angustia d’Isabella astretta dal vecchio a parlare all’amante mentre egli da parte ascolta ed osserva, che benchè non nuova produce tutto l’effetto; per quella in cui Isabella ode il tiro ◀di▶ leva del vascello nel quale è imbarcato l’amante; e finalmente per l’aringa eccellente d’ Isabella, in cui svela i secreti del suo cuore al marito, detesta l’ inganno del tutore, assegna le ragioni ◀di▶ non aver ella parlato chiaro, rifondendone la cagione all’educazione che si dà alle donne onde si avvezzano alla dissimulazione. Piacemi ◀di▶ tradurre per saggio buona parte della dilicata scena 11 dell’atto II:
Isab.
Vien gente . . . oimè! Desso è che viene! io vado . . .Misera che farò? Veder nol voglio.Gio:
Isabella?Isa.
Se amore o gentilezzaQuì vi scorge, o signor, per congedarvi,Il ciel vi guardi e vi conduca (aimè!)Gio:
A dirti io vengo sol . . .Isa.
Sì che ten vai,Lo so: va pur, te lo consiglio io stessa,Vanne crudel: se hai tu valor bastantePer eseguirlo, anch’io, se pria non l’ebbi,Tanto or ne avrò per affrettar co’ prieghiL’infausto istante:Gio:
Ah che non sai qual pena . . .Isa:
Eh sì, quanto io ti debba io non ignoro,So . . . parti, fuggi, lasciami morire ..Ma infin ten vai? ma certo è dunque? è certo?Dopo un sì fido amor, dopo tant’anni,Dopo tante speranze, ecco qual premioCi preparò la sorte! Ah l’amor mioCiò meritò?Gio:
L’ho meritato io forse?Ingrata donna e che facesti mai?Per te, per te ... tu la cagion tu seiD’ogni tormento mio! Qual fu la tuaFacilità crudel! Dunque ha potuto.In breve ora un rispetto una violenzaAstringerti a disciorre il più bel nodoFatto per man d’amor, dal tempo stretto?Oh tempo! oh lieti dì! te ne rammenti?Ti rammenti, Isabella ...Isa.
Io vengo meno ...Gio:
D’un innocente amor dolci gustammoE teneri momenti! La strettezza,Il concorde voler, l’etade, il genio,Gli scherzi, i finti sdegni . . .Isa.
Ah tu m’uccidi!Gio:
Un motto, un guardo tuo, qualche sospiroEra de’ voti miei gloria e misura.Tutto è finito! S’io t’amai, se un tempoCi amammo, un’ ombra or ne rimane, un sogno.D’un vil cedesti agli artifizj indegni!Vana illusione e gelosia fallaceIn te si armaro del mio amore a danno!Fralezza femminile!Isa.
Il cuor mi scoppia;Tardi ne piango.Gio:
Tardi, è ver; la morteTerminerà il mio male.Isa.
Il ciel nol voglia.Io, sì, ne morirò, che in me non sentoValor per tante pene; ahi sventurata!Gio:
Addio mio ben, non ci vedrem più mai,Lungi da te cercherò climi ignoti.Serba, mia cara; altro da te non bramo.Amami, pensa a me; forse ristoroTroverò al mio dolore, immaginandoChe una lagrima almen, qualche sospiroPotrò costare alla beltà che perdo!
Più piacevolezza, più forza comica scorgesi nella Mogigata, i cui caratteri sebbene non tutti nuovi veggonsi delineati con circostanze proprie a svegliare l’attenzione perchè tratte con garbo dal puro tesoro della natura. Due coppie ◀di▶ personaggi dissimili, cioè due fratelli e due cugine in continuo contrasto, danno acconcio risalto non meno alla moralità che al ridicolo. Nè due fratelli vedesi l’immagine degli Adelfi ◀di▶ Terenzio. Don Martino simile a Demea burbero, difficile, avaro, intrattabile, rileva la sua figliuola Chiara con tanta asprezza che ne altera l’indole e la rende falsa e bacchettona. Don Luigi simile a Mizione nella dolcezza ma con più senno indulgente, e più felice ancora nel frutto delle sue cure paterne, educa la sua Agnese con una onesta libertà, la forma alla virtù, alla sincerità, alla beneficenza. Trionfa la gioviale ragionevolezza ◀di▶ Don Luigi e l’amabile franchezza ◀di▶ Agnese al confronto dell’aspro e tetro umore ◀di▶ Don Martino e dell’ipocrisia ◀di▶ Chiara. Ma questi caratteri disviluppandosi con maestrevole economia lasciano alla bacchettona il posto ◀di▶ figura principale nel quadro ossia nell’azione che consiste nel discoprimento della ◀di▶ lei falsa virtù e santità, per mezzo ◀di▶ un tentato matrimonio clandestino. Discostandosi questa favola dalla precedente nella sola specie ne conserva i pregi generali della buona versificazione, del buon dialogo, della regolarità, della grazia e del giudizio. Lodevoli singolarmente nell’atto I sono: la prima scena in cui si espone il soggetto, si dipingono i caratteri, e si discopre con senno la sorgente della simulazione ◀di▶ Chiara: le due seguenti ove si manifesta il carattere leggiero, stordito e libertino ◀di▶ Claudio gli artifizj dell’ astuto Pericco proprj della commedia degli antichi ed accomodati con nuova grazia a’ moderni costumi Spagnuoli. Anima l’atto II un colpo ◀di▶ teatro che rileva l’ipocrisia ◀di▶ Chiara e la vera bontà ◀di▶ Agnese, perchè quella, per discolparsi ◀di▶ un suo errore, all’arrivo ◀di▶ suo padre prende il linguaggio melato degl’ ipocriti e fa credere col pevole la cugina. Nell’atto III son da notarsi le seguenti cose: un altro colpo ◀di▶ bacchettona allorchè Chiara parlando delle sue nozze clandestine con Pericco, si accorge che viene il padre, e senza avvertirne il servo muta discorso, dicendo, io volea mettermi tralle cappuccine per meritare con una austerità maggiore più gloriosa corona, ma bisogna obedire al padre: la scena in cui Don Luigi vorrebbe che ella si fidasse ◀di▶ lui e gli dicesse se inclini allo stato conjugale, ed ella punto non fidandosi continua sempre col tuono ◀di▶ bacchettona: l’artificio con cui si prepara lo scoglimento colla mutazione che fa un parente del suo testamento. Egli volea lasciar Chiara erede del suo, ma sapendo che si faceva religiosa, fa la sua disposizione a favore ◀di▶ Agnese e muore. Ciò forma la disperazione ed il castigo dell’avido Don Martino, ◀di▶ Claudio e ◀di▶ Chiara. Tutto per essi è sconcerto, amarezza, disperazione, quando Agnese pietosa e magnanima intercede per la cugina da cui era stata offesa, promette ◀di▶ rinunziarle i beni ereditati per non lasciarla cadere nella miseria, e la riconcilia col padre. Questo scioglimento interessante è accompagnato da una felice esecuzione. Noi ne tradurremo soltanto uno squarcio. Vada (dice della figlia l’ irato Don Martino) vada da me lontana, viva infelice, sappia a quante disgrazie la soggetta il pessimo suo procedere. Ma Agnese in questa guisa esprime i benefici suoi concetti:
No non fia mai che la disgrazia io veggaDi mia cugina, e non la senta io stessaNel più vivo del cuore. Amato Padre,Poichè appresi da te le altrui sventureA deplorar, ed a mostrar con fattiNon con parole una pietà verace,Concedimi (e ben so che me ’l concedi)Ch’io le porga la man: misera, errante,Abbandonata io la vedrò, nè secoDividerò i miei beni? Ah no, detestoUna ricchezza sterile che il numeroDegli oppressi non scemi. Oggi assicuriLegittimo contratto in suo favoreQuanto a lei cedo: un generoso amplessoDel padre suo i dubbj miei disgombri,E a tutti il suo perdon renda la calma.Deh piaccia al ciel, cugina, che tu veggaDal sincero amor mio rassicurataLa tua felicità, giacchè vi prendeTanta parte il mio cuor, ch’esser non voglioFelice io stessa, se non sei tu lieta.
Queste due commedie bene scritte ◀di▶ un giovane poeta pieno ◀di▶ valore e ◀di▶ senno, le quali secondate potrebbero formare una fortunata rivoluzione nelle scene ispane, non si sono accettate da’ commedianti ◀di▶ Madrid. Io converrei seco loro per la seconda fino a tanto che l’autore non vi sfumasse certe tinte d’ipocrisia troppo risentite, onde per altro ben s’imita l’abuso che fanno i falsi divoti delle pratiche e dell’espressioni religiose. Ma perchè intanto non rappresentar la prima? Ciò che in Italia nuocono alle belle arti le mignatte periodiche e gli scarabocchiatori ◀di▶ ciechi Colpi d’occhio, nuoce all’avanzamento del teatro spagnuolo la turba degli apologisti ed il Poetilla che tiranneggia i commedianti nazionali.
Le altre due commedie impresse appartengono a Don Tommaso de Yriarte autore ◀di▶ altre note produzioni letterarie. S’intitolano el Señorito Mimado, ossia la Mala Educacion, e la Señorita Mal-criada, impresse nelle opere dell’ autore, e poi separatamente nel 1788, argomenti felicemente scelti per instruire e dilettare.
La prima si rappresentò in Madrid nel Coral del Principe nel 1788, e piacque. La dipintura ◀di▶ un giovane educato con moine e carezze senza verun freno da una madre debole e compiacente, e cresciuto senza virtù e abbandonato alla leggerezza e al libertinaggio, dovè interessare per gli effemminati sbalorditi originali ◀di▶ tal dipintura, i quali abbondano nelle società culte e numerose. I caratteri ◀di▶ Don Mariano mal educato, della Madre che chiama amor materno la cieca sua condiscendenza, ◀di▶ Donna Monica venturiera che si finge dama e serve ◀di▶ zimbello in una casa ◀di▶ giuoco, sono comici ed espressi con verità e destrezza. Conveniente è quello ◀di▶ Don Cristofano tutore e zio del Signorino accarezzato, che si occupa a riparare gli sconcerti della famiglia. Sono figure subalterne ed alcuna volta fredde D. Flora, D. Alfonso, e D. Fausto. D. Taddeo trapalon che esce una sola volta nell’ultimo atto, è un ritratto degli antichi sicofanti. La favola consiste nel discoprimento e nella punizione ◀di▶ D. Monica e nell’esiglio ◀di▶ D. Mariano per essere stato sorpreso in un giuoco proibito, che porta in conseguenza il dolore della madre ed il matrimonio che non interessa ◀di▶ Flora con Fausto. L’azione è condotta regolarmente, con istile proprio della scena comica, e colla solita buona versificazione ◀di▶ ottonarj coll’ assonante. Alcuno troverà soverchie le operazioni della favola nel periodo che si racchiude dall’ ora ◀di▶ sesta all’annottare. Il trage de por la mañana ◀di▶ D. Mariano indica ch’egli venga a casa prima dell’ora del pranso; e se egli non ha desinato in sua casa, non faceva uopo dirsene un motto? La venuta ◀di▶ D. Monica nell’atto III in casa ◀di▶ D. Cristofano dopo essere stata ravvisata per una ostessa Granatina, sembra poco verisimile, e con un solo ◀di▶ lei biglietto poteva invitarsi D. Martino al giuoco e rimetterglisi le lettere falsificate ◀di▶ Fausto e Flora. Soprattutto vi si desidererà più vivacità, ed incatenamento più necessario ne’ passi dell’azione. Noi facciamo notare tralle cose più lodevoli ◀di▶ questa favola le origini della corruzione del carattere ◀di▶ D. Mariano indicate ottimamente nella 2 scena dell’ atto I: la ◀di▶ lui vita oziosa descritta da lui stesso in pochi versi nella 7 del medesimo atto25: l’incontro comico della 13 dell’atto II ◀di▶ D. Monica dama riconosciuta per Antonietta ◀di▶ Granata ed i ◀di▶ lei artificj per ismentir D. Alfonso.
Gettata sul conio della precedente è la Señorita Mal-criada impressa e non rappresentata, in cui si descrive una fanciulla ricca guasta dall’educazione ◀di▶ un padre spensierato, come nell’altra è una madre tale che corrompe il costume del figliuolo: vi si vede una D. Ambrosia vedovetta trincata ◀di▶ dubbia fama, che alimenta nella Pepita capricciosa, impertinente, intollerante, tutte le dissipazioni della gioventù senza costume, e fomenta la ◀di▶ lei sconsigliata propensione per un vagabondo ciarlatano; come nell’altra favola D. Monica contribuisce alla ruina ◀di▶ D. Mariano: D. Eugenio onorato cavaliere che ama Pepita e vorrebbe correggerne i difetti, equivale all’ innamorato Fausto: D. Basilio che fa riconoscere nel finto Marchese un vero truffatore ◀di▶ mestiere, corrisponde a D. Alfonso, per cui è scoverta la falsa dama dell’altra favola. Il viluppo e lo scioglimento ◀di▶ questa è fondato, come nella precedente, nell’artificio ◀di▶ due finte lettere. La critica che tende alla perfezione delle arti, potrebbe suggerire che meglio forse risalterebbero gli effetti della pessima educazione ◀di▶ Pepita, se la ◀di▶ lei Zia si mostrasse meno pungente in ogni incontro, e D. Eugenio innamorato meno nojoso, che ostenta sempre una morale avvelenata da un’ aria d’importanza e precettiva: che egli non dovrebbe continuare nè a moralizzare nè a corteggiar Pepita promessa ad un altro, a cui il padre ha già contati diecimila scudi per le gioje: che Pepita in tali circostanze non dovrebbe nell’atto II innoltrarsi in una lunga e seria conferenza deliberativa col medesimo e con la Zia: che il carattere ◀di▶ Bartolo portato a tutto sapere e tutto dire non dovrebbe permettergli ◀di▶ tacer come fa in tutta la commedia l’ importante secreto della finta lettera posta ◀di▶ soppiatto in tasca ◀di▶ D. Eugenio, che egli non ignora sin dall’atto I: che in una favola che l’autore vuol far cominciare ◀di▶ buon mattino e terminar prima ◀di▶ mezzodì, non pare che possano successivamente accadere tante cose, cioè diverse conversazioni riposatamente, consigli, trame, deliberazioni, una scena ◀di▶ ricamare in campagna, un giuoco ◀di▶ tresillo, indi un altro ◀di▶ ventuna, ballo, merenda, accuse contro D. Eugenio e D. Chiara, discolpe, arrivo ◀di▶ un nuovo personaggio &c. Checchessia però ◀di▶ tutto ciò la favola merita molta lode per la regolarità, per lo stile conveniente al genere, per l’ottima veduta morale, per le naturali dipinture de’ caratteri ◀di▶ Pepita, D. Ambrosia, D. Gonzalo e del Marchese, nel quale con molta grazia si mette in ridicolo il raguettismo ◀di▶ coloro che sconciano il proprio linguaggio castigliano con vocaboli e maniere francesi, del cui carattere diede in Ispagna l’esempio il rinomato autore del Fray-Gerundio.
II.
Tramezzi.
Itramezzi che oggi nelle Spagne si rappresentano nell’intervallo degli atti delle commedie, o sono alcuni antichi entremeses buffoneschi ◀di▶ non molti interlocutori che continuano a recitarsi per lo più dopo l’atto I, o sono sainetes 26, favolette più copiose ◀di▶ attori e più proprie de’ tempi presenti, perchè vi si dipingono i moderni costumi nazionali, e se ne riprendono le ridicolezze e i vizj, recitandosi con tutta la naturalezza e senza la cantilena declamatoria delle commedie. Ora quando a tali sainetti, ossieno salse comiche sapessero i poeti dar la giusta forma, essi a poco a poco introdurrebbero la bella commedia ◀di▶ Terenzio e Moliere. Ciò pare che facciano sperare le lodate commedie inedite ◀di▶ Don Leandro de Moratin e le ultime impresse ◀di▶ Don Tommaso Yriarte. Ma coloro che in tutta la mia dimora in Madrid dal settembre del 1765 alla fine del 1783 fornirono ◀di▶ tramezzi le patrie scene, non seppero mai dar sì bel passo, 1 perchè non si avvisarono d’imparar l’ arte ◀di▶ scegliere i tratti nella società più generali, allontanandosi dalle personalità, per formarne pitture istruttive, 2 perchè non hanno dato pruova ◀di▶ saper formare un quadro che rappresenti un’ azione compiuta; 3 perchè hanno mostrato d’ignorar la guisa ◀di▶ fissar l’altrui attenzione su ◀di▶ un solo carattere principale che trionfi fra molti, ed hanno esposto p.e. una sala ◀di▶ conversazione composta ◀di▶ varj originali con ugual quantità ◀di▶ lume, e dopo avergli fatto successivamente cicalare quanto basti per la durata del tramezzo, conchiudono perchè vogliono, non perchè debbono, con una tonadilla.
Un gran numero ◀di▶ tali sainetti, e forse la maggior parte si compongono da Don Ramòn la Cruz, ◀di▶ cui con privilegio esclusivo fidansi i commedianti ◀di▶ Madrid. Le sue picciole farse sono state spesso ricevute con applauso, e per esse si sono talvolta tollerate goffissime commedie o scempie traduzioni del medesimo La Cruz. Per natura egli ha lo stile dimesso ed umile assai accomodato a ritrarre, come ha fatto, il popolaccio ◀di▶ Lavapies o de las Maravillas, i mulattieri, i furfanti usciti da’ presidj, i cocchieri ubbriachi e simile gentame che talvolta fa ridere e spesse volte stomacare, e che La Bruyere voleva che si escludesse da un buon teatro. Può vedersene un esempio nel sainete intitolato la Tragedia de Manolillo, in cui intervengono tavernari, venditrici e venditori ◀di▶ castagne, d’ erbe, facchini &c. e l’eroe Manolo che torna senza camicia e mal vestito dopo aver compito il decennio della sua condanna nel presidio ◀di▶ Ceuta. L’azione consiste nella morte ◀di▶ Manolo ferito da Mediodiente ◀di▶ lui rivale cui tutti gli altri personaggi fanno compagnia, buttandosi in terra e dicendo che muojono, ma subito l’istesso feritore ordina che si alzino, ed essi risuscitano insieme col trafitto Manolillo belli e ridenti. Il disegno ◀di▶ tal farsetta è ◀di▶ mettere in ridicolo gli scrittori ◀di▶ tragedie e l’osservanza delle unità. Gli scherzi e i motteggi si aggirano sulle corna, sulle frodi de’ tavernari, su i ladroni, su varie donne ◀di▶ partito condotte all’Ospizio e a San Fernando, su i pidocchi uccisi in presidio da Manolo,
Y en las noches y rato mas ociosomatava mis contrarios treinta à treinta.Mat.
Todos Moros?Man.
Ninguno era Cristiano.
In far simili ritratti dell’infima plebaglia egli ha mostrato destrezza. Segno a’ suoi strali mimici sono stati ancora frequentemente gli Abati che ostentano letteratura. Egli potrà aver anche fantasia per inventare e ben disporre favole nuove compiute; ma in tanti anni non l’ha certamente manifestata. In effetto fuori ◀di▶ certe invenzioni allegoriche che per lo più non si lasciano comprendere27, egli si è limitato a tradurre alcune farse francesi, e particolarmente ◀di▶ Moliere, come sono Giorgio Dandino, il Matrimonio a forza, Pourceaugnac &c. Ma in vece ◀di▶ apprendere da sì gran maestro l’arte ◀di▶ formar quadri compiuti ◀di▶ giusta grandezza simili al vero, egli ha rannicchiate, poste in iscorcio disgraziato e dimezzate nel più bello le ◀di▶ lui favole, a somiglianza ◀di▶ quel Damasto soprannomato Procruste, ladrone dell’Attica, il quale troncava i piedi o la testa a’ viandanti mal capitati, quando non si trovavano ◀di▶ giusta misura pel suo letto28.