Bonazzi Luigi, perugino. D’indole bizzarra, intollerante, aveva
esercitato parecchie professsioni, e – dice il Morandi –
tutte bene :
lo studente di▶ medicina, il
professore, il poeta, il critico, il cospiratore, la guardia ◀di▶ finanza, il
commediante, il capocomico, l’agronomo, e ultimamente faceva anche il fabbricatore
◀di▶ vino scelto, e ne beveva !
(Pref. al Gustavo
Modena, Città ◀di▶ Castello, 1884). Dopo ◀di▶ essere stato a venti anni professore ◀di▶
rettorica in Ascoli, poi foriere nelle guardie ◀di▶ finanza, poi a Perugia insegnante
privato, si diede nel ’43 all’arte, esordendo modestamente a Gubbio nella Compagnia
Zanardelli e Viti. La quale scioltasi, dopo due mesi, entrò generico
nella Compagnia Domeniconi, con cui andò a Genova e a Torino. Passò da questa in quella
◀di▶ Alamanno Morelli, allora sconosciuto al teatro italiano, come generico
dignitoso, poi in quella ◀di▶ Gustavo Modena, in cui sostenne e con buona fortuna
le parti ◀di▶ Lusignano nella Zaira, ◀di▶ Lowendeghen nel Cittadino ◀di▶ Gand, ◀di▶ Maresciallo nei Due sergenti. Formatasi
la Compagnia Lombarda con Augusto Bon direttore e Morelli primo
attore, vi rimase come generico, sostenendo parti superiori al suo
ruolo, come il Don Pirlone e il Tartufo, e passando poi a quelle ◀di▶ caratterista per la insufficienza dell’attore Bugamelli. Fu nella Compagnia
Reale ◀di▶ Napoli con Adamo Alberti, e tornò il ’49 a Perugia ove si diede a recitar
co’dilettanti, e d’onde si restituì all’arte generico, tiranno e caratterista della Compagnia Coltellini, terminando l’anno a Roma con la
Internari e Capodaglio, e tornando poi, caratterista assoluto, in
Compagnia Lombarda. Lo vediamo nel ’54 esercitare in tutta la sua estensione il primo
ruolo ◀di▶ caratterista colla Botteghini e colla Majer, poi col
Santecchi, poi in compagnia propria, poi col Peracchi, poi, nel ’62, tornare a Perugia a
insegnare storia e geografia in quel liceo ; dal quale uscì dopo tre anni, per andar a
sostituire a Napoli con ottomila lire ◀di▶ stipendio il Taddei, il primo caratterista
italiano ancora vivente, ma irreparabilmente colpito da apoplessia. Ma anche questa
volta vi rimase poco tempo, chè la cattedra lo richiamò a sè. Ho seguito nella
cronologia il Bonazzi stesso, ◀di▶ cui una breve autobiografia, dettata interamente alla
sua nipotina Fiordilinda Agostini, e rivista poi nel febbraio
del ’79, fu
testè pubblicata dal dottor Cesare Agostini (Perugia, 1896) assieme ad altri scritti
minori in prosa e in versi ; e ho seguito il Morandi che del Bonazzi fu scolaro, e ◀di▶
lui parla colla più schietta delle ammirazioni e delle affezioni. Quanto al fisico e
all’indole sua, egli dice (op. cit., VII) :
…. grasso e tarchiato, con quel faccione da canonico e pur tanto simpatico, con quella fronte spaziosa, con mezza libbra ◀di▶ tabacco giù per il panciotto, con que’soprabitoni lunghi, lunghi, che gli arrivavano ai tacchi, e rivelavano il commediante in riposo. Mi par ◀di▶ vederlo quando entrava in iscuola tutto burbero e accigliato ; eppure, al suo apparire, un lampo ◀di▶ gioia brillava nel viso ◀di▶ noialtri scapati. Egli si sedeva sulla cattedra fiutando una presa, e a poco a poco si rasserenava, perchè la nostra compagnia gli faceva bene, e noi ce ne accorgevamo, e a modo nostro se ne cavava profitto. Quando glie ne facevamo qualcuna delle grosse, « birboni, birboni, birboni !… » tonava lui con un crescendo, che ci faceva venire la pelle d’oca, e alzava il bastone (classico avanzo anch’esso del palcoscenico) ; ma la cosa finiva li……

Le opere che al Bonazzi assicuraron fama ◀di▶ scrittore egregio furono due : il Gustavo Modena e l’arte sua, e la Storia ◀di▶ Perugia dalle origini al 1860 (Perugia, 1879), per la quale, dopo la pubblicazione del primo volume, fu a voti unanimi eletto socio straordinario della Deputazione bolognese ◀di▶ storia patria.
Il libretto sul Modena è un aureo studio sull’arte del grande attore. Se ◀di▶ tutti i
grandi della scena si avesser studi compagni, ci si farebbe una idea ben chiara ◀di▶ quel
che fosse l’arte rappresentativa ne’vari periodi : ma sciaguratamente il libro del
Bonazzi è unico. Egli vede e ode e sente : e rende ciò che ha veduto e udito e sentito,
con una semplicità e con una evidenza, che par ch’egli discorra. Il miglior degli elogi
gli fece nell’Italia ◀di▶ Napoli del 1865 (n. 189) Luigi Settembrini, il
quale conchiudeva : « così si scrive, benedetto Iddio ; così lo
scrittore ti afferra, e ti stampa nell’anima ciò ch’egli vuole. »
Ho detto in principio che il Bonazzi aveva carattere intollerante. Di una rettitudine a tutta prova, ◀di▶ una mente penetrativa, ◀di▶ un gusto squisito, odiava tutto ciò che era, o gli pareva ingiustizia…. Non ebbe la malvagità ◀di▶ animo ◀di▶ fissarsi acerbo su que’ poveri attori che a tutto eran chiamati fuorchè all’ arte del teatro, e che traevan la vita a stento peregrinando ◀di▶ paesello in paesello…. : ma per gli attori che, pur essendo al par ◀di▶ quegli sciagurati negazione ◀di▶ arte, con illeciti mezzi strappavan applausi a i pubblici che avean nome d’intelligenti, e che preferivano, ad esempio, una meschina compagnia rappresentante il Prometeo ◀di▶ Troilo Malipiero ad altra ◀di▶ cui faceva parte il gran Vestri ; che accorrevan a un teatro ove recitava una compagnia Zocchi, composta degli attori più abbietti, mentre in altro era la grande trinità artistica De Marini, Vestri e Modena…. ; oh, per quelli, il Bonazzi fu un vero demonio ! E siccome ◀di▶ arte s’intendeva assai, e siccome, essendo stato attore valente tanto da sostituire talvolta il Modena in alcuna delle sue parti e uno de’ più acuti e profondi critici, quando mena la sferza ha sempre ragione da vendere, dirò anch’io col Morandi : Dio gli benedica le mani e la lingua.
A questa indole indiavolata accenna anche il Modena in una sua lettera a lui del 22 giugno ’57 (Epistolario, Roma, 1888) :
…. vi vedo imbrogliato male andando a Faenza. Sono romagnoli fieri veh ! E voi non siete figlio ◀di▶ santa Prudenziana. Dovreste andare a Faenza coll’acqua in bocca e coll’olio santo in saccoccia. Pensateci.
E da molti ancora che lo conobbero sentii dire più volte : non ci si poteva vivere accanto !… E nondimeno, quand’egli vive lontano dall’arte nella quale egli vede le più alte idealità cedere il posto a la camorra signoreggiante, quanta dolcezza, quanta soavità…. e più ancora qual finezza ◀di▶ forma ; laddove, nello scoppio dell’iracondia le parole gli escono ◀di▶ bocca come sono sono, e s’inseguono e s’incalzano senza che il pensiero della lima tenti ◀di▶ arrestarle.
Ecco, come saggio ◀di▶ quel suo stile eletto, le strofe ◀di▶ una poesia scritta nel ’66, tornato da Napoli a Perugia :
………….E tu con me mio fido cane. Ignarode la vita che fugge, a’ tuoi futuridanni non pensi allor che accovacciatosul pavimento dell’aprica stanzati scaldi taciturno a’ rai del sole,ed all’ insetto che ti ronza intornovolgi obliquo lo sguardo, e lo sollevifraternamente all’augellin che cantada la pensile gabbia. Oh tu non saicome pallidi i giorni e come tristepassan le neghittose ore all’amicoche tu carezzi ! A te della ragionenon fu dato il tormento ; e sul mio lettoforse inconscio alzerai la zampa e il muso,allor che quivi cesserà per sempreil solingo, inudito, entro gli arcanidel cerebro sentieri,inane bisbigliar de’ miei pensieri.
E ◀di▶ questi soavissimi versi metto a riscontro questi altri, che tolgo dall’ epistola a Gustavo Modena sulle comiche compagnie italiane, inserita nel citato libretto del Bonazzi, e che, pur non essendo cattivi, son ben lontani, pare a me, dall’aurea semplicità dei primi.
……Invan sperateche crescendo il valor vi cresca il lucro,o seco lor vi accolgano i signoridell’italica scena. A regia stirpesperar regi connubi. Ancor che tuttasi rimesca la comica falange,d’uno in un altro de’ beati stuolia vicenda tramutansi pur semprei dinastici artisti ; e se alcun vuototra le file celesti apre il cholera,pronto ad empirlo un suocero, una nuora,od un genero sta. Così all’onoreOh ! a te rida salute…….
(V. anche Job Anna, al cui nome è pubblicata per intero un’ epistola ◀di▶ lui sulla Recitazione).
E ora, com’ è principale intento dell’ opera pubblicare le cose che contribuiscono a dar più compiuta la storia della nostra scena, metto qui dalla Storia ◀di▶ Perugia le pagine che trattano delle condizioni dell’arte (vol. II, pag. 682-687).
Anche per la prosa i primordi del secolo furono felicissimi. Vennero allora ad onorare le nostre scene il milanese Giuseppe Demarini e il fiorentino Luigi Vestri, due attori mostruosi. Non vi fu più chi superasse il Demarini per virile bellezza, per potenza ◀di▶ voce, e per miracolose particolarità d’organismo. Per queste, più che per la forza ◀di▶ commozione, egli cangiava ◀di▶ colore a sua voglia, tremava ◀di▶ tutta la persona, si faceva rizzare in testa i capelli, irti come le penne dell’ istrice. Nelle situazioni patetiche gli usciva dall’occhio una grossa lacrima che gli si spandeva per la guancia ; ed era un pietoso incanto per la platea quel suo lamentarsi col viso umido ◀di▶ pianto, che luccicava al lume della ribalta. Il Vestri, senza tante parrucche, dava un’acconciata alle poche ciocche de’suoi capelli, e usciva dalle quinte con fisonomia, con voce, con modi talmente ottemperati al suo personaggio, ch’ei poteva rappresentare tutta quanta la umanità, e nelle parti promiscue, ove la natura umana è dipinta come è realmente, faceva piangere e ridere al tempo stesso, come ebbe a dire anche il Byron. Lo Scribe ad udirlo ne restò incantato ; e la famosa simpatica Malibran, grande attrice ancor essa, senza aver mai parlato con lui, scese dal suo palchetto in palco scenico a dargli un bacio ; ed ei dopo averlo cordialmente assa porato, le disse che non si sarebbe lavato il viso per cent’ anni. Questi attori si udirono qui dal popolo con biglietto a mezzo paolo, poco più ◀di▶ venticinque centesimi ; e forse a minor prezzo anche Città ◀di▶ Castello potè udire il gran Demarini. È ben vero che quando recitavano sì fatti artisti, la platea del nostro teatro era illuminata a candele ◀di▶ sego, e la ribalta con fiaccole che ardevano in teglie ripiene ◀di▶ grasso ; ma questa illuminazione non era particolarità ◀di▶ Perugia. Che anzi, erano già molti anni dacchè al teatro del Pavone era stata posta la lumiera con quattro grandi pavoni dorati, che poi furono tolti perchè dalla sua luce si pavoneggiavano quei soli quattro animali, quando io nel 1843, assistendo ad una rappresentazione della compagnia Reale ◀di▶ Torino, trovai il teatro Carignano senza lumiera, e in cosi fitta oscurità, ch’ io distingueva appena la fisonomia ◀di▶ chi mi stava vicino, mentre la luce concentrata tutta sopra gli attori li faceva sembrare figure magiche, e la commedia era ascoltata con religioso silenzio. A poco a poco si aggiunse alla lumiera una infinità d’altri pomposi, inutili e fin ridicoli accessorii, specialmente in provincia, che vi portarono le spese serali alla grossa cifra ◀di▶ un migliaio e mezzo ◀di▶ lire, mentre al teatro Re ◀di▶ Milano non ascendevano in tutto a più ◀di▶ ottanta lire ; tantochè senza forti compensi, mancando le risorse delle grandi capitali, non fu più possibile alle migliori e più numerose compagnie ◀di▶ calcare le scene provinciali. Quindi a Perugia non solamente non vi tornarono più nè Demarini, nè Vestri, che pur seguitavano a vivere, l’uno fino al 1829, l’altro al 1841, ma, tranne la Internari e il Taddei, non vi comparvero mai i grandi attori del tempo ; non la Tessero, non la Marchionni, la soave ispiratrice ◀di▶ Silvio Pellico, non il Lombardi, famosissimo per le parti ◀di▶ Orosmane e d’Oreste, non l’attore ed autore Augusto Bon, non il Prepiani, non il Visetti, non Francesco Righetti, non Giacomo Modena, non Gustavo Modena, e più tardi non il Morelli, non il Bellotti-Bon in gioventù, non la Ristori con compagnia regolare. Nè per tale privazione il pubblico era meno esigente verso gli artisti minori. I grandi artisti hanno la proprietà d’innamorare il pubblico, avvezzo a sentirli, delle singole parti dell’arte ; talchè un attore che valga da un certo lato, è bene accolto da un pubblico erudito, che in grazia ◀di▶ quel pregio gli perdona i difetti. È proprio il caso d’un pittore distinto per qualche particolarità, che invece ◀di▶ andare a Roma andasse a Grenoble o a Mancester.
L’aumento delle spese serali senza compenso sicuro, e non già l’aumento delle paghe degli affari ci condannarono allora a quel limbo. Certo i migliori artisti si pagarono sempre qualche lira ◀di▶ più ; ma non poterono mai alzar la testa con gl’impresari, perchè a quei tempi correvano rischio ◀di▶ far forni teatrali anche le primarie compagnie. Dapprima fecero loro dannosa concorrenza gli spettacolacci, rimasuglio delle fiabe del Gozzi contro cui ebbe tanto a combattere il Goldoni ; e a Venezia il pubblico lasciò recitare alle banche una compagnia in cui a Demarini e Vestri si aggiungeva Gustavo Modena per amoroso per andare a sentire al teatro ◀di▶ S. Cristofano il Prometeo ◀di▶ Troilo Malipiero. Cessata quella guerra, non potevano certo favorire al teatro le fucilazioni dell’Austria, le torture del Borbone, l’ascetismo ◀di▶ Carlo Alberto, e il Sant’Uffizio ◀di▶ Roma, anche senza calcolare che i grandi artisti furono allora parecchi, la memoria degli artisti anteriori non era ancora perita, e alla poca voglia poteva unirsi la sazietà. E noti bene il lettore che tale condizione dei comici è assai meno antica ◀di▶ quel che si crede, e risale fino ai più cospicui attori odierni, quasi decrepiti in gioventù, e ringiovaniti in età matura. Nel 1854 io vidi a Pisa gli avanzi del naufragio ◀di▶ una compagnia in cui recitava Tommaso Salvini, e circa a quel medesimo tempo udii dire a Padova che poc’ anzi Ernesto Rossi aveva troncato le recite della sua compagnia al teatro della Concordia, e io stesso vidi a Firenze la Ristori rappresentare a teatro vuoto la Maria Stuarda ◀di▶ Schiller. E il tristo andazzo durò per altri anni ; e Salvini rappresentava l’Orosmane, e Rossi l’Oreste, e la Ristori rappresentava tutto ; ed essendo tutti nel pieno vigore dell’ età dovevano fare anche meglio.
Il tempo delle grandi affluenze ai teatri, e quindi delle grandi paghe degli attori e dei profusi cavalierati, incominciò dopo la liberazione d’ Italia, e specialmente dopo i trionfi della Ristori in Europa, e dopo la morte ◀di▶ Gustavo Modena nel 1861. La Ristori fece inorgoglire gl’ Italiani delle loro domestiche glorie tanto ammirate fuori d’Italia ; Gustavo Modena, uomo ◀di▶ Plutarco, artista letterato, patriota e martire vero, fece nascere per l’arte drammatica un culto che non aveva avuto dapprima ; il libero pubblico italiano si affezionò ai suoi migliori allievi, e a quegli insigni che erano sorti a fianco della sua scuola, come la Ristori e il Morelli ; e poichè scarso era il numero dei grandi colleghi, diede la promozione in fama ed in paga agli artisti che più si appressavano a quelli, e spargendo anche sul teatro una tinta ◀di▶ patriotismo si vergognò ◀di▶ non accorrervi quando recitavano i più riputati artisti d’Italia. Ma per la mancanza ◀di▶ grandi successioni, mano a mano che crescevano le paghe da sette a dieci, a quindici e fino a venti mila lire all’anno, l’arte sempre più decadeva. Abbandonata o falsata la scuola del Modena, che pur teneva alcun che della scuola del Demarini, giacchè nelle arti non si rinnega mai il passato, si oscillò dapprima fra la verità e la forza, poi si trovò cosa comoda ◀di▶ scambiare il languore per verità ; tantochè oggi anche fra gli attori ben pagati non mancano taluni che fanno l’ arte a furia ◀di▶ vestiti e ◀di▶ perucche, impiastricciandosi il viso ; che non si sentono perchè non hanno fiato, che non si capiscono perchè si mangiano le parole ; e mostrano il gomito appena escono dal loro piccolo seminato. E dire che fra i nuovi sopraggiunti ve ne hanno degli altri, che parlando degli attori passati si degnano ◀di▶ approvarli per quei tempi, come pittori che compatissero ai tempi ◀di▶ Michelangelo e Raffaello, non sapendo guardarsi d’attorno per vedere che i valenti ◀di▶ quei tempi sono i valenti d’oggidi.
Ma il fenomeno delle grandi paghe accoppiato alla decadenza dell’arte non avrebbe intera spiegazione, se, tenuto conto del maggior caro dei viveri, non si tenesse anche conto ◀di▶ un elemento oggi importantissimo, cioè della mafia e delle camorre che caratterizzano l’epoca nostra. Per mafia e per camorra, fra capi-comici e autori, fra autori e giornalisti, fra giornalisti ed attori, fra attori e frequentatori ◀di▶ caffè si formò una tenera compagnia ◀di▶ mutuo soccorso, una ditta cointeressata, una società in accomandita, una vera congregazione ◀di▶ teatrale carità. Per mafia e per camorra, traendo pretesto da quello spirito d’innovazione che il valente Ferrari portava nella commedia italiana prima che il Cossa schiudesse nuovo orizzonte alla letteratura drammatica dal lato tragico e storico, si tentò da qualche speculatore ◀di▶ proscrivere dal teatro i classici italiani e stranieri, e questa scandalosa proscrizione, cosi contraria all’uso delle nazioni civili, si chiamò, prima che il Ferrari, il Cossa ed altri pochi schiudessero nuovi orizzonti alla letteratura drammatica, riforma del teatro italiano : a tutto favore ◀di▶ certe commediole, il cui manoscritto è un ananasso per il capo-comico, ma che in fondo sono farse in cinque atti, e non durano in teatro cinque mesi, si soppressero o assai si diradarono vari generi ◀di▶ componimenti teatrali, si diminuirono i ruoli delle compagnie per essere in minor numero a spartire i proventi del teatro : a sterminio ◀di▶ ogni semenzaio ◀di▶ attori, si istituirono le compagnie numerate come le celle degli stabilimenti carcerarii ; e per non gittare una nube sopra gli applausi meritati, si seguitò a battere le mani anche fra gli sbadigli del pubblico. Dicesi che su certe vigne omai brontoli il temporale ; ma gli attori ◀di▶ quei tempi si sono provveduti con le raccolte precedenti : e Tommaso Salvini è milionario, laddove Vestri morì in miseria, e Demarini non ebbe mai più ◀di▶ ottomila lire all’ anno.
A maggiori danni dell’arte sopraggiunse, ai tempi dell’Italia una, la recitazione delle commedie in dialetto, ammirabili per semplicità ◀di▶ linguaggio parlato, utilissime per istudi comparativi ◀di▶ lingua, ma opportunissime per far salire il palco scenico anche ai vetturini. Che la Pezzana e la Tessero, anime artistiche, recitassero egualmente bene in italiano e in piemontese, lo si comprende facilmente ; ma che quegli che per anni ed anni fu sempre un attore da museruola recitando in italiano, diventi ad un tratto artista, cavaliere e milionario recitando in piemontese, ciò non si comprende, se non supponendo che chi recita in dialetto non faccia un’ arte. Chi recita in dialetto, il quale non è altro che una monotona ripetizione ◀di▶ pochi accenti, se non è vero relativamente al suo personaggio, è sempre vero relativamente a sè stesso, il che non è poca cosa, ed è dispensato dalla creazione ◀di▶ quell’ ideale, che costituisce la vera essenza dell’arte. Quando il povero parroco, nella bella commedia del Garelli I contingenti piemontesi, esce a far la sua parte, il pubblico lo prende su come viene, e se la figura è meschina e i modi sono piccoli, il pubblico se ne compiace ◀di▶ più perchè lo rassomiglia all’uno o all’altro dei tanti curatucoli ◀di▶ campagna, che son ◀di▶ sua conoscenza ; ma se il parroco recita in italiano, allora il pubblico, ci si perdoni la frase, si monta diversamente, e vuol figura veneranda, vuol modi gravi, vuole unzione, vuole insomma quell’ ideale, che invano si vorrebbe da taluni scompagnare dall’arte.
Dal registro 326 del Municipio ◀di▶ Perugia (ufficio dello stato civile), sappiamo che Luigi, Giuseppe, Pietro Bonazzi, professore e cavaliere, nato e domiciliato a Perugia, figlio del fu Giuseppe, cuoco, domiciliato in vita ivi, e della fu Celeste Carattoli, donna ◀di▶ casa, domiciliata in vita ivi, marito ◀di▶ Maria Rocchi, morì d’idropisia all’una pomerid. del 2 aprile 1879 nella casa posta in via Sapienza vecchia al numero 2.
Bonazzo Giacomo. È citato dal Bertolotti (op. cit.) fra’ comici al servizio ◀di▶ S. A. il Duca ◀di▶ Mantova, che nel 1658 si trovavano a Roma, e precisamente nella parrocchia ◀di S. Pietro. Il Bonazzo, bolognese, era chiamato Gabucetto (?) in commedia.