Fabbri Giovan Paulo. Artista rinomatissimo per le parti d’innamorato, sotto il nome di▶ Flaminio, nacque a Cividal del Friuli, e menò vita travagliatissima e miserissima, per la morte specialmente della figliuola Tranquilla, rapitagli dal vajuolo a tre anni e dieci mesi, per la quale dettò soavissime rime.
Secondo il Bartoli, nacque il 1567, e morì il 1627 ; ma nè della data ◀di▶ nascita, nè ◀di▶ quella ◀di▶ morte, ho potuto trovar notizie precise.
Oltre che artista comico assai valente (recitò cogli Uniti e coi Fedeli), fu anche poeta ricco ◀di▶ soave spontaneità. Basterebbero a testimoniar del suo merito i nomi ◀di▶ Domenico Bruni e ◀di▶ Isabella Andreini. Quello nel preludio alle Fatiche comiche scriveva :
Gio. Paulo Fabri non cedendo agli antichi, et non invidiando a’ moderni col mezo del recitare, et dello scrivere, fa conoscere non bisognar dormire ogni sonno a chi vuole per mezzo dell’arte sua farsi onore.
E questa, in risposta a uno ◀di▶ lui, dettò il sonetto seguente, già riferito da F. Bartoli insieme alla proposta, adoperando le stesse parole a ogni fin ◀di▶ verso :
Tu, che godi felice i lauri e l’onda,qual desir nuovo la tua mente instigala tua bell’alma, tu sol la Quadrigarende l’onor ; e già la morte è dataal bianco augel, che si soave piange.Così poggiando sovra l’uso umanoche quel, che ’l giorno a noi porta dal Gange.
Di lui abbiamo a stampa :
Due suppliche | e duo ringraziamenti | alla Bernesca.In Trento, per Gio. Battista Gelmini, mdcviii.Quattro | Sonetti | spirituali. |In Perugia, nella Stamperia Augusta, 1610.Quattro | Capitoli alla Carlona. |In Trento, per Gio. Battista Gelmini, mdcviii.Rime varie | La maggior parte lugubri | ….In Milano, per Marco Tullio Malatesta, 1613.
Più qualche sonetto in foglio volante, e tre prologhi teatrali alle commedie ◀di▶ G. B. Andreini, Il Lelio Bandito, La Turca, e Due commedie in commedia.
Nel libretto delle Rime varie sono le maggiori notizie della sua vita. Il luogo ◀di▶ nascita ci dice egli stesso in un sonetto A Cividal del Friuli sua patria in occasion ◀di▶ guerra civile, e ci ripete poi nella Canzone, nella quale descrive parte de’ suoi infortunij da che nacque fino all’anno quarantesimo sesto ◀di▶ sua età, e la conchiude con la morte della figliuola. Canzone che riferisco intera, come quella d’onde trasse le sue notizie Francesco Bartoli :
Acquetar non si può la mente afflittaA’ suoi mali pensando antichi, e novi,E come così fera un uom perseguaFortuna rea nel mal’oprar invitta.Musa benchè trafittaDa varie punte, pur membrar ti gioviQuel che fin’or tutte sventure adegua,Ch’abbia sofferto mai misero core.O tenace doloreMentre del viver mio la sorte scrivoCome languido son per te mal vivoLasciami, che ben tosto a me ritornoFarai col trarmi alfin d’oscuro giorno.Nacqui là dove il Natisone inondaNè disprezza gli studi, e le bell’arti,Città, che liberal provò Rosmonda.Altri il vero nascondaIo no ; povere fasce i primi segniDier d’infelicitate in quelle parti,Che poi seguimmi in ogni estran paese ;Così Penia mi preseAllevatrice infausta, e mi percosseNe’ miei primi vagiti ; indi si scosseTorbida stella ; era morir pur meglio,Ch’esser altrui d’alta miseria speglio.A pena giunto al primo lustro, avaraMorte mi tolse i genitori, ond’ ioPotea sperar se non ricchezze, almenoCome fanciullo imparaSotto severo zio timor, che rioStrazia tenero cor, tenero seno(Lasso) imparai ; nè v’ ha chi mi pareggi ;Spietatissime leggiD’affinità così trattate un vostro ?Parente crudelissimo, se ’nchiostroDovessi oprar quant’ ho versato sanguePer colpa tua, l’opra fariami essangue.Tolto da lui dove col senno è giuntaLodata libertà, che ogni altra vince,Semplice mossi il travagliato fiancoDa celeste desir l’anima punta ;Che ne fu poi disgiuntaDa chi togato altrui sembrava Lince,Ed era talpa in sua ragion non franco ;Onde mi volsi ad essercizio industre ;Così dal loco illustreDi chi tra pietre vide il ciel apertoSciolto, feimi tra libri un tempo esperto ;Ma, perchè m’era troppo il piè legatoFuggitivo mi trassi ad altro stato.Per l’ Adriano mar su picciol legnoVarcai onde, e perigli infin, che al lidoApprodai dove langue oggi Ravenna ;Ravenna ora non più real sostegno ;Di prisca gloria segno.Ben ne dà in mille carte altero grido,Che più d’una assaltò famosa penna ;E ben ne fan magioni auguste fede ;Di cui ciascuna cede,A ruina però, ch’alta pietateA maraviglia unisce. O voi cangiateDelizie, o Galla, e tu TeodoricoChe direste pel ver, ch’espresso io dico ?Il perduto vigor, che si vi piacque,E sì abbelliste liberali, e grandi,Poco quaggiù fastosa pompa dura.Atterra il Tempo, e furaOgni machina eccelsa ; in mezo à l’acqueQuante ne son, ch’à dirne i come, e i quandiFora tedio maggior, che trar dal cignoOpra d’ Astro malignoContr’ Ilio, sia influenza, o fato, o sorte,Che ’l tutto adduce a inevitabil morteVostra fede non è qual era in prima,Ch’ora s’avalla ogni elevata cima.Quivi per fin ch’ebbe duo segni il solePassati (e fur il Sagittario, e l’altroChe gli è freddo vicin) parco men vissi.Poco chiede Natura, e poco vuole.L’arte, che ne le scoleVenete appresi dichiarommi scaltroA scaltro pari a cui mia voglia dissi,Ed ei m’accolse, ore notturne al dieNe le fatiche mieSovente aggiunsi ; alimentaimi ; intantoDe la città si sparse in ogni cantoFama d’allegra allor comparsa schiera,Che per gioia d’altrui condotta s’era.Seco m’aggiunsi, e giovenetta mostraFei ne’ teatri, ch’or tanto deprimeNon ben saldo parer d’animi foschi ;Non già così chi ’l nobil capo inostraDe la Romana chiostraLodato eroe tra le famiglie primeDe’ Greci, e dei Latin come dei ToschiSaggio cultor, e ’n un Testor amante ;S’egli ad ogn’altro avantePoggia per gran saper, che dicon questiAristarchi bugiardi ogn’or molesti ?Tacciano ; e s’ han da dir dicano il vero,E non mutin color candido in nero.L’ Aquinate nol muta ; or tanto basti ;Che ben suo detto val più, ch’altri mille ;S’inciela ei divo ; i detrattori in terraS’appagan sol d’ambiziosi fasti :Ma, perchè troppo osastiAltri non dica, al mio spietato AchilleE ’n brevi note chiuderò gran cose.Mi fur pene amoroseContinue al cor finchè Imeneo legommiAvinto ne’ cui lacci or vivo, e stommiVenduta libertà senz’alcun prezzo ;E ’l pentirsi non vale in ciò da sezzo.Padre mi fe’ natura in cinque giriPosi tanto devuto amor paterno,Ch’altr’uom non è (cred’io) ch’egual sospiri.Fur sempre i miei desiri,Ch’abito sacro li cingesse, a luiRendendogli, che tiene il gran governoDe la terra, e del ciel Motor immoto.Ma, perchè mi sia noto,Che ’l propor, e ’l dispor varia potenzaVariar mi convenne ancor sentenza ;Vivi dar gli volea ; tre me ne tolseMorte ; e decreto, o permission mi sciolse.Ne la città, ch’ ha d’oro i bei costumiIacopo mio primier estinto germe ;Vittoria tu chiudesti i cari lumiIn grembo a Flora. O fiumiNon occhi, qui destate alma pietosaA lutto (foste almen mie gioie inferme)Tranquilla mia tu del Picen nel seggioSovran dov’esser cheggioTeco, giaci sepolta infrà que’ sacriMarmi al Vate maggior d’Ippona erettiCui patrii fur cartaginesi tetti.Monte sostenitor d’antico muroChe ’l vecchio piè d’ Adria ne l’onde bagniQuanto sarammi il ricordarmi duroDi te. Felice Ancùro,Che potesti salvar da la nemicaVoragine, benchè Mida si lagniLa patria tua, benchè la moglie pianga.Averrà me, che frangaOgn’ora il duol per non poter l’istessoA prò de la mia cara. Ahi pur concessoA fera vien, che col ruggito i figliRavvivi ; e me non ha chi pio consigli ?Pelican fortunato ancor tu puoiLa spenta prole ravvivar ferendoTe stesso, io no, che ferireimi or ora,E ferito m’avrei prima, che i suoiLumi chiudesse a noiLa mia diletta ; è vero al ciel salendoPer fruir lieta una perpetua aurora,Anzi un’eterno sol, che non tramonta.È ben l’anima prontaQuando ciò pensa a sofferir martire :Ma tosto, che s’accende in me ’l desireDi veder dolci pargoletti modiForz’è, ch’a lamentar la lingua io snodi.Sigismondo ben tu, ch’ultimo fineScherzi : ma non giamai qual tua sorella ;Cui freschissime rose in calde brineDate dal ciel, divineFean sue sembianze ; e non vegg’io chi mertePerduta io l’ ho, nè più trovarla spero,Se non m’appresso al Vero :Ma troppo andrà, poichè m’impruna il varcoFascio d’errori ; e non si può gir carcoCom’io misero son dov’ella è gitaAnzi tempo chiamata a l’altra vita.Canzon da la Potenza al NatisoneDov’è la Figlia miaDi’, che de’ miei tormenti ho detto poco.
Nella Essagerazione fatta in riva al Serchio, abbiamo più distesamente che qui il vivo desiderio ◀di▶ monacar le due figliuole, alle quali mostra a color fosco le pene del matrimonio, a esempio ◀di▶ sè forse, alla cui poca felicità maritale accenna in quei versi della Canzone :
Imeneo legommi,avvinto ne’ cui lacci or vivo, e stommivenduta libertà senz’alcun prezzo ;e ’l pentirsi non vale in ciò da sezzo.
e in questi altri dell’ Essagerazione :
Me contra ’l maritarsi ira non punge,benchè de’ suoi dolor mi viva a parle ;una ne’ lacci suoi vita ha serena.
Era egli nella Compagnia degli Uniti, che il 3 aprile 1584 scrivevan da Ferrara al Principe a Mantova, desiderosi ◀di▶ recarsi colà a recitare ? Probabilmente. Di altri Flamini ◀di▶ tal tempo non abbiam notizie : e il Fabri (secondo il Bartoli che lo fa nascere, come s’è visto, nel 1567, avrebbe avuto allora soltanto diciassett’anni) sappiam che cominciò a recitar giovinetto.
Andò con Francesco e Isabella Andreini alla Corte ◀di▶ Francia il 1603 : e allude a tal tempo nel I Capitolo al Della Genga, là dove dice :
Con le Comedie ho già servito ai Gigliche non teme del tempo i duri artigli.
Il Baschet (op. cit.) cita una ricevuta su pergamena del 31 dicembre 1603, per la somma ◀di▶ 600 scudi ai comici Isabella, Gio. Paolo Fabbri e Giovanni Pelesini, per l’opera loro prestata durante cinque mesi.
Della sua patria, dell’arte sua, e del suo stato assai miserevole discorre egli nella prima Supplica al Cardinal Madruzzi, vescovo e principe ◀di▶ Trento :
…. Monsignor, io sonoun, che sempre in comedia s’innamora :Ma così Dio della sua grazia il donomi conceda benigno come mainon sento al cor d’Amor tempesta o tuono.Mi chiamano Flaminio uomini assai :ma ’l mio nome è Gio. Paolo, e son de’Fabbrinato in Friul.……………Signor, non ho denari, e ’l mio Destinoche spesso dà molestia al suo vicino ;ho tra l’altre una mia picciola figlia,che co’ suoi modi pargoletti in fasceun’ Aurora bambina rassomiglia.disse ’l Petrarca ; s’ella non ha ajutobisognerà che tosto il mondo lasce.Oimè, che quasi meno io son venutonel dirvi questo. Humil fo a voi ricorso,essendo d’ogni bene destituto.
A Trento era colla compagnia l’autunno del 1608, quando cioè pubblicò i Capitoli e le suppliche ; e innanzi ◀di▶ partire si duole nella seconda ◀di▶ esse al Capitan ◀di▶ Trento, Barone ◀di▶ Thon, della miseria dei comici non andando gente a teatro.
……………Voi che quasi ogni sera siete statoa favorirci, e spesso compatitoavete al nostro miserrimo stato.Sapete ben come ’l negozio è gito.Non abbiam colto alcuna sera tantoche bastasse per cena ad un Romito.Non va lenta così biscia all’incantocome i Trentini alla comedia. È vero,che l’estremo del riso assale il pianto.In Verona, in Vicenza, in Brescia alteroor ha preso il guadagno altro sentiero.In Friul non cred’io la testa al Toroveder tagliar, idest far carnevale,perchè d’ir a Bologna io spasmo e moro.
Qui narra ◀di▶ certi suoi pegni ◀di▶ libri e ◀di▶ medaglie a Bologna, e invoca al solito ajuto ◀di▶ danaro al suo protettore. Danaro, anche al solito, mandatogli, pel quale scrisse poi al Thon un nuovo capitolo ◀di▶ ringraziamento, ove son questi versi accennanti, ancora, alla figliuola Tranquilla :
……………
questa è una Bambina,che in Brescia, non ha molto, a patir venne ;perchè trovò alla madre il seno asciutto,isvenne, e fu quasi al morir vicina.Muta eloquenza filïal che in tuttoogni altra vinci, io volli allor allora,venir a dirvi il mio doglioso lutto :Ma per ventura, d’una stanza fuorauscì una donna che pietoso il pettole porse, e richiamolla a nova Aurora.
Il 26 ottobre 1612, Tristano Martinelli scriveva da Firenze al Cardinal Ferdinando Gonzaga, mandando una lettera ◀di▶ Maria de’ Medici, nella quale era il desiderio ◀di▶ mettere assieme una compagnia ◀di▶ comici tra cui figurava il nostro Fabbri.
Lo troviamo il 1613 a Milano, dove pubblicò, terminate le recite, un sonetto ◀di▶ ringraziamento, già riferito dal Paglicci (op. cit.) assieme a un altro congratulandosi della famosa libreria, che Monsignor Illustrissimo e Rev.mo Federico Cardinal Borromeo suo arcivescovo ha fatta, e tuttavia va facendo ; e il 1614, per due mesi, a Genova, secondo la concessione ◀di▶ quel Senato del 18 agosto. (V. Bernardini).
Fabbri Adelaide, nata a Cesena il 1796, si diede giovanissima all’arte drammatica. Esordì, generica, in Compagnia Brangi, sotto l’Isabella Buzzi, assumendo dopo un anno il ruolo ◀di▶ prima attrice giovine, col quale fu scritturata il 1821 in Compagnia ◀di▶ Tommaso Zocchi, che abbandonò poi per passare, il ’22 e ’23, con l’Assunta Perotti e Luigi Fini. Si recò il ’24 col capocomico Mario Internari a Napoli, ove rimase fino al ’29 colla nuova società de’Fiorentini, Tessari, Prepiani e Visetti. Formò poscia compagnia, nella quale assunse la parte ◀di▶ prima attrice assoluta : ma dovette, costrettavi dalla avversa fortuna, accettare il ruolo ◀di▶ madre nobile, seconda donna e caratteristica, offertole da Romualdo Mascherpa, col quale stette fino alla morte ◀di▶ lui che accadde nel ’48. Passò quindi nel ’51 madre e caratteristica in Compagnia ◀di▶ Cesare Dondini ; poi in quella del fratello Ettore sino al ’73, in cui, pervenuta all’età ◀di▶ settantasei anni, si ritirò dalle scene, cessando ◀di▶ vivere due anni dopo.

Il Colomberti così narra le cagioni che la determinarono a entrar nell’arte :
Giovine ed inesperta, si innamorò ◀di▶ un cattivo soggetto, e contro il consiglio dei ◀di▶ lei genitori volle sposarlo ; ma ben presto si penti della sua scelta. Era essa chiamata nella sua patria la bella Cappellarina, perchè figlia ◀di▶ un fabbricante ◀di▶ cappelli. Quel sopranome era da lei meritato, perchè ad una figura venerea univa un volto ◀di▶ bellissimi lineamenti. La gelosia invase il cuore del ◀di▶ lei marito, benchè ella fosse ◀di▶ condotta onestissima, e tanto lo predominò, che tentò ◀di▶ ucciderla ; e lo avrebbe fatto, se una combinazione non lo avesse impedito. Stanca ◀di▶ soffrire gl’ingiusti sospetti del marito, spaventata dal pericolo passato, rifugiossi nella casa paterna ; e non trovandosi sicura colà, si recò nascostamente a Forli presso ◀di▶ una cugina ◀di▶ sua madre. Ma temendo sempre ◀di▶ esser troppo vicina al marito, si offri al capo comico Brangi, che con la sua Compagnia occupava il teatro ◀di quella città, come generica giovine.