CAPO V.
Continuazione del teatro Latino.
I.
Diverse specie di▶ favole sceniche
Latine.
Ebbe il teatro latino due specie ◀di▶ tragedie, drammi Italici, diverse commedie, mimi, e pantomimi. Le tragedie erano o palliate che imitavano i costumi de’ Greci, a’ quali appartenevasi il pallio, o pretestate che dipingevano il costume de’ Romani che usavano la pretesta. Di quest’ultima specie erano la tragedia ◀di▶ Ennio intitolata Scipione, il Bruto ◀di▶ Azzio, l’ Ottavia ◀di▶ Mecenate, e l’Ottavia attribuita a Seneca ecc.
Le favole Italiche, delle quali parla Donato nella prefazione alle commedie ◀di▶ Terenzio, erano azioni giocose ◀di▶ personaggi pretestati, le quali doveano rassomigliare alle greche Ilarodie.
La commedia latina si copiò dalla nuova de’ greci, e non ebbe coro ◀di▶ sorta alcuna. La caterva introdotta nella Cistellaria ◀di▶ Plauto, e il grex che trovasi nell’Asinaria, ne’ Cattivi, nella Casina, nell’Epidico, e nelle Bacchidi del medesimo, altro non sono che il corpo o coro intero degli attori, il quale con pochissimi versi nella fine prende commiato dall’uditorio (Nota XVI). Terenzio neppure ◀di▶ tal gregge fece uso; ond’è che nè anche da ciò potè derivare il farfallone ◀di▶ certo Francese, il quale, come narra Madama Dacier, lodava i cori delle commedie ◀di▶ Terenzio (Nota XVII).
Se si attende all’attività dell’azione, la commedia latina dividevasi in motoria e stataria: se si mira alla natura de’ costumi imitati, essa era palliata, ossia greca, e togata, ossia Romana; e quest’ultima suddividevasi in togata propriamente detta, in tabernaria, e in Atellana. La togata propria era seria, e corrisponderebbe alla moderna commedia nobile, e talvolta giugneva ad essere pretestata, a cagione de’ personaggi cospicui che soleva ammettere, ed anche trabeata, così detta dall’antica trabea reale degli auguri e de’ re. Questo genere ◀di▶ commedia togata trabeata parve nuovo a’ tempi ◀di▶ Augusto; e fu inventato da Cajo Melisso da Spoleto, il quale nato ingenuo, ma esposto per la discordia de’ suoi genitori, fu poscia donato per gramatico a Mecenate, per la cui opera insinuatosi presso Augusto fu preposto a rassettare le Biblioteche nel Portico ◀di▶ Ottavia129. La tabernaria frammischiava l’eccellenza alla bassezza, e prendeva il nome da taberna, luogo frequentato da persone ◀di▶ ogni ceto. L’Atellana era una commedia bassa sì ma piacevole, lontana alla prima da ogni oscenità e licenza scurrile (siccome nel secondo capo del presente volume abbiamo osservato), indi contaminata dall’esempio de’ mimi. Essa per quel che ricavammo da Strabone, si recitò lungo tempo da attori privilegiati che godevano della Romana cittadinanza, e nella lingua nativa del paese degli Osci donde venne; ma dopo alcun tempo verisimilmente se ne continuò lo spettacolo anche nel comune linguaggio latino, giacchè troviamo diversi scrittori Atellanarii latini. Tra questi si distinse Lucio Pomponio Bolognese, il quale fiorì nel tempo che Tullio prese la toga virile. Nonnio, Prisciano, Carisio, Festo e Macrobio, hanno conservati i nomi ◀di▶ moltissime sue favole. Tali sono gli Adelfi, Agamennone supposto, l’Aruspice, l’ Asinaria, l’Atreo, il Citarista, i Campani, la Cena, il Collegio, la Conca, l’Ergastolo, i Galli transalpini, le Calende Marzie, il Lare famigliare, il Medico Pansa, o la Sposa ◀di▶ Pappo, le Nozze, il Zio, la Filosofia, i Pittori, i Pescatori, la Porcaria, il Rustico, la Satira, i Sinefebi, Verre ammalato, Macco esule, i due Macchi, Pitone Gorgonio, ed altre molte130. Di quest’ultima favola parlando Scaligero intorno a Varrone, dice: Pomponio poeta Atellanario intitolò certo esodio 131 Pitone Gorgonio, il quale, a mio credere, altro non era che il Manduco, perchè il nome ◀di▶ Pitone è posto per incutere terrore, e Gorgonio equivale a Manduco, dipingendosi i Gorgoni con gran denti. Manduco era un personaggio ridicolo coperto ◀di▶ una maschera ◀di▶ gran guance con una gran bocca aperta e con certi dentacci che si moveano e facevano molto strepito, ond’è che i ragazzi se ne spaventavano132. Questo personaggio era menato intorno ne’ giuochi con altre maschere spaventevoli e ridicole, principalmente nel rappresentarsi le Atellane. Altre figure ridicole introducevano i poeti Atellanarii nelle persone del Macco e del Buccone, delle quali favellasi in un passo ◀di▶ L. Apulejo da Giusto Lipsio interpretato scrivendo a Niccolò Briardo133. Erano esse figure sceniche e notabili per la sordidezza, goffaggine e fatuità. Il dotto Anton Francesco Gori riconosce il Macco degli antichi in una figurina trovata nel Monte Esquilino e conservata nel Museo ◀di▶ Alessandro Capponi. Essa avea due gran gobbe nel petto e nelle spalle, coprivasi ◀di▶ ampie braghe insino a’ piedi, portava in testa una beretta aguzza, e una maschera in volto alterata da un gran naso. Stimava il lodato valoroso antiquario che la voce maccus appartenesse alla lingua Osca, la qual cosa non sembra improbabile; ma è pur certo che la Greca voce μακκαειν, delirare, e l’altra μακκοαω, far l’ indiano, usata da Aristofane ne’ Cavalieri, corrispondono alla goffaggine e alla stolidità del macco degli Atellanarii.
II.
Quali attori in Roma si reputassero
infami.
In proposito degli attori delle Atellane vuolsi osservare che tra’ privilegii loro accordati, era quello ◀di▶ escludere dalla rappresentazione de’ loro esodii e farse giocose gli altri istrioni, i quali per lo più erano schiavi e in generale pochissimo considerati fuori della scena. Non era dunque l’esercizio del rappresentare quello che disonorava gli attori in Roma, ma sì bene la loro condizione ◀di▶ servi accoppiata alla vita dissoluta che menavano; là dove gli Atellani liberi, e morigerati sino a certo tempo, godevano della stima della società e delle prerogative ◀di▶ cittadini. Egli è però da avvertirsi che anche gli altri istrioni allorchè vivevano onestamente e segnalavansi per l’eccellenza del loro mestiere, si onoravano e si ammiravano (Nota XVIII). Notissima è la stima particolare che Cicerone avea del tragedo Esopo e del dotto Roscio, come appare dalle ◀di▶ lui Lettere. Il medesimo Oratore, secondo Macrobio, riprese il popolo Romano in una orazione per avere una volta schiamazzato rappresentando Roscio134. E lo stesso Macrobio ci assicura che dal Dittatore L. Cornelio Silla venne Roscio onorato coll’ anello d’ oro, cioè fu ascritto all’ordine equestre. In fatti la disistima ch’ ebbesi poscia per le persone ◀di▶ teatro in Roma, non pare che cadesse su i tragedi e i comedi, ma su gli attori mimici de’ quali parleremo appresso. Senza ciò che dovremmo pensare ◀di▶ Augusto, il quale, non già per pena fulminata contro ◀di▶ loro, ma per grandezza, secondo me, espose alcuni cavalieri e matrone Romane a rappresentare in teatro135? Fu questo poi vietato con un Senatoconsulto; ma sembra che il divieto fosse andato in disuso, trovandosi appresso trasgredito. Domizio avo ◀di▶ Nerone, chiaro poi per gli onori trionfali, sotto Augusto fe rappresentare una farsa mimica in pubblico da matrone e cavalieri in vece de’ soliti attori136. Pisone, il quale fu in procinto ◀di▶ essere acclamato imperadore e sostituito a Nerone, se la congiura ◀di▶ tanti illustri Romani non si fosse scoperta, soleva esercitarsi a rappresentar tragedie137. Nerone stesso ne’ Giuochi Massimi prese dall’ordine Senatorio ed Equestre varie persone ◀di▶ entrambi i sessi, e le fe rappresentare138. L’eroe, il filosofo Trasea Peto, nel quale, al dir ◀di▶ Tacito, Nerone volle estinguere la virtù stessa, in Padova sua patria cantò vestito da tragedo ne’ giuochi Cestici istituiti dal Trojano Antenore139.
III.
Mimi.
I mimi de’ latini furono picciole farse buffonesche che usaronsi da prima per tramezzi, e poscia formarono uno spettacolo a parte, avendo acquistato molto credito per l’eccellenza ◀di▶ alcuni poeti che ne scrissero, e molta voga per la buffoneria che gli animava, e per la sfacciataggine delle mime.
A tempo ◀di▶ Giulio Cesare fiorirono due celebri scrittori ◀di▶ favole mimiche, Decimo Laberio cavaliere Romano e Publio Siro schiavo e poi liberto. Laberio per suo esercizio e diletto compose moltissimi mimi che si rappresentavano, e forse da lui stesso ancora privatamente. La qual cosa per avventura non ignorando Giulio Cesare volle che negli spettacoli dati per lo suo trionfo Laberio stesso comparisse in teatro (siccome avea già obbligati i due principi reali dell’Asia e della Bitinia a danzare in pubblico la pirrica) promettendogli cinquecentomila sesterzii, cioè intorno a quattordicimila ducati Napoletani. Più ◀di▶ questa offerta valse forse, a persuader Laberio ad avvilirsi in simil guisa, la potenza ◀di▶ Cesare che invitando comandava. Obedì, ma volle vendicarsene in un prologo, ◀di▶ cui ecco una parte:
Necessitas, cujus cursus tranversi impetumVoluerunt multi effugere, pauci potuerunt,Quò me detrusit penè extremis sensibus!Quem nulla ambitio, nulla unquam largitio,Nullus timor, vis nulla, nulla autoritasMovere potuit in juventa de statu,Ecce in senecta ut facilè labefecit locoViri excellentis mente clemente editaSubmissa placide blandiloquens oratio.Etenim ipsi dii negare cui nil potuerunt,Hominem me denegare quis posset pati?Ego bis tricenis annis actis sine nota,Eques Romanus lare egressus meo,Domum revertar mimus. Nimirum hoc dieUno plus vixi mihi quam vivendum fuit.
Nella stessa favola poi sparse altri tratti ◀di▶ satira che andavano a colpire il Dittatore. Col vestito ◀di▶ uno schiavo che era bastonato, gridava fuggendo,
Porrò, Quirites, libertatem perdimus.
Ed aggiunse appresso:
Necesse est multos timeat, quem multi timent;
al qual motto si rivolse il popol tutto à mirar Cesare140. Ma quantunque sentisse questi le punture, mantenne la parola quanto al premio, e gli diede anche l’anello quasi in segno ◀di▶ ristabilirlo nella dignità equestre, dalla quale pareva Laberio per ◀di▶ lui capriccio decaduto. Andò questo mimo cavaliere dopo la rappresentazione a prender luogo tra gli altri della sua classe, e si abbattè in Cicerone, il quale mostrandosi imbarazzato diceva non potergliene dar molto, a cagione della gran folla che vi era, alludendo al gran numero ◀di▶ senatori e cavalieri creati da Cesare. Ma Laberio che non cedeva all’Arpinate nel motteggiare, rispose che non si maravigliava che stimasse ◀di▶ stare a disagio in un solo sedile chi era solito ad occuparne due in un tempo; satireggiando in tal guisa la doppiezza ed incostanza dell’oratore. Orazio141 riprende i mimi ◀di▶ Laberio come poco eleganti; e veramente egli si arrogava una gran libertà d’inventar parole nuove, siccome leggesi in Aulo Gellio. Scaligero però stima ingiusta la censura ◀di▶ Orazio142; quasi che egli da’ frammenti soli che ne rimangono, potesse giudicar più drittamente ◀di▶ un Orazio che ne conobbe gl’ interi componimenti. Di varie ◀di▶ lui farse fanno menzione gli antichi, e specialmente il nominato Gellio143: Theophinus, Fullonica, Staminarii, Restio, Compitalia, Cacomemnon, Nacca, Saturnalia, Necromantia, Scriptura, Alexandra, nel qual mimo diffinisce il giuramento,
Quid est jusjurandum? emplastrum æris alieni.
In un altro suo mimo intitolato Rector inserì i seguenti versi sull’acciecamento ◀di▶ Democrito da un vecchio avaro applicato a’ proprii casi:
Democritus Abderites physicus philosophus clypeumConstituit contra exortum Hyperionis, oculosEffodere ut posset splendore aereo, ita radiisSolis aciem effodit luminis, malis beneEsse ne videret civibus! sic egoFulgentis splendore pecuniæ voloElucificare exitum ætatis meæ,Ne in re bona videam esse nequam filium.
Publio Siro così denominato dalla Siria ove nacque, fu schiavo in Roma, ma ottenuta la libertà andò rappresentando i suoi mimi per l’Italia. Tornato indi a Roma ne’ giuochi ◀di▶ Cesare riportò vittoria ◀di▶ tutti gli attori e poeti e ◀di▶ Laberio stesso. Cesare offeso dall’arroganza e maldicenza ◀di▶ costui abbracciò volentieri l’occasione ◀di▶ mortificarlo, dichiarandosi pubblicamente a favore de’ mimi rappresentati da Publio. Di questo liberto ci sono pervenute alcune centinaja ◀di▶ versi, i quali contengono eccellenti sentenze e insegnamenti per la vita civile, e la ◀di▶ loro eleganza ci rende molesta la perdita delle intere sue favolette. In sentimento ◀di▶ Cassio Severo144 i ◀di▶ lui detti sentenziosi reputavansi superiori a qualunque comico e tragico greco e latino. Aulo Gellio ce ne ha conservati moltissimi versi. Fra quelli che più volte se ne raccolsero e si stamparono, ne sceglieremo per saggio alcuni pochi che ci sembrano degni ◀di▶ osservarsi per la nitidezza ed eleganza e per le verità, che contengono:
Ad pœnitendum properat, citò qui judicat.Amici vitia si feras, facis tua.Bis vincit qui se vincit in victoria.Citò ignominia fit superbi gloria.Felix improbitas optimorum est calamitas.Heredis fletus sub persona risus est.Fortuna vitrea est, tum cum splendet, frangitur.Ignoscito sæpe alteri, nunquam tibi. &c.
Altri non divulgati trovansene in fine ◀di▶ un codice del Capitolo Veronese, alcuni de’ quali sono riferiti dal Marchese Maffei nel suo trattatino de’ Teatri.
Vincere est honestum, opprimere acerbum, sed pulchrum ignoscere.Pœnæ satis est, qui læsit, cum supplex venit.Etìam sine lege pœna est conscientia.Sat est disertus, pro quo veritas loquitur &c.
Dopo questi si distinsero tra’ mimografi Lentulo, ◀di▶ cui favellano San Girolamo e Tertulliano, Gn. Mazio da Gellio appellato dottissimo, e Lucio Crassizio ◀di▶ famiglia Tarantino. Costui ebbe il cognome ◀di▶ Paside che poi trasformò in Panza ed attese da prima agli studii teatrali e compose alcuni mimi. In Ismirne acquistò rinomanza con un dotto commentario, ed in Roma insegnò le belle lettere a molti nobili e spezialmente a Giulio Antonio figliuolo del triumviro. Fu stimato al pari del famoso Verrio Flacco precettore de’ nipoti ◀di▶ Augusto. Terminò il suo corso dandosi alla filosofia dietro la scorta del filosofo Quinto Settimio.
I mimi prodotti da tali scrittori erano ingegnosi, morali e piacevoli, nè si scostavano moltissimo dalla commedia. Ma la buffoneria e l’oscenità a poco a poco corruppe queste picciole farse, specialmente coll’ introdurvisi le donne. Dicemmo nel teatro Greco che nelle commedie e tragedie non rappresentavano donne, ed in Roma avvenne lo stesso. L’ istrione Rutilio rappresentava le parti ◀di▶ Antiopa ed altre donne. Nerone stesso, secondo Suetonio, colla maschera finta a somiglianza delle femmine ch’egli amava, cantando rappresentò Canace che partoriva145. Non così nelle mimiche rappresentazioni, nelle quali, per condire ◀di▶ oscenità la buffoneria, s’introdussero le donne. Allora fu che de’ mimi degenerati si disse da Ovidio, imitantes turpia mimi, e che Diomede diffinì la mimica, factorum turpium cum lascivia imitatio (Nota XVIII). Da quel tempo s’intesero ne’ fasti scenici mentovati i nomi delle mime Origine e Arbuscula, delle quali favella Orazio ne’ Sermoni, e ◀di▶ Citeride mima favorita ◀di▶ Marcantonio, e ◀di▶ Lucilia mima che visse sino a cento anni nominata da Plinio. Della sfacciataggine ◀di▶ simili mime sono pieni gli scrittori. Mima e meretrice diventarono sinonimi. Sul medesimo teatro non che nelle case, campeggiava la loro impudenza. A un cenno del popolo dovevano nudarsi e fare spettacolo del proprio corpo. Ma in tal caso dir non saprei, se maggiore sfacciataggine mostrassero queste schiave in eseguirlo, o il popolo in comandarlo. Assisteva Marco Porcio Catone ai giuochi Florali fatti dall’Edile Messio l’anno ◀di▶ Roma DCXCVIII, ed il popolo si vergognò ◀di▶ chiedere che le mime deponessero le vesti, rispettando la presenza ◀di▶ quel virtuoso cittadino; ma egli avvertitone da Favonio suo amico uscì dal teatro, e il popolo contento l’accompagnò con plausi strepitosi, e richiamò sulla scena l’antico costume146.
IV.
Pantomimi.
I Pantomimi coltivati in Roma poterono derivare dalla tacita gesticolazione ◀di▶ Livio Andronico o dalle antiche danze Orientali e Greche surriferite; nè se ne può ragione-volmente attribuire la prima invenzione a Batillo e Pilade famosi istrioni ballerini del tempo ◀di▶ Augusto. Al più questi diedero un gusto più moderno all’antica arte pantomimica. C. Giulio Batillo ◀di▶ Alessandria dalla prisca danza comica formò l’Italica, la quale per la troppo oscenità diede motivo ai tratti satirici lanciati da Giovenale nella citata satira sesta. P. Elio Pilade ◀di▶ Cilicia spiccò ne’ balli tragici, e secondo Suida e Ateneo compose anche un libro in tal materia. Egli ebbe un discepolo chiamato Ila, il quale rappresentando co’ gesti una tragedia, nel voler esprimere queste parole, il grande Agamennone, sollevò la persona. Pilade lo disapprovò, affermando che il ◀di▶ lui gesto esprimeva alto, e non grande. Volle allora il popolo che sottentrasse il maestro a rappresentar la stessa cosa, ed egli obedì, e giunto a quelle parole si compose in atto grave colla mano alla fronte in guisa ◀di▶ uomo che medita cose grandi, e caratterizzò più aggiustatamente la persona ◀di▶ Agamennone147. Tale era l’ accuratezza degli esperti pantomimi antichi (Nota XIX). Altre delicatezze ◀di▶ Pilade e del ◀di▶ lui discepolo nel rappresentare vengono accennate dal citato Macrobio. Ila però come sommamente licenzioso ad istanza del Pretore fu da Augusto nella propria casa fatto pubblicamente bastonare148. Da Batillo e Pilade si formarono le due famose scuole, o partiti, chiamate i Batilli e i Piladi, i quali scambievolmente si disprezzavano e facevansi ogni male. Batillo favorito da Mecenate giunse a far bandire da Roma e dall’Italia il suo emulo Pilade, benchè Suetonio ci dica essere costui stato esiliato, per avere dalla scena mostrato a dito uno degli spettatori che lo beffeggiava. Ebbe egli poi tanti protettori che fu richiamato. Questi partiti produssero sanguinose fazioni nella città dominatrice del mondo. Nerone che se ne compiaceva, assisteva talora ascoso in teatro per goderne, e al vedere attaccata la mischia soleva anch’egli gettar pietre contro i partigiani della fazione contraria, e una volta ruppe il capo a un Pretore149; e in quale altra guerra avrebbe fatte le sue prodezze un imperadore che si gloriava ◀di▶ esser contato tra’ musici ed istrioni? Finì in Roma ogni gloria della poesia drammatica, allorchè cominciò a regnarvi la moda delle buffonerie e oscenità de’ mimi e de’ pantomimi, spettacoli più atti a trattenere un popolo che andava degenerando.
Ma le nostre querele e quelle ◀di▶ tanti scrittori contro de’ pantomimi, cadono sulla loro arte o anzi sulla scostumatezza? L’arte al fine non è altro che una vivace rappresentazione che unita acconciamente alla poesia drammatica serve ad animarla. Ora se gli attori pantomimi giunsero a rappresentare con tal verità e delicatezza che non soccorsi dalla locuzione tutta sapevano esprimere una favola scenica, come si può senza nota ◀di▶ leggerezza asserire, che l’arte pantomimica à la honte de la raison humaine fît les delices des Grecs & des Romains, secondo che declama M. Casthilon? I talenti possono mai far vergogna alla ragione, sempre che i costumi sieno puri? La tragedia ◀di▶ Medea espressa mirabilmente per gesti da Mnestere poteva recar vergogna alla ragione, perchè la vita del pantomimo era dissoluta, o perchè le matrone Romane innamoravansi ◀di▶ tali istrioni ballerini, o perchè essi prendevano dominio sugl’ imperadori e influivano negli affari del governo? Ma gli errori ◀di▶ tal Francese su i pantomimi ed altre cose teatrali e non, teatrali non sono nè piccioli nè pochi. Chi mai, se non costui, senza pruove, confondendo fatti ed idee, e passando ◀di▶ un salto leggiero sulle terribili vicende dell’Europa che per dir così la fusero e rimpastarono ◀di▶ nuovo, chi, dico, avrebbe francamente scritto che le fazioni per gli pantomimi perpetuaronsi per mille e dugento anni sino a produrre, che cosa? i partiti de’ Guelfi e de’ Ghibellini! È vero che in Roma e in Constantinopoli arsero le fazioni de’ Verdi e de’ Turchini nel circo e ne’ teatri; ma è vero ancora, che i pantomimi influirono negl’ interessi e nell’origine degli odii de’ Guelfi e de’ Ghibellini quanto v’influì la discordia de’ Tebani Eteocle e Polinice.