LIBRO VI
ADDIZIONE I*
Sullo
stile del Caraccio.
Chi non voglia arrogarsi una magistrale autorità che infastidisce in vece di▶ persuadere, convien che dimostri ciò che asserisce. E per dimostrare la sublimità e la sobrietà dello stile del Caraccio, basta inviare i leggitori al ◀di▶ lui poema l’Impero vendicato, e al Corradino stesso. Intanto per chi ne volesse un saggio recheremo quì un passo della scena quarta del I atto in cui l’autore rileva i terrori notturni della Regina, calcando le tracce ◀di▶ Alvida nel Torrismondo del gran Torquato. Ella dice:
Lassa che appena i languidi occhi al sonnoChiudere io vò, che immagini funesteMi rappresenta il sonno, e larve orrendeMi rompono il riposo e la quiete.Spesso veder mi sembra un ampio mareDa venti scosso e in esso errar dispersiE de la gente udir le strida e i piantiChe percuotono i legni, o ingoian l’onde.E del figlio talor la voce io sentoIn un profondo baratro cadutoDa se medesmo, ed io con tanta frettaSpingo le incaute mani a dargli aitaTalor veggio catene e ceppi e scuri
Vediamone ancora un altro frammento della scena terza del III, in cui Corradino avendo saputa la deliberazione ◀di▶ Carlo ◀di▶ farlo morire, dice a Federigo:
Solo mi duol che a l’infelice MadreVenuta insin da la Suevia a PisaPer me suo desiato unico figlioConverrà trista e sola or far ritorno.Ma pregherò (se trai nemici i prieghiLoco aver pon) che così tronco almenoIl cadavere mio le si conceda,La sventurata possa e consolarsiAlmen co’ funerali ultimi ufficj . . .E prego te se quinci avrai l’uscitaLibera, come spero e come credo(Che in te non han d’incrudelir cagione)Che vogli de l’afflitta illustre donnaAver cura e pietate e quella parteChe manca in me d’ufficioso figlioCon suo vantaggio amicamente adempiChe maggiori in te splendono e più belleIn una pari età, se stessa inganniE in te credendo aver trovato il figlio,De la perdita mia non senta danno.
Così scrivea il Caraccio, mentre gran parte dell’Europa, e singolarmente l’Italia, adulterato il gusto e lo stile teneva dietro alle stranezze ◀di▶ Lope de Vega e ◀di▶ Giambatista Marini e ◀di▶ Daniele Gasparo ◀di▶ Lohenstein. Per tal motivo il Caraccio col cardinal Delfino e con pochi altri sobrii scrittori, si considerarono da un Gravina, da un Crescimbeni e da altri gran letterati, come i primi ristoratori del buon gusto in Italia. Non avremmo noi quì ripetuto questo giudizio tanto vantaggioso al Caraccio, se un regnicolo pochi anni fa non avesse voluto asserire in una prefazione che lo stile ◀di▶ lui si risente dell’infelicità del suo tempo. Di grazia indicano veruna infelicità del seicento i passi allegati? ne indica tutta la tragedia? Ma il leggitore sarà curioso ◀di▶ sapere, su qual fondamento colui ciò affermato avesse. Ecco l’unica prova che ne ostentò con enfasi innanzi ad un componimento, in cui saccheggiò meschinamente il Caraccio; sono i due versi seguenti detti da un Messo nella scena prima del IV atto:
O superbia superba, o de le menti
E null’altro (dirà il lettore)? Null’altro. Ma è questo forse un pensier falso? una metafora stravagante? una pazza iperbole? un’ antitesi puerile? Niente ◀di▶ ciò, come ognun vede. I Latini ◀di▶ miglior nota si valsero ◀di▶ simil pensiero in proposito dell’avarizia. L’emulator ◀di▶ Pindaro, seguendo il satirico Lucilio, l’usò nell’ode 2 del libro II,
Crescit indulgens sibi dirus hydrops,Nec sitim pellit.
Gl’Italiani l’adoperarono ancora. Benedetto Menzini maestro ◀di▶ poetica e ◀di▶ gusto nella satira V disse l’avara idropisia. Ora il leggitor saggio sa ben distinguere un ornamento, che può essere straniero forse alla poesia scenica, da un concettuzzo falso e proprio della corruzione del secolo XVII. Sa egli però che ◀di▶ tali ornamenti non sempre proprj della scena molti se ne hanno non solo nel Caraccio, ma in altri celebri Italiani del XVI e in cento Francesi, e nell’istesso P. Corneille ed in Giovanni Racine.
ADDIZIONE II*
Su i preti smaschiati ◀di▶
Madrid.
Nella Real Chiesa dell’Incarnazione pur ◀di▶ Madrid tra’ sacerdoti che vi uffiziano, trovansene quasi sempre non pochi smaschiati.
ADDIZIONE III*
Nuovo teatro ◀di▶ Milano.
El’altro poi assai più splendido, vasto, e bene architettato fattovi in seguito costruire per comando dell’imperadore Giuseppe II.
ADDIZIONE IV**
Sull’espulsione de’ Mori dalle Spagne.
Che non riparò i mali dell’espulsione ◀di▶ un immenso popolo ◀di▶ Mori Spagnuoli.
ADDIZIONE V*
Convitato ◀di▶ pietra del Zamora.
In Ispagna si è continuato a mostrar su quelle scene fino a tanto che Antonio de Zamora non vi espose la sua commedia sul medesimo argomento trattato con minori assurdità. In Italia si tradusse quella del frate dal Perrucci siciliano.
ADDIZIONE VI**
Omissioni degli apologisti Spagnuoli.
E Lasciando gl’innumerabili insetti del Parnasso Spagnuolo che professano ◀di▶ tutto ignorare, il sig. Andres le ha mai contate fralle buone della loro nazione, egli che trionfa colla Celestina alla mano? Huerta, inurbano Gongorista, che solo stava bene in Orano, le ha mai poste in vista? Si confrontino le loro scritture.
ADDIZIONE VII*
Esame delle
tragedie del Virues.
La gran Semiramis a buona ragione non dee reputarsi una tragedia divisa in tre atti o giornate, ma una rappresentazione de’ fatti ◀di▶ questa regina in tre favole separate. Nella prima giornata trattasi dell’incontro ◀di▶ Nino con Semiramide moglie ◀di▶ Mennone, cui il re propone ◀di▶ cedergliela; egli ricusa; il re gliela toglie per forza; e Mennone s’impicca. Dalla prima alla seconda giornata passano sedici anni, e l’azione consiste nell’esser Nino avvelenato, nel chiudersi tralle Vestali per ordine ◀di▶ Semiramide is figliuolo Ninia avuto da Nino, e nel coronarsi re Semiramide che per la somiglianza è creduta Ninia suo figliuolo. Corrono altri sei anni dalla seconda alla terza giornata, in cui si tratta della dichiarazione che fa Semiramide ◀di▶ esser donna, della cessione dello scettro a Ninia dichiarandosene innamorata, e della morte che ne riceve.
La cruel Cassandra contiene molti fatti e molti ammazzamenti, ed è la più spropositata delle favole del Virues. Ad eccezione ◀di▶ uno o due personaggi che poco figurano nella multiplicità delle azioni ◀di▶ tal componimento, tutti gli altri sono perversi e scellerati. Vi muojono otto interlocutori, e nello scioglimento veggonsi sulla scena cinque cadaveri; tal che lepidamente un erudito Spagnuolo soleva dire, che in vece ◀di▶ una tragica azione sembrava rappresentazione ◀di▶ una peste. Tutto in essa è sconcerto, stranezze, puerilità; nè lo stile nè la versificazione rendono tanti spropositi tollerabili.
Atila furioso non cede alle altre nelle scempiaggini e tutte le vince in atrocità. Vi muojono intorno a cinquantasei persone oltre ◀di▶ una galera bruciata con tutta la gente che vi è imbarcata. La furia ◀di▶ Attila non disapprovata dal Montiano, è poi la cosa più sciocca e ridicola del dramma, sembrando che Attila dovrebbe dipingersi furioso, se non come Oreste pieno ◀di▶ rimorsi, almeno come dominato dall’ira in estremo grado, ma non già ridicolo ed impetuoso come un pazzo.
La infeliz Marcela non è solo una specie ◀di▶ novella, come diceva il medesimo Montiano, ma un tessuto ci scene sconnesse, improprie, talvolta buffonesche, talvolta atroci. I personaggi per lo più sono inutili ed episodici; le inconseguenze continue; lo stile ineguale ora plebeo e della feccia del volgo, ora fuor ◀di▶ proposito elevato, sempre sconvenevole e lontano dalla tragica gravità, la versificazione dove pomposa, dove triviale. L’autore volle in Marcella rappresentare l’Isabella dell’Ariosto amata da Zerbino. Ed appunto nella prima parte del la favola del Virues accade a Marcella l’avventura d’Isabella che condotta da tre seguaci del suo amante resta in potere ◀di▶ uno ◀di▶ essi preso ◀di▶ cieco amore per lei, che allontanato con un pretesto il più forte degli altri due, ferisce l’altro. Alarico mentre Marcella dorme, manda Ismenio per procurare un cocchio, e ferisce Tersillo che ricusa ◀di▶ secondarlo. Marcella tenta la fuga, Alarico la trattiene, ma accorsi alle grida ◀di▶ lei alcuni banditi, Alarico fugge. Formio capo della masnada consegna Marcella a Felina, come Isabella nell’Ariosto è data in custodia alla vecchia Gabrina. Manca poi al Virues la guida del poeta ferrarese, e si avvolge nel resto in avventure mal accozzate, in bassezze e indecenze.
Elisa Dido non rappresenta questa regina amante ◀di▶ Enea come cantò Virgilio. La favola del Virues si aggira sul matrimonio che Jarba vuol contrarre con Didone. Ella, tuttochè piena della memoria ◀di▶ Sicheo, promette nella prima scena ◀di▶ unirsi all’Affricano. Alcuni capitani suoi vassalli che aspirano alle sue nozze, per turbare il trattato assaltano il campo de’ Mori e rimangono uccisi. L’ambasciadore moro torna a Didone, ed a nome ◀di▶ Jarba le presenta una spada, una corona ed un anello. Didone presso a conchiudere il suo matrimonio con Jarba torna col pensiero a Sicheo; ma pure per suo comando Jarba è introdotto in città. Questo re che non si è veduto ne’ primi quattro atti, comparisce nel V, ed il Coro apre la stanza ove dimorava Didone, e si vede questa regina trafitta dalla spada ◀di▶ Jarba, che ha la corona a’ piedi ed una lettera in mano. Jarba (che sembra venuto unicamente a leggere quel foglio, e a disporre l’esequie ◀di▶ Didone) comprende dalla lettera che la regina per mantenere eterna fede a Sicheo ha scelta la morte. Impone dunque, altro non potendo, a’ Cartaginesi ◀di▶ adorarla come una divinità, e la tragedia finisce. Tutti i cinque atti sono ripieni d’inutili, inverisimili e freddi amori de’ capitani ◀di▶ Dido, e ◀di▶ un racconto de’ suoi andati casi impertinentemente cominciato nel I atto, narrato a spezzoni ne’ seguenti, interrotto quattro volte, e compiuto nel quinto. Il Montiano affermava che in questa favola si rispettano le regole, ma per regole intende solo le unità ◀di▶ tempo e ◀di▶ luogo. Il Lampillas che senza nulla intendere ◀di▶ poesia, volle parlar della drammatica, stimò questa Dido una tragedia perfetta. Compete questa osservazione ad una favola, ◀di▶ cui tre atti almeno sono inutili, e dove Didone, senza apparire la necessità che l’astringe a promettersi a Jarba, è posta nel caso ◀di▶ darsi la morte per non isposarlo? Ciò è tanto più sconvenevole, quanto più Jarba, che viene in iscena sì tardi, si dimostra lontano dalla fierezza, dotato ◀di▶ un cuor nobile, compassionevole e religioso. Si dirà perfetta una tragedia, in cui Seleuco, Carchedonio, Pirro e Ismeria, personaggi totalmente oziosi, la colmano sino alla noja ◀di▶ declamazioni e ◀di▶ racconti gratuiti e seccanti? E’ argomento ◀di▶ perfezione, che mentre i personaggi subalterni cicalano a dismisura, Elisa, figura principale del quadro, in cinque atti recita appena 170 versi, e Jarba non men necessario all’azione è riserbato solo per lo scioglimento con sotterrar Didone? Piano così assurdo verseggiato in istile tanto lontano dalla gravità e dalla correzione, a chi poteva parer tragedia perfetta se non all’ab. Lampillas?
[Errata]
ERRORI |
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CORREZIONI pel tomo IV. |
pag. 89, lin. 2 Ayqueja |
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Ay que ya |
pag. ivi lin. 7 Hallaros ha huerfanitos |
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Hallaros ha horfanitos |
pag. 285, lin. 1 del corrente anno 1789 |
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dell’anno 2789 |