CAPO VII.
Teatro di▶ Eschilo.
Epigene, Tespi e Frinico I furono tre uomini ◀di▶ talento particolare, ognuno de’ quali sorpassò il predecessore e diede nuovo lustro alla tragedia. Con qualche passo ◀di▶ più forse l’ultimo ◀di▶ essi l’avrebbe condotta a quel grado ◀di▶ prefezione, in cui le arti, come ben dice Aristotile, si posano ed hanno la loro natura. Eschilo il settatore ◀di▶ Pitagora sopravviene in un punto sì favorevole, corre lo spazio che rimaneva intentato, coglie il frutto delle altrui e delle proprie fatiche, e giugne ad essere il primo meritamente onorato da Aristotile e da Quintiliano col titolo d’ingegno creatore e ◀di▶ padre della tragedia. Come poeta eccellente seppe con arte e facilità maggiore degli antecessori trasportar le favole Omeriche al genere tragico e maneggiarle in istile assai più grave e più nobile. Come direttore intelligente, valendosi del l’opera del l’architetto Agatarco, fece innalzare in Atene un teatro magnifico e assai più acconcio a rappresentare con decenza e sicurezza; là dove Pratina, e altri tragici del suo tempo montavano su tàvolati non solo sforniti ◀di▶ quanto può contribuire al l’illusione, ma così mal costrutti e mal fermi che sovente cedevano al peso e cadevano con pericolo degli attori e degli spettatori meno lontani. Eschilo abbigliò ancora le persone tragiche con vestimenti gravi e maestosi, fece ad esse calzare il coturno, e migliorò l’invenzione della maschera ◀di▶ Cherilo e ◀di▶ Frinico. Volle in oltre egli stesso e comporre la musica de’ suoi drammi, e inventar de’ balli, e prescrivere i gesti e i movimenti del Coro che danzava e cantava negl’intervalli degli atti togliendone la direzione agli antichi maestri ballerini. Secondò parimente molto meglio il pensiero de’ suoi predecessori ◀di▶ scemare il numero degl’individui del Coro musico e ballerino per accrescerne quello degli attori degli episodii, e con questa seconda classe ◀di▶ rappresentatori rendè l’azione vie più viva e variata. Seppe in somma per molti riguardi farsi ammirare ed in se unire i meriti più rari ◀di▶ poeta, ◀di▶ musico, ◀di▶ attore e ◀di▶ direttore. Settanta, o, come altri vuole, novanta o cento tragedie egli compose, delle quali sette appena ce ne rimangeno, e riportò la corona teatrale intorno a trenta volte. Guerriero, capitano, vittorioso nella pugna ◀di▶ Maratona per Atene sì gloriosa, mostra nello stile la grandezza, il brio militare e la fierezza de’ proprii sentimenti. Il suo carattere è robusto, eroico, grande, benchè talvolta turgido, impetuoso, gigantesco, oscuroa. Le tragedie che se ne sono conservate, s’intitolano: Prometeo al Caucaso, le Supplici, i Sette Capi al l’assedio ◀di▶ Tebe, Agamennone, le Coefore, l’Eumenidi, e i Persi. Di queste non meno che delle altre tragedie greche a noi giunte, in grazia della gioventù curiosa, e senza arrogarci l’autorità e l’infallibilità degli oracoli, andremo brevemente esponendo le bellezze principali senza dissimularne qualche difetto.
Traluce nel Prometeo l’elevazione del l’ingegno ◀di▶ Eschilo, e l’energia de’ suoi concetti mista si vede a certa antica ruvidezza che gli concilia rispetto. Intervengono in questa favola numi, ninfe, eroi e personaggi allegorici, come la Forza e la Violenza. Allegorica essa è in fatti in quanto che il poeta si prefigge ◀di▶ pignervi la prepotenza della maggior parte de’ Grandi su gli nomini ancor meritevoli e benefici; la qual cosa era lo scopo de’ Greci poeti, repubblicani, ◀di▶ che fecero pure qualche motto Andrea Dacier e poi Pietro Brumoy. Vulcano per comando ◀di▶ Giove annoda Prometeo al Caucaso con catene indissolubili, per avere involato il fuoco celeste ed animati e ammaestrati gli uomini, indi l’abbandona al suo dolore. Prorompe in compassionevoli querele l’infelice benefattore degli uomini immeritamente punito della sua beneficenza. Io ardisco per saggio recare in italiano il principio ◀di▶ esse per coloro che non amano le latine traduzioni letterali e soffrono ◀di▶ vederne qualche squarcio comunque da me espresso:
O spazii immensi ove ogni cosa nuota,O voi venti leggeri o fonti o fiumi,E voi del mare interminabili onde,O madre o Terra, o Sol che a tutti splendia.A voi ragiono, s’altri aimè! non m’ode.Vedete i mali miei; me nume un nume,Nuovo signore de’ superni Dei,E preme e oltraggia e inesorabil dannaA lacci eterni e prigionia spietata.Soffrò il presente, e la memoria amaraDel par mi attrista del futuro danno.Deh qual è a tanto duol termin prescritto?Oimè! che parlo? Oimè! la serie acerbaDi mie sventure antiveder m’è datoPer tormento maggior! Lunga essa fia,Eterna fia! e qual prevedo, ahi lasso!Tutto avverrà; chè non si vince il fato,E alla necessità nulla contrasta.
Un coro ◀di▶ Ninfe del l’Oceano viene a consolarlo, colle quali Prometeo parlando disacerba il suo dolore, e narra l’innocente ed utile suo delitto. Sopraggiunge il padre Oceano stesso a prestargli un amichevole uffizio, ed in gravi ragionamenti si trattengono sul nuovo regnator de’ numi, ed in tal proposito Oceano gli porge salutari consigli:
Deh te stesso conosci e al tempo servi.Nuovi costumi un nuovo regno esige.
Prende Prometeo in buon grado le parole del l’amico, e dopo aver seco favellato ◀di▶ altri rigori da Giove usati con Atlante e con Tifeo, Prometeo l’esorta a partire, perchè schivi d’incorrere anch’egli nel l’indignazione del nuovo regnante. Favella poi col coro dei diversi ritrovati e ◀di▶ tante arti insegnate agli uomini, i quali prima, poco differenti da’ tronchi, viveano come le belve rintanati negli antri. L’episodio degli errori della misera Io trasformata in giovenca accresce il terrore ◀di▶ questa favola, e benchè vi sia introdotta senza manifesta necessità o immediato vantaggio del l’azione principale, pure dà luogo a sviluppare sempre più il carattere del benefico infelice protagonista. Ella in tal guisa entra nella scena, secondochè io traduco:
Quai terre? Ove son io? Chi a queste avvintoOrride rupi ed al rigor del vernoTal giace esposto o sventurato o reo?Chi sei? qual tuo delitto o nume avversoCosì ti opprime? In quai contrade erranteSenza speme e consiglio il piè mi trasse?La mia ragione, e mi trasporta e punge!Sento già risonar le note avenea;Argo severo, e con orrenda faceIn truce aspetto mi minaccia e incalzaPer erme arene, e per solinghe vie!Dove, misera me! superna forzaDove mi spinge mai! Giove, e qual colpaL’alma riempi, ed a vagar mi sforzi?Ah per pietà m’incenerisci, e il suoloEsca infelice in mezzo al mar mi scaglia.Abbastanza vagai, soffersi e vissia.
Dopo cosi bel passo energico, patetico, vigoroso, lo
ascolta da Prometeo le sue future avventure, indi presa dal solito estro
precipitosamente sen fugge. Mentre Prometeo affretta coi voti la venuta ◀di▶
un successore ◀di▶ Giove, ch’egli crede ◀di▶ prevedere, sopravviene Mercurio a
minacciarlo da parte dello stesso Giove ◀di▶ più atroci pene, se non palesa
questo nuovo successore. Traspare in Prometeo una grandezza ◀di▶ animo che
nelle disgrazie lo rende degno ◀di▶ rispetto. Non si piega ai comandi, non si
avvilisce nelle minacce, non ispande nè gemiti nè preghiere per esser
liberato, non si approfitta del l’occasione per impetrar grazia e perdono.
Gli antichi Greci insegnano ai moderni l’arte d’interessare e piacere senza
ampollose accumulate particolarità e romanzesche azioni. È ciò picciol
merito? Sì bene pei piccioli e maniera
i talenti, come furono i La-Mothe, i Perrault e i Cartaud de la Vilade, de’ quali per
altro abbonda ogni nazione. Mercurio dopo ◀di▶ aver pregato invano, spiega
tutta la serie de’ nuovi imminenti mali ◀di▶ Prometeo. Tuoni, venti, fulmini,
scuotimenti ◀di▶ terra, sepoltura improvvisa nelle viscere de’ monti, aquile
divoratrici del ◀di▶ lui cuore, apportano terrore agli spettatori e quando
vengono minacciate e quando effettivamente agitano la scena. Prometeo vede
balenare e strisciare il fulmine senza abbassar neppur gli occhi. La sua
magnanimità sveglia nello spettatore una sublime idea del nobile suo
carattere. Egli prevede ancora il rimanente della minacciata sventura nel
vederne le prime circostanze avverate, nè cede, nè si ritratta, e solo si
lagna invocando la
Terra sua madre e l’etere che
circonda la luce in testimonio dell’ingiustizia che
l’opprime
. Non ci fermiamo nelle minute obbiezioni del per
altro erudito Robortelli
fatte a questa favola che spira per tutto grandezza
e nobiltà e un patetico interessante; per esempio, ch’egli è assurda cosa il
trovarsi Prometeo in tutta la sua rappresentazione alla vista dell’uditorio,
essere gl’interlocutori tutti numi, e cose simili. Noi avremmo buone ragioni
onde ribatterle, ma leviamo un po più su il guardo. Osserviamo che Prometeo
è un personaggio totalmente buono e benefattore dell’umanità, e che il buono
effetto che fè in teatro c’insegna, che sebbene Aristotile
ci diede una bellissima pratica osservazione nel prescrivere che il
protagonista debba essere ◀di▶ una bontà mediocre mista a debolezze ed errori,
non debba però tenersi per legge generale inviolabile, altrimenti ne
mormorerà il buon senno che ci porta ad ammirar giustamente il bellissimo
carattere ◀di▶ Prometeo, quello ◀di▶ Ajace in Sofocle, ed
altri ancora ◀di▶ ottime tragedie moderne.
Nella condotta delle Danaidi supplichevoli si osserva una regolarità così naturale che con tutta la semplicità ◀di▶ azione tiene sospeso il leggitore sino all’atto 3, quando le Danaidi passano dall’asilo alla città, venendo discacciato l’araldo dell’armata egiziana nemica ◀di▶ queste principesse. Quest’araldo si fa lecito ◀di▶ prenderne una per la chioma e la strascina verso i vascelli, la qual cosa esaminata colle idee de’ tempi correnti sembra disdicevole al decoro ◀di▶ persone reali; ma per giudicarne drittamente bisognerebbe risalire col pensiero agli antichissimi costumi de’ tempi eroici, altrimenti ci faremmo giudici ◀di▶ Omero e de’ tragici antichi senza comprendere la materia de’ loro poemi.
La tragedia de’ Sette a Tebe reca diletto ed invita a leggere anche a’ giorni nostri, essendo ripiena ◀di▶ bei tratti, ◀di▶ movimenti militari, ◀di▶ sospensioni meravigliose, fatta in somma per presentare uno spettacolo degno ◀di▶ ogni attenzione. Longino ottimo giudice ne cita un vago frammento dell’atto I, che nella nostra lingua io così traduco:
Sette Guerrier spietatamente audaciIn atto minacciosi e con orrendiGiuramenti spaventano gli Dei,Alta giurando insolita vendettaA Gradivo, a Bellona, alla Paura,Mentre le mani tingonsi nel sangueFumante ancor d’un moribondo toro.
Sommo impeto ◀di▶ vigorosa eloquenza scopresi nel coro del medesimo atto primo, e la dipintura vivace del sacco ◀di▶ una città presa per assalto si legge con gran piacere nell’atto secondo. L’ultimo atto sembra veramente un accessorio superfluo, poichè si è sciolto l’assedio per l’esito funesto del combattimento ◀di▶ Eteocle e Polinice.
La tragedia Agamennone fu coronata, e certamente anche a giudizio de’ posteri intelligenti meritava quest’onore. Il Viperani e lo Scaligero nelle loro Poetiche ne osservano la manifesta inverisimiglianza ◀di▶ vedervisi a un tempo stesso Agamennone ucciso e sepolto. Si può notare eziandio che o la rappresentazione ◀di▶ questa tragedia dee durare alcuni giorni, o, come riflette il Metastasio a, Eschilo non ha creduto obbligata la sua imitazione alle circostanze dell’unità del tempo. La guardia posta sulla cima ◀di▶ una torre a veder se risplenda la fiamma che dee ◀di▶ montagna in montagna da Troja ad Argo prevenire la venuta ◀di▶ Agamennone, scorge appena il fuoco e ne porta la notizia a Clitennestra, che il marito giugne quasi nel medesimo punto. Noi ci contentiamo ◀di▶ osservare che quantunque l’azione sembri languire alquanto ne’ primi atti, pure da essi vien preparato ottimamente l’orribile evento dell’atto quinto, in cui si veggono le passioni condotte al più alto segno. l’esclamazioni ◀di▶ Cassandra tutte piene ◀di▶ enigmi enfatici e d’immagini inimitabili manifestano la robustezza dello stile e la forza dell’ingegno ◀di▶ Eschilo.
La favola intitolata le Coefore, cioè Donne che portano le libazioni (dalla parola χοἠ, libatio) rappresenta la vendetta della morte ◀di▶ Agamennone presa da’ suoi figliuoli, argomento poì trattato anche da’ due gran tragici che vennero appresso. Sin dalla prima scena vi si espone lo stato del l’azione con arte e con garbo tale che l’antichissimo riformatore e padre della tragedia non ebbe bisogno dell’esempio altrui per condurre alla perfezione questa parte sì rilevante del dramma, nella quale tanti moderni fanno pietà, a differenza ◀di▶ Pietro Metastasio e ◀di▶ qualche altro che vi riesce felicemente. L’energia e la forza del Coro dell’atto primo difficilmente può passare senza indebolirsi in altra lingua. La riconoscenza ◀di▶ Elettra e del fratello si fa nel secondo atto per mezzo de’ capelli gettati da Oreste sulla tomba, e delle vestigie impresse nel suolo simili a quelle ◀di▶ Elettra, e ◀di▶ un velo da lei lavorato nella fanciullezza ◀di▶ Oreste. Euripide veramente non a torto nella sua Elettra si burla ◀di▶ simili segni; ed in fatti non si prenderà mai per modello delle agnizioni teatrali questa ◀di▶ Eschilo sfornita ◀di▶ verisimiglianza. Dacier, critico per altro non volgare, la biasima anch’egli, per essere troppo lontana dal cangiamento ◀di▶ stato. Falsa ragione, secondo me; perchè se i segni fossero meno equivoci, basterebbe all’azione principale il passo che si fa ◀di▶ riunire i fratelli e far che si riconoscano al commune disegno ◀di▶ vendicare il padre. Eschilo poi mostra molto giudizio, facendo che Oreste rifletta all’impresa a cui si accinge: che si lagni dell’oracolo ◀di▶ Apollo ond’è minacciato de’ più crudeli supplizj, se lascia invendicato il padre: che s’intenerisca alla ◀di▶ lui rimembranza: che si mostri anche sensibile ai mali de’ popoli sacrificati agli usurpatori del trono. Tutto questo rende in certo modo supportabile il gran parricidio che è per commettersi. Nè ◀di▶ ciò pago lo scorto poeta, in una lunga scena ◀di▶ Elettra col Coro e con Oreste, fa che questi appalesi la repugnanza e l’incertezza che lo tormenta, la quale si va poi dissipando col sovvenirsi delle terribili circonstanze dell’ammazzamento ◀di▶ Agamennone, alle quali fremendo dice che darà la morte a Clitennestra, indi a se stesso. Tali riguardi, sospensioni e cautele erano indispensabili per disporre l’uditorio ad uno spettacolo oltremodo atroce ◀di▶ un figlio che si bagna del sangue ◀di▶ una madre. Segue nell’atto quarto l’uccisione ◀di▶ Egisto; ed il pianto che sparge per lui Clitennestra, serve ◀di▶ cote al furor ◀di▶ Oreste, e lo determina ad ucciderla. Nel quinto atto il poeta manifesta parimente la sua maestria, mostrando benchè in abbozzo l’infelice situazione ◀di▶ Oreste che trasportato da rimorsi va perdendo la ragione.
Oreste medesimo perseguitato dalle Furie indi liberato dalle loro mani per lo favore ◀di▶ Apollo e ◀di▶ Minerva e per la sentenza dell’Areopago, è l’argomento della famosa tragedia del l’Eumenidi. Le Furie rappresentate da cinquanta attori ne formavano il Coro, i quali furono dal poeta in tale spaventevole e mostruosa foggia mascherati, e con sì orribili modi e grida entrarono nella scena, che il popolo si riempì ◀di▶ terrore, ed è fama cha vi morisse qualche fanciullo e più d’una donna incinta si sconciasse. Eschilo in questa favola trasgredì le regole del verisimile, coll’esporre una parte dell’azione nel tempio ◀di▶ Apollo in Delfo, e un’altra in Atene. Si vuol notare nella prima scena la pittura terribile dell’Eumenidi fatta dalla sacerdotessa, l’inno magico infernale pieno del fuoco dell’autore cantato dal Coro dell’atto terzo per aver trovato Oreste, ed il giudizio del ◀di▶ lui delitto fatto nel quinto coll’intervento ◀di▶ Minerva che presiede agli Areopagiti, ◀di▶ Apollo avvocato del reo, e delle Furie accusatrici. Il Coro che negl’intermezzi è cantante, nel giudizio è parlante come ogni altro attore, ed uno solo favella pel resto, la qual cosa si osserva in tutte le tragedie antiche.
Finalmente i Persi tragedia data da Eschilo otto anni dopo la famosa giornata ◀di▶ Salamina sotto l’arconte Menon, è fondata sullà spedizione infelice ◀di▶ Serse contro la Grecia, argomento innanzi a lui trattato da Frinico. La condotta n’è così giudiziosa che il leggitore dal principio alla fine vi prende parte al pari ◀di▶ chi nacque in Grecia; tale essendo l’arte incantatrice degli antichi posseduta da ben pochi moderni, che la più semplice azione viene animata dalle più importanti circostanze con tanta destrezza, che il movimento e l’interesse va crescendo a misura che l’azione si appressa al fine. Per non avere a tale artifizio posto mente il dotto Scaligero ne censuròa la soverchia semplicità, nè le diede altro nome che ◀di▶ semplice narrazione; ed il Nisieli che sì spesso declama contro gli antichi, ne adottò la decisionea. Nè l’uno nè l’altro erudito in leggendola consultò il cuore. Il racconto della perdita della battaglia nell’atto secondo acconciamente interrotto ◀di▶ quando in quando dalle querele del Coro de’ vecchi Persi, forma una delle bellezze ◀di▶ questo dramma. L’atto quarto, in cui comparisce l’Ombra ◀di▶ Dario, è un capo d’opera con tanto senno contrastandovi coll’ambizione ◀di▶ Serse il governo ◀di▶ Dario ch’era divenuto pacifio, la prudenza del vecchio colla vanità del giovane regnante, e con tale delicatezza mettendovisi in bocca ◀di▶ sì gran nemico le lodi della Grecia. La venuta ◀di▶ Serse nel quinto atto aumenta la dolorosa situazione del Consiglio ◀di▶ Persia. Queste bellezze che sfuggono alla pedanteria, non isfuggirono al giudizioso dotto Brumoy. I Persi è tragedia da leggersi attentamente da chi voglia impadronirsi della grand’arte d’interessare, e in conseguenza ◀di▶ commuovere e piacere. Discordi pure da questo avviso chiunque si senta rapire dall’autorità de’ Nisieli e degli Scaligeri, purchè non mi si ascriva a delitto il dipartirmene per seguire l’affetto che m’inspira la lettura ◀di▶ questa favola. Io non mi sono proposto in quest’opera ◀di▶ copiar ciecamente gli altrui giudizj (che sarebbe una infruttuosa improba fatica) ma bensì ◀di▶ communicare co’ miei leggitori l’effetto che in me fanno le antiche e le moderne produzioni drammatiche. Noi siamo persuasi che, dopo ◀di▶ essersi la mente preparata co’ saldi invariabili principii della Ragion Poetica ed avverati con una sana filosofia, con una paziente critica lettura e con una lunga esperienza del teatro, il cuore solo è quello che decide dei drammi e senza ingannarsi ne conosce e addita le bellezze.
Dopo queste succinte notizie delle
sette tragedie ◀di▶
Eschilo, non c’incresca ◀di▶ ascoltare ciò che alla
solita sua maniera (ch’io chiamo spensierata) ne disse l’avvocato calabrese
Saverio Mattei nel Nuovo Sistema
d’interpretare i tragici Greci. Esse per lui altre non sono che
feste teatrali ◀di▶ ballo serio preparate da
alcune patetiche declamazioni
. Se il leggitore conosce
tali tragedie, non potrà non ridere e non rimaner meravigliato della
scrittura del Mattei, in cui tutte le idee naturali
veggonsi scompigliate per lo prurito ◀di▶ dir cose nuove che in fine si
risolvono in nulla. Se poi non le conosce, sulle ◀di▶ lui parole ne concepirà
un giudizio tutto alieno dal vero, e crederà che le patetiche
declamazioni in Eschilo preparassero ad un ballo serio, come i propositi ◀di▶ Tancia e Lisinga in Metastasio introducono al ballo cinese.
E che vuol dir mai festa teatrale ◀di▶ ballo
serio? Le favole del padre della tragedia greca furono, come quelle
de’ suoi successori Sofocle ed Euripide,
vere azioni
drammatiche eroiche accompagnate dalla
musica e decorate dal ballo del coro; nè altra differenza può ravvisarsi tra
l’uno e gli altri, se non quella che si scorge ne’ caratteri ◀di▶ diversi
artefici che lavorano in un medesimo genere, per la quale distinguiamo ne’
pittori eroici Tiziano da Correggio, ne’
poeti melodrammatici Zeno da Metastasio,
ne’ tragici moderni Corneille da Racine.
Le prosopopeje (come il Mattei chiama le
Ninfe, l’Oceano, l’Eumenidi, la Forza ecc.) punto non dimostrano, com’egli
crede, che allora la tragedia era
una danza animata
dall’intervento ◀di▶ questi genj mali e buoni piuttosto che una vera
azione drammatica
; ma provano solo che Eschilo introdusse ne’ suoi drammi le ninfe, i numi, le ombre, le
furie, e diede corpo a varii esseri allegorici, come Sofocle ed Euripide si valsero delle apparizioni
◀di▶ Minerva, ◀di▶ Bacco, ◀di▶ Castore e Polluce, della musa Tersicore, d’Iride,
◀di▶ una Furia, ◀di▶ un’ Ombra, della Morte ecc. Di grazia in
che mai essi discordano da Eschilo su
questo pnnto?
Eschilo trasportato una volta dal proprio entusiasmo cantò alcuni versi notati ◀di▶ manifesta empietà, cd il governo che vigila per la religione e per li costumi, condannò alla morte l’ardito poeta. Ma Aminia ◀di▶ lui minor fratello, che nella pugna ◀di▶ Salamina avea perduta una mano, alzando il mantello scoperse il braccio monco, intenerì i giudici, ed il colpevole ottenne il perdono.
Per questo rigore usato seco Eschilo si disgustò ◀di▶ Atene sua patria, tanto più quanto cominciarono ad applaudirsi le tragedie del giovane Sofocle. La prima volta che questo nuovo tragico, contando anni ventotto ◀di▶ età, produsse un suo componimento, e trionfò ◀di▶ Eschilo già vecchio, fu nel celebrarsi la solennità del ritrovamento e della traslazione delle ossa ◀di▶ Teseo dall’isola ◀di▶ Sciro in Atene, nella quale Cimone nominò i giudici scegliendone uno ◀di▶ ogni tribùa. Atene dovette all’istituzione ◀di▶ quell’annuo aringo letterario fra gli scrittori tragici, i progressi che ne provennero al genere tragico per l’emulazione che eccitò. La vittoria ◀di▶ Sofocle fu un colpo mortale per un veterano come Eschilo fiero per tanti trionfi da lui riportati, vedendosi vinto dal primo saggio ◀di▶ un soldato novizio. Egli prese il partito ◀di▶ allontanarsi volontariamente da Atene, e si ritirò presso Jerone in Sicilia, ove dopo alquanti anni morì, e secondo Plutarco nella citata vita ◀di▶ Cimone, fu sotterrato presso Gela. Osservisi però che la contesa ◀di▶ questi due gran tragici avvenne negli ultimi anni dell’olimpiade LXXVII, e Jerone morì nel secondo anno dell’olimpiade LXXVIIIb. Adunque Eschilo che secondo i Marmi ◀di▶ Arondel morì nel primo anno dell’olimpiade LXXXI, dovette sopravvivere a Jerone intorno a dodici anni. Vuolsi in oltre che quando Eschilo si ritirò alla corte ◀di▶ Jerone, trovasse questo re occupato in riedisicare l’antica città ◀di▶ Catania rovinata da’ tremuoti cui diede il nome ◀di▶ Etna, e su ◀di▶ essa Eschilo fece un componimento poetico. Ma la nuova edifieazione ◀di▶ tal città, ove Jerone invitò ancora de’ nuovi abitatori, avvenne nell’olimpiade LXXVI. Adunque allora Eschilo non era ancora stato vinto da Sofocle a. La onde converrà dire che egli due volte sia andato in Sicilia, l’una dopo la sua assoluzione in grazia del fratello Aminia, e vi trovò Jerone occupato nella riedificazione ◀di▶ Catania, e l’altra volta dopo la vittoria ◀di▶ Sofocle, quando, dimoratovi qualche anno, seguì la morte ◀di▶ quel re. Si è però detto che Eschilo morisse tre anni dopo la vittoria ◀di▶ Sofocle, il che non può conciliarsi coll’epoca della ◀di▶ lui morte che seguì nell’ultimo anno dell’olimpiade LXXX, o nel primo della LXXXI, essendo egli ◀di▶ anni sessantanovea.
Ma il sommo credito che andava Sofocle acquistando, non nocque gran fatto alla riputazione ◀di▶ Eschilo. Gli Ateniesi diedero pubblici attestati della stima che facevano delle ◀di▶ lui tragedie, avendo decretatob che si rappresentassero anche dopo la ◀di▶ lui morte, onore ad altri non compartito, pel quale potè Aristofane fargli dire nelle Rane, che la sua poesia non era morta con lui. In fatti alcuni tragici che si dedicarono a ritoccarne più d’una, ne riportarono sovente la corona teatrale. Euforione figlio ◀di▶ Eschilo, oltre ad alcune tragedie da lui composte, vinse secondo Suida e Quintiliano quattro volte con alcune favole del padre, alle quali diede novella forma.