CAPO I.
Teatro Spagnuolo.
Che influiscano potentemente sull’eloquenza i modelli che prendonsi ad imitare, oltre all’avvertimento di▶ Orazio che inculcava lo studio ostinato de’ Greci esemplari, vien comprovato per la storia in ogni nazione e singolarmente dalla Spagnuola. Gli abitanti ◀di▶ quella penisola per natura d’ingegno acre, vivo, perspicace ed atto ad ogni impresa, possedendo una lingua figlia generosa ◀di▶ bella madre, ricca, espressiva, maestosa, pieghevole, armoniosa, e nobile, doveano fuor ◀di▶ dubbio segnalarsi nelle amene lettere tosto che ne’ buoni esemplari additata lor si fosse quella forma del Bello che il Gusto inspira ed alimenta negli animi gentili. Una lingua nascente non sempre imbatte alla prima a scegliere la versificazione più armonica e più acconcia a ricevere le forme leggiadre che gli antichi seppero ricavar dalla bella natura. Gli Spagnuoli ne’ tre secoli che precedettero il XVI conobbero in qualche modo i Latini e formaronsi alcuni metri nazionali come Alessandrini ◀di▶ diverso numero ◀di▶ sillabe detti fra loro ◀di▶ arte maggiore, e ridondiglie, decime, quintiglie, ed endecce. Dir però non saprei quando avrebbero essi trasportate nel loro volgare le antiche bellezze, se più lungamente persistevano ad usare la propria versificazione. Giovanni Boscano non prestò picciolo servizio alla nazione col porre in pratica il consiglio dell’italiano Andrea Navagero d’introdurre nella poesia castigliana la tessitura de’ metri italiani, Con ciò egli non solo venne a mostrare il meccanismo ◀di▶ una versificazione straniera, come taluno si diede buonamente a credere. La necessità ◀di▶ apprendere l’artificio e il portamento del nostro sonetto, della canzone, dell’ottava, della terzina, rendè loro famigliare la lettura ◀di▶ Dante, Petrarca, Sannazzaro, Ariosto e Bembo; ed in quel puro fuoco che spirano siffatti scrittori, si riscaldarono Garcilasso, Errera, Argensola ed altri valorosi poeti del secolo XVI.
Ma perchè nella drammatica non valse simile esempio? Forse perchè l’antica severa tragedia quivi originalmente si amò ben poco, e la commedia italiana non si confaceva gran fatto a’ patrii costumi del cielo ispano. Forse ciò avvenne ancora, perchè i primi traduttori spagnuoli delle antiche favole non ne diedero una idea capace d’invitare all’imitazione. Forse la novità tentata dal commediante Naarro coll’introduzione ◀di▶ battaglie, assedii, duelli, dovette allettare assai più una bellicosa nazione; e quindi determinare Lope de Vega, Castro, Mira de Mescua ecc. a ritrarre i costumi e gli evenimenti delle cronache nazionali. Forse lo spirito stesso ◀di▶ cavalleria, e l’amore delle avventure strane che spinse Cervantes a motteggiarne nel Don-Quixote, rendeva alla nazione accetto un teatro che n’era pieno. Forse tutte queste ragioni unite insieme contribuirono a dare a quelle scene un carattere particolare.
I nominati autori spagnuoli, de’ quali molti fiorirono anche sotto Filippo III, scorrendo con piede ardito per ogni parte del Parnasso, osarono calcar nella scenica un nuovo sentiero, e l’intemperanza e la soverchia fiducia gli menò sovente fuori ◀di▶ strada; a somiglianza ◀di▶ un fogoso destriero che trascorrendo a salti per iscoscesi dirupi urta, rovescia, calpesta quanto incontra, e finisce la carriera in un precipizio. L’amor ◀di▶ novità sedusse i contemporanei e i successori, aperse il campo alla soga della fantasia, e sursero i Gongora e i Gongoreschi.
Luigi ◀di▶ Gongora e Argote cordovese nato nel 1561 e morto nel 1627 sortì dalla natura vivacità, robustezza, energia, ma nella lirica battè il sentiero delle stravaganze, dipartendosi dalla gentilezza e verità seguita da Garcilasso ed Argensola. Le ◀di▶ lui poesie sublimi il Polifemo, le Solitudini, le Canzoni sono un tessuto ◀di▶ metafore strane e ridevoli. Noi non ne rechiamo quì gli esempi che avevamo raccolti per presentargli al signor Vicente Huerta che n’era cieco idolatra, perchè la ◀di▶ lui morte ci sciolse dall’impegno seco contratto ◀di▶ dargliele a conoscere. Oltreacciò non ignorano i sensati spagnuoli che l’istesso Lope de Vega, che non fu de’ più sobrii scrittori, caratterizzò come inintelligibili le poesie del Gongora. Quevedo se ne burlava ancora. Il giudizioso Luzan nel nostro secolo si è seagliato parimente contro gli spropositati groppi gongoreschi ◀di▶ matte metafore. La gioventù dee però esser prevenuta che Gongora non manca ◀di▶ merito in altri generi. Egli può dirsi l’inventore ◀di▶ una spezie ◀di▶ romance, in cui narransi avventure ◀di▶ Mori innamorati con moltissima grazia, leggiadria, affetto e naturalezza; nel che ha avuto un emulo gentile e felice nel mio da molti anni defunto amico Nicolàs Fernandez de Moratin. Tra’ sonetti del Gongora alcuno ve n’ha esente da notati difetti: le sue poesie burlesche hanno leggerezza, sale, vivacità: qualche canzone lirica è senza eccessi: vaga e semplice mi sembra la V delle sue canzoni amorose, che incomincia,
Buclas, o tortolilla,Y el tierno esposo dexas.
Il giovane industrioso ne imiti le grazie additate, e prenda miglior modello nel sublime.
Coltivò Gongora anche la drammatica e scrisse las Firmezas de Isabela commedia, el Doctor
Carlino commedia, e una favola Venatoria, le
quali lasciò imperfette. Tutte le ciance e i traslati aggroppati del Polifemo
e delle Solitudini si trovano
nell’Isabella ma con delirio maggiore, perchè in
questa parlano in proprio nome le persone introdotte, e non il poeta. Un
personaggio chiama la morte
alcalde de
huesso
; un altro parlando ◀di▶ un vecchio canuto chiama i ◀di▶
lui capegli
raggi pettinati del sole della
prudenza
, e
fila
da cui
pendono
(come dalle pergamene de’
privilegii) i sugelli
dell’esperienza
,
carte bianche della
storia
, in cui
la penna della memoria
scrive
con inchiostro d’argento
; altrove la città ◀di▶
Toledo è chiamata
turbante ◀di▶ lavoro affricano
, a cui il
Tago serve ◀di▶ benda ◀di▶ mosellina bianca listata de
oro
. In somma in ogni personaggio traspare tutto Gongora allorchè delira. Ne tralascio le buffonerie
frammischiate alle cose sacre: l’infelice esposizione della favola, non
avendo saputo introdurla se non con fare che il buffone in 160 versi ne
racconti a se stesso i fatti che la precedono: le meschinità e improprietà
dell’intreccio, l’insipidezza, la moltiplicità
delle azioni, l’irregolarità e la mancanza d’interesse. Del Dottor Carlino non si ha che il primo atto e buona parte del
secondo. Questa favola è più comica, e sebbene la solita pedanteria vi si
trovi da per tutto seminata, non vi è però gettata col carro come
nell’altra. Ma quello che ci fa godere che sia rimasta imperfetta, si è
l’oscenità de’ fatti che vi si maneggiano con isfacciatagine da bordello.
Carlino è un medicastro imbroglione ruffiano che professa tal mestiere senza
verun rimorso; ed ha per compagna una Casilda civetta scaltrita che servegli
◀di▶ zimbello. Egli maneggia diversi intrighi amorosi, e specialmente uno ◀di▶
certo Gerardo con una Lucrezia maritata che traffica vergognosamente per
compiacerlo a prezzo ◀di▶ cento scudi. L’innamorato chiede in prestanza tal
danaro al marito, lo passa alla donna, e dice poscia al prestatore ◀di▶ aver
restituito il danaro alla consorte. Questa novella copiata da Giovanni
Boccaccio è più dispiacevole posta alla vista sulle scene che
nella lettura. Da questa favola del Gongora si vede che la commedia spagnuola non è sempre sì onesta matrona qual se l’immaginava l’innocente Saverio Lampillas. La nominata Venatoria
è appena incominciata, e mostra che altro non rebbe divenuta che una copia
delle pastorali italiane; perchè il prologo fatto da Cupido imita in parte
quello dell’Aminta; e nelle due sole scene che lo seguono
si narra l’avventura del bacio dato da Mirtillo del Guarini ad Amarilli col
pretesto ◀di▶ farsi guarire dalla puntura dell’ape.
Composero anche pel teatro sotto Filippo III gli autori che soggiungo.
Contemporaueo del Gongora fu Giovanni de
Tasis y Peralta conte II ◀di▶ Villamediana poeta distinto per la
nascita, per le avventure e per la morte, essendo stato ◀di▶ notte in Madrid
ucciso nella propria carrozza da braccio sconosciuto mosso, come si espresse
Gongora,
de impulso
soberano
. Tralle ◀di▶ lui opere poetiche impresse in Saragoza
nel 1619 si legge la
Gloria de
Niquea recitata dalla Regina colle sue dame, dove intervengono
pastori, deità, il Tago ed il mese ◀di▶ Aprile. Cristofero Suarez
de Figueroa giureconsulto si distinse colla traduzione del Pastor fido impressa in Valenza nel 1609; ed il sivigliano
Giovanni Jauregui buon pittore e poeta emulo del Quevedo e del Gongora che produsse in
Roma la bella sua versione dell’Aminta nel 1607, ed in
Siviglia con nuova cura nel 1618. Non furono così bene accolte le altre sue
commedie. Naturale ◀di▶ Siviglia su ancora Feliciana Henriquez de
Guzman che compose los Jardines y Campos Sabeos
tragicommedia, cui poscia ne aggiunse un’ altra del medesimo titolo, le
quali s’impressero nel 1624 in Coimbra. Bernarda Ferreira de la
Cerda portoghese versata nelle matematiche e nella musica compose
diverse commedie alla maniera allora dominante senza regolarità ed in istile
lirico troppo ricercato; le quali si trovano nel II tomo delle opere ◀di▶
questa
dama. Simone Machado anche
portoghese poeta rinomato scrisse quattro commedie impresse in Lisbona, ciòè
due sull’Assedio ◀di▶ Diu, e due sulla Pastorella Alfea. Scrissero ancora commedie verso la fine del
regno ◀di▶ Filippo III e principio del seguente due castigliani Antonio Hurtado de Mendoza, ed Alfonso de Salas
Barbadillo. Ma ◀di▶ questi ed altri portoghesi e castigliani che
tralasciamo, non essendo state le sceniche produzioni nè per numero nè per
fortuna nè per eccellenza degne dell’altrui curiosità, rimasero seppellite
ed obbliate universalmente sopraffatte dalla celebrità ◀di▶ quelle che si
composero sotto Filippo IV.
Questo monarca che guerreggiò con varia fortuna, specialmente con Anna ◀di▶ Austria sua sorella, come regina ◀di▶ Francia e madre ◀di▶ Luigi XIV, che non seppe riparare i mali dell’espulsione ◀di▶ un immenso popolo ◀di▶ Mori Spagnuoli, e che nutrì ne’ vasalli senza trarne vantaggio l’indole bellica ed il germe della decadenza nazionale, fu poeta e bell’ingegno egli stessoa, e nel proteggere le lettere moltiplico i bell’ingegni senza migliorarne il gusto. Gli spettacoli scenici ch’egli amò con predilezione, fiorirono sotto ◀di▶ lui a tal segno, che il Vega, il Calderòn, il Solis, il Moreto, si lessero e si produssero da’ Francesi che cominciavano a sorgere, e dagl’Italiani che andavano decadendo. Vuolsi che avesse egli stesso composta qualche commedia pubblicata con altro nome o con quello anonimo ◀di▶ un Ingenio secondo l’usanza spagnuola. È tradizione poco contrastata che frutto della penna ◀di▶ Filippo IV su il Conde de Essex conosciuto col titolo Dar la vida per su Dama, la qual commedia non cede a veruna nè per l’irregolarità, nè per le stranezze dello stile, benchè i caratteri vi sieno dipinti con forza. Quando anche Filippo non ne avesse dato che il solo piano, come molti stimano, essa merita ◀di▶ conoscersi originalmente sì in grazia del coronato inventore, che per la commedia stessa la quale da un secolo e mezzo quasi ogni anno si rappresenta in Madrid. L’argomento è la privanza ◀di▶ quel conte presso la regina Elisabetta d’Inghilterra, e la morte da lei ordinatane e pianta.
Giornata I. Bianca amante del conte e fiera nemica occulta d’Elisabetta ne
trama la morte introducendo ◀di▶ notte alcuni congiurati in una propria casa
◀di▶ campagna, dove trovasi a diporto la regina. Il conte che veniva a veder
Bianca, giugne opportunamente a salvar la regina, la quale coperta ◀di▶ una
mascheretta grata al suo liberatore gli dà una banda, che a que’ tempi si
reputava un favore e una prova d’inclinazione della dama verso del cavaliere
che la riceveva. Si dividono scambievolmente obbligati senza conoscersi.
Perchè sappia lo spettatore in qual guisa fu la regina assalita e difesa, il
conte lo narra a Cosmo suo
servidore fatto a tal
sine dal poeta rimanere indietro. Questa sorte ◀di▶ racconti divenuti
essenziali nelle commedie spagnuole diconsi relaciones; ed
in esse l’autore arzigogola senza freno sfoggiando in descrizioni ampollose
ed in concetti falsi e puerili, e l’attore seguendo i delirii della poesia
con gesti ◀di▶ scimie delle mani, de’ piedi, degli occhi, del corpo tuttoa, va dipingendo, non già
lo spirito del sentimento e delle passioni, ma le parole delle metafore
insolenti accompagnandole tutte con un gesto che le indichi. Di maniera che
ho veduto io stesso l’attore tutto grondante ◀di▶ sudore per lo studio che
pone ad imitare i movimenti del becco, delle ali, degli artigli ◀di▶ un
uccello, lo strisciar della serpe, il corvettar del cavallo, ed il guizzar
del
pesce. Il conte vuol riferire che entrò nel
giardino, trovò una dama mascherata che si bagnava, cui fu tirato un colpo
◀di▶ pistola, e che la difese dalle spade degli assalitori, e ne ricevè una
banda. In ciò si spendono ben 125 versi, ne’ quali entra una
scarsa vena
del
Tamigi che si fa un salasso ◀di▶ neve, una folta chioma
arruffata ◀di▶ un boschetto pettinata dal vento con
difficoltà
, l’incertezza del conte in discernere,
se le gambe della dama
che si bagnava,
correvano sciolte in acqua
, o
se l’acqua congelata formava le ◀di▶ lei gambe
,
come ancora il bere ch’ella fece dell’acqua colla propria mano, per la quale
azione il conte si spaventò temendo
non si bevesse parte
della mano
. Dopo queste scipitezze allora assai ◀di▶ moda
parte il conte col servo, cangia la scena, e l’azione passa in città. Essex
viene a veder Bianca, la quale piena della mal riuscita impresa ne parla
coll’amante con tutto l’impeto ◀di▶ una cieca vendetta, e con tutta
l’efficacia
dell’amore tenta ◀di▶ tirarlo al suo
partito. Il conte seco’ stesso detesta il tradimento, e risolve la
distruzione de’ congiurati; ma per manifestar questo pensiero recita a parte
46 versi mentre Bianca attende la risposta. In fine a lei si volge, e si
determina ad invitare con una breve lettera i congiurati a Londra,
mostrandosi risoluto a dar la morte alla regina. Nell’incontrarsi col conte
Elisabetta si avvede dalla banda ◀di▶ dovergli la vita, oltre alla potente
inclinazione che glielo raccomanda. Essex da’ moti del ◀di▶ lei volto si
accorge esser ella la donatrice della banda. Elisabetta si fa dall’amore
abbassare sino al vassallo; egli innalza a lei le sue speranze; l’uno e
l’altra frena la lingua che vuol trascorrere. Con un discorso interrotto
mostrano i loro interni movimenti; pugna nell’una l’amore colla maestà,
nell’altro la speranza ◀di▶ una fortuna brillante colla condizione ◀di▶
suddito.
Giornata II. Interessante è il secondo incontro della regina tiranneggiata dal fasto e rapita dalla propria debolezza, e del conte combattuto dall’amore ◀di▶ Bianca e dalla speranza del possesso ◀di▶ una regina dotata ◀di▶ bellezza. Ma questo punto dell’azione vien raffreddato dalle pedanterie del poeta. Si sente cantare questa redondiglia:
Si acaso mis desvariosllegaren â tus umbrales,la lastima de ser malesquitte el orror de ser mios.
Il conte prende l’occasione ◀di▶ scoprirsi amante della regina, parlandole
sotto il nome ◀di▶ Laura e glossando (interpretando) questi
versi. La regina riprende la timidezza dell’amante che si discolpa col
rispetto; entrambi fanno pompa ◀di▶ acutezze, là dove era da disvilupparsi una
tenerezza contrastata. Il conte recita anche un sonetto,
la cui sostanza è d’insinuare il tacere: la regina con un altro sonetto
obbligato alle stesse rime sostiene come più opportuno il parlare. Ognuno
vede la stravaganza del secolo che convertiva
i
personaggi in poeti improvvisatori. Senza tali insipidezze l’azione da
questo punto diverrebbe assai interessante e vivace. Il conte animato in tal
guisa è in procinto ◀di▶ scoprirsi amante, quando comparisce Bianca colla
banda che porta sopra ◀di▶ se, avendola ricevuta dal servo del conte. La
regina l’osserva, si agita, dà ordini, gli rivoca, non vede che la sua
gelosia. Partita Bianca, il conte comincia a dichiararsi; ma Elisabetta
furiosa rivestendosi ◀di▶ tutto il rigore della sovranità irritata,
a me temerario
(gli dice
interrempendolo)
a me! mi conosci? sai chi sono? lo rammenti? Parti,
allontanati, nè mai più ardire ◀di▶ entrar nella reggia; non so come
in questo punto non fo recidere quel capo che nutrì pensieri cotanto
audaci. (Oh grandezza tu sforzi il labbro a parlar
contro del cuore!)
Parte l’una colerica e gelosa,
l’altro abbattuto e stordito. Bianca intanto si appiglia al partito ◀di▶
palesare alla Regina tutta la storia de’ proprii amori col
conte implorando il real favore perchè le diventi sposo.
Ma Elisabetta che dal suo racconto ha bevuto tanto veleno, trasportata le
favella come una Regina gelosa che senza confessarlo ne ispira tutto il
terrore. Tradurremo questo squarcio, nel quale la passione non è molto
tradita dallo stile. Bianca dal suo racconto vuol conchiudere che il conte è
suo sposo, e la Regina ripiglia:
Reg.
Come tuo sposo? (Io fremo, io più non vedo!)Bia.
Come mio sposo? (o ciel che intendo!)Reg.
Indegna,Folle, debol…Bia.
Regina!Reg.
A un uom perversoDi te obbliata, a un traditor ti rendi!Bia.
Confusa io son!Reg.
Sì l’onor tuo calpesti?E alla presenza mia svelar non temiChe il conte adori?Bia.
Io non credei cotantoOltraggiar la maestà, se il conte…Reg.
(O amore!Io deliro!) Il mio sdegno, o Bianca, è zeloDel tuo decoro.Bia.
a.E gelosia rassembraReg.
Io! Gelosa io non son ; mi offende il dubbio.Presa chi regna, se contender secoAlma nata a servirla ardisse indegna,Se amasse il conte… amar? che amar mirarloSe ardisse solo, o cosa ancor che menoDel mirarlo importasse, parti, o donnaCh’io non saprei co’ denti, colle mani,Co’ detti ancor, col fiato, con gli sguardiTrarle le indegne luci, il sangue berne,Strapparle il cor, incenerir l’audace?Mi finsi, e finta ancor la gelosiaL’ira in me risvegliò… Delirio strano!Odimi attenta. Dal mio finto sdegnoImpara, o Bianca, ove tal caso avvenga,(Ne soffra anche il tuo onor: chè l’onor tuoÈ nulla ove son io) la tua sovranaA non sdegnar; ove ella volga il guardoNon mirar tu: mai non amar chi ella ami.Non mi render gelosa; chè se fintaSì terribile è l’ira in regio petto,Pensa tu qual saria se fosse vera.L’onore ancora avventurar dovessi,Pensa a qual rischio la tua vita esponi.Specchiati in questa immagine del vero,E ingelosir chi tutto può, paventa.
Così la lascia. Bianca rabbiosa ingelosita anch’essa, oltraggiata, giura
vendicarsi colle proprie mani. La Regina tralle cure del regno e dell’amore
si addormenta. Bianca esce con una pistola alla mano che porta il nome del
conte. Questi sopraggiugne e l’osserva maravigliato. Bianca si accinge a
tirare, il conte la trattiene guadagnando la pistola. Nel contrasto esce il
colpo; la Regina si sveglia; accorrono i cortigiani. Dubita la regina; non
sa qual de’ due sia il reo, e quale il suo liberatore. Il conte, nelle cui
mani è rimasta la pistola nega che Bianca abbia tentato quell’eccesso.
Sei tu dunque il traditore?
ripiglia la Regina.
Nol
so
, risponde il conte. L’uno e l’altro è arrestato.
Giornata III. Essex è convinto dagl’indizii evidenti ◀di▶ alto tradimento. Per sua difesa altro egli non dice che ◀di▶ essere innocente. E condannato a perdere la testa. Prima ◀di▶ morire chiede il conte ◀di▶ parlare a Bianca; gli è negato; altro non potendo le scrive una lettera, incaricando al servo ◀di▶ consegnarla poichè egli sarà morto. Ma la Regina che ha sottoscritta la sentenza per soddisfare in pubblico alla giustizia, pensa a liberarlo privatamente dalla morte per compensarlo della vita che le ha salvato. Entra a tal fine nella prigione colla mascheretta e coll’abito semplice che portò nella prima scena. La riconosce il conte; ma ella come una dama privata gli presenta la chiave della prigione perchè possa fuggire. Il conte la prega a scoprirsi, e la Regina il compiace dandogli prima la chiave. Il conte le domanda il perdono che suol concedersi a’ rei che veggono la faccia del sovrano. Nega la Regina ◀di▶ altro potere a suo prò dopo avergli dato il mezzo ◀di▶ fuggire. Sdegna il conte ◀di▶ fuggire, getta la chiave nel fiume sottoposto alla finestra della prigione, e le dice che se non vuol essere ingrata, dee cercar nuova guisa ◀di▶ soddisfare al suo debito. La Regina risponde ◀di▶ altro non potere, ed estremamente addolorata, ma conservando la durezza della maestà offesa, ordina l’esecuzione della sentenza. Legge il servo per curiosità la lettera scritta dal conte a Bianca. Scopre il ◀di▶ lei delitto e l’innocenza del padrone, e la reca alla Regina. Se ne rileva ch’egli invitava a Londra i congiurati unicamente per prendere in una volta tutti i ribelli. La lettera termina con un consiglio a Bianca ◀di▶ desistere dall’impresa ◀di▶ vendicarsi della Regina, aggiungendo:
Mira que sin mi te quedas,y no ha de aver cada diaquien, por mucho que te quiera,por conservarte la vida,por traydor la suya pierda.
Da questa lettera screduta la Regina ordina che si sospenda l’esecuzione della sentenza; ma il conte è già stato decapitato. Le parole della Regina per lo più sobrie e convenienti all’evento tragico ed al ◀di▶ lei carattere, malgrado ◀di▶ non pochi difetti, danno fine a questo componimento interessante. Tommaso Corneille lo spogliò in Francia de’ principali errori, e ne ritenne le situazioni tragiche nel suo Conte d’Essex; ma nella dipintura del carattere del conte egli rimane al ◀di▶ sotto dell’originale. Nella favola spagnuola Essex è un innamorato, tuttochè combatta nel ◀di▶ lui cuore l’ambizione e l’amore; ma eroicamente dà per Bianca la vita per non iscoprirla, e soggiace alla morte colla taccia ◀di▶ traditore. Nella tragedia francese egli comparisce mattamente innammorato, e, come ben dice il conte Pietro ◀di▶ Calepio, muore più per disperazione che per grandezza d’animo.
Il gusto del monarca a guisa del suono si propaga e si diffonde in tutti i sensi per la nazione. La corte ◀di▶ Filippo IV si empì ◀di▶ verseggiatori che produssero a gara un gran numero ◀di▶ favole. Talora si videro tre autori occupati al lavoro ◀di▶ una sola commedia, dividendosene gli atti; ond’ è che se ne leggono più centinaja col titolo ◀di▶ Comedia de tres Ingenios, i quali talvolta vi si nominano. Mendoza, Rosette, e Cancer ne composero molte in tal guisa. Una ne aveva io veduta rarissima intitolata la Balthasara, ◀di▶ cui il primo atto appartiene a Luis Velez de Guevara, autore ◀di▶ molte altre commedie allora stimate morto nel 1640, il secondo ad Antonio Coello, ed il terzo a Francesco Roxas, il quale molte altre favole pur compose. Il primo atto desta la curiosità ed è meno difettoso nello stile; gli altri sono pessimi per istile, per azione e per orditura. L’argomento è una commediante rinomata che si converte, si disgusta dalla propria professione e della vita passata nel più bello ◀di▶ una rappresentazione in Valenza, va a servir Dio e far penitenza in una solitudine, e muore santamente. Nell’atto del Guevara si vede alla prima la dipintura naturale ◀di▶ un teatro spagnuolo qual era a que’ tempi. Esce ad affiggere il cartello ◀di▶ una nuova commedia un servo della compagnia detta ◀di▶ Eredia commediante famoso ◀di▶ quel tempo che n’era il capo. Si figura che tal compagnia rappresenti in Valenza nel teatro dell’Olivera. Apparisce l’interiore del teatro, e si veggono nella platea sparsi alcuni venditori, che, come è stato costume anche in Madrid sino ad alcuni anni fa (prima del tumulto accaduto in tempo ◀di▶ Carlo III), vanno gridando avellanas, piñones, peros de Aragon, turron ecc. Passano i facchini co i fardelli de’ vestiti de’ commedianti. Si vedono venire al teatro Baltassarra, Leonora e la Graziosa. La gente impaziente grida, salgan, salgan, empiezen, per sollecitare i commedianti ad incominciare. Baltassarra rappresenta a cavallo in mezzo della platea (costume conservato sino agli ultimi tempi da’ commedianti) facendo la parte ◀di▶ Rosa Solimana. Nel meglio del recitare si distrae, e fa riflessioni morali sulla vanità de’ piaceri, che non entrano nella parte che rappresenta. Al fine rapita da pio entusiasmo, interrompendo i versi della favola, dice a vista degli spettatori e de’ compagni,
Afuera galas del mundo,afuera ambiciones locasque solo me haveis servidoen esta farsa engañosapor testigos del delito;
e gettati via gli abiti teatrali parte precipitosamente. L’uditorio si scompiglia; chi grida da’ palchi, chi dalla cazuela, chi dalla grada; il Grazioso marito della Baltassarra ed Eredia capo della compagnia vengono fuori confusi e disperati per le loro perdite, e termina l’atto. Il secondo contiene la vita penitente ◀di▶ Baltassarra, le preghiere e le lagrime ◀di▶ un suo amante, i tentativi del demonio per distorla. Nell’atto terzo il Roxas continuò a mostrare le astuzie del demonio, finchè si vede Baltassarra già spirata.
Ma Francesco de Roxas ha prodotte molte favole interamente sue. In quelle che si chiamano istoriche, lo stile è sommamente stravagante, e la condotta difettosissima. Di ciò può servir ◀di▶ esempio quella che intitolò los Aspides de Cleopatra, azione tragica scritta in pessimo stile colla solita trasgressione ◀di▶ ogni regola, e mescolanza ◀di▶ buffonerie arlecchinesche, la quale anche verso gli ultimi tempi, in cui dimorai in Madrid, si vide comparir su quelle scene. Egli è però autore ◀di▶ varie favole non dispregevoli nel genere comico chiamato colà ◀di▶ spada e cappa. In quella intitolata Entre bovos anda el juego degno ◀di▶ notarsi è il carattere comico ◀di▶ un toledano chiamato Don Lucas del Cigarral bellamente dipinto. Vedasene uno squarcio tratto dalla relazione che ne fa un suo servo, da noi tradotto con fedeltà:
Don Luca Cigarral, il cui modernoCasato non vien già dalla famiglia,Da lui piantato, è un cavaliere scarmo,Gracile, macilento,I piedi lunghi bassi al collo e piattiGoffo un poco, un pò calvo, verdineroPiù che poco, e ancor più schifoso e sozzo,Se canta la mattina,Non sol, come si dice,Spaventa le sue noje,Ma tutta pur la gente a lui vicina;Se dorme al suo poder, con tale orrendoStrepito russa, che s’ode in Toledo.Mangia come un studente,Beve come un Tedesco,Cinguetta al pari d’un ben grasso erede.Con grazia tal ragiona,Che ad ogni motto una novella appicca,Che sempre è lunga, e non è giammai buona.Non v’ha paese ov’ei stato non sia.Cosa non sente dir ch’ei non fe pria.Se taluno dirà d’aver la postaCorsa sino a Siviglia,Egli, ad onta del mar che si frappone,Fino al Perù la corsi anch’io, ripiglia.Di spade si favella?Ei solo se ne intende. Ad ogni lamaChe non ha impronta, egli un maestro assegna.Cento commedie ha insino ad or composte,E le conserva suggellate e chiuse,E alle figlie che avrà, vuol darle in dote.Ma vaglia il ver, benchè non sia gentile,Benchè sia mal poeta e peggior musico,Zotico, seccator, bugiardo e stolto,Con un sol vezzo ogni suo neo compensa,Che sì sordido ha il cuore e meschinello,Che non daria quel che tacere è bello.
Questa dipintura, oltre all’essere ben graziosa, ha il merito ◀di▶ prevenire
l’uditorio sul carattere del protagonista. Il poeta con altre pennellate
ancora avviva il ritratto ◀di▶ Don Luca. Fa che egli imponga che nel passare
Isabella
sua sposa da Madrid a Toledo, si copra ◀di▶
una mascheretta. Ecco tradotta la lettera che le scrive, la quale spira
tutta la gentilezza ◀di▶ Don Luca.
Sorella, io possiedo
seimila e quarantadue ducati ◀di▶ rendita ◀di▶ un maggiorato, e se io
non ho figli, viene ad essere mio cugino il mio successore. Mi vien
detto che voi ed io possiamo averne quanti vorremo. Venite questa
notte a trattare del primo, che ci sarà tempo poi per gli altri. Mio
cugino viene a prendervi;mettetevi una mascheretta, e non gli
parlate;perchè finchè io viva, voi non dovete essere nè veduta nè
udita. Nell’osteria ◀di▶ Torrejoncillo vi attendo; venite subito, che
i tempi correnti non permettono ◀di▶ aspettar molto nelle osterie. Dio
vi guardi, e vi dia più figliuoli che a me.
Un altro
bel colpo ◀di▶ pennello riceve da un altro suo foglio portato dal nominato
cugino. Contiene una carta ◀di▶ quitanza così dettata.
Ho
ricevuto da don Antonio Salazar una donna che ha da
essere mia moglie, con suoi contrassegni buoni o
cattivi; alta ◀di▶ persona, ◀di▶ pelo nera, e pulcella nelle fattezze. E
la consegnerò tale e quanta ella e, sempre che mi sarà domandata in
occasione ◀di▶ nullità o divorzio. In Toledo a’ 4 ◀di▶ Settembre del
1638. Don Luca Cigarral.
In conseguenza del suo
carattere procede don Luca nella briga attaccata co’ passeggieri in Torrejoncillo, e nell’incontro colla sposa nell’atto I,
che si rappresenta parte in Madrid e parte nel nominato villaggio. Non si
smentisce nelle avventure notturne, quando tutti i passeggieri caminando
verso Toledo pernottano in Illescas nell’atto II. Degno ◀di▶
lui è pure nell’atto III che si rappresenta in Cabañas, il
pensiero ◀di▶ far maritare Isabella col suo cugino per vendicarsene; perchè
essendo poveri, mal grado del loro amore, forza è che vivano malcontenti. I
caratteri sono ben dipinti; l’azione non offende l’unità richiesta; il tempo
si stende oltre il confine ◀di▶ un giorno, ma
non
tanto che la favola ne divenga inverisimile, restringendosi al più a due
giorni; il luogo solo non è uno, passando l’azione in Madrid, in Torrejoncillo ed in Illescas, e terminando in Cabañas. Lo stile poi
è comico, sobrio e vivace in tutto, eccetto nel dialogo degl’innammorati,
perchè allora i poeti credevano ◀di▶ cader nel basso, nel famigliare, nel
triviale, se i concetti amorosi si esprimessero con semplicità e
naturalezza.
Seguace, ammiratore e quasi alunno ◀di▶ Lope de Vega fu Giovanni Perez de Montalbàn nato in Madrid da un librajo. Di anni diciassette cominciò a scrivere commedie che si recitarono con applauso e s’impressero in due volumi nel 1639. Oggi che pochissime commedie dell’istesso Lope si rappresentano, havvene più d’una del Montalbàn che si ripete quasi in ogni anno in Madrid, cioè la Lindona de Galicia, e los Amantes de Teruel.
La Lindona. Una mescolanza ◀di▶ avventure tragiche e comiche, ◀di▶ persone reali, basse e mediocri, un cumolo ◀di▶ fatti che formano anzi un romanzo che un dramma, in cui nell’atto I interviene Sancio re ◀di▶ Castiglia, e nel II l’azione segue sotto il regno del ◀di▶ lui successore Ferdinando, rendono mostruosa questa favola che prende il nome da una Rica-Fembra ◀di▶ Galizia. Due cose secondo me l’hanno fatta conservare in teatro ad onta ◀di▶ tante stravaganze, cioè il carattere vendicativo ◀di▶ questa dama che parla nel proprio dialetto galiziano, e spira certa non usitata bizzarria e fierezza raccomandata dalla beltà; e la bellezza selvaggia ◀di▶ Linda vestita ◀di▶ pelli e cresciuta senza saper parlare, che si va disviluppando a poco a poco per mezzo ◀di▶ una tenera simpatia che le ispira la veduta ◀di▶ un giovane principe. Linda viene indi conosciuta per la figliuola ◀di▶ Lindona che ella avea gettata in mare per vendicarsi del principe Garzia ◀di▶ lei padre.
Los Amantes de Teruel. In questa terra del regno ◀di▶ Aragona corre una tradizione degli amori infelici ◀di▶ due amanti virtuosi morti ◀di▶ dolore l’uno nell’arrivar ricco per isposare la sua innammorata e trovarla moglie del suo rivale, l’altra al vedere estinto l’amante. La tradizione è accreditata presso gli Aragonesi con un sepolcro che si addita in Teruel. Su tale argomento Giovanni Tagur de Salas formò un poema epico tragico intitolandolo los Amantes de Teruel impresso in Valenza nel 1617, e poi Montalbàn ne compose il dramma ◀di▶ cui parliamo.
Malgrado de i difetti consueti l’azione principale è sommamente interessante, e i caratteri degli amanti Diego ed Isabella con molta vivacità delineati. Ferdinando altro amante d’Isabella mal noto e mal gradito, ed Elena ◀di▶ lei cugina occulta amante ◀di▶ Diego formano gli ostacoli della loro felicità. Il padre d’Isabella la destina ad un ricco e Ferdinando è tale, essendo Diego povero ◀di▶ beni e pieno solo ◀di▶ virtù e ◀di▶ valore. L’uno e l’altro nell’atto I la chiedono ad un tempo in isposa. Il vecchio riceve con sommo piacere le istanze del ricco, ma alle fervide insinuanti preghiere del povero egli rimane intenerito ed irresoluto a segno che al fine la nega ad ambedue; al povero perchè è tale, ed al ricco per non dispiacere al povero valoroso degno ◀di▶ miglior fortuna. Diego si avvisa d’implorare un altro favore, cioè ◀di▶ permettergli ◀di▶ sperare la mano della figliuola nel caso che egli migliorasse ◀di▶ fortuna; ed a tale effetto chiede che destini uno spazio competente per tentar la sorte. Condiscende il buon vecchio, e si conviene che Isabella rimarrà senza prender marito tre anni e tre giorni, e questi scorsi nè tornando Diego più ricco, possa dare la mano a Ferdinando. Diego va a militare sotto Carlo V che muove contro Solimano.
Nell’atto II i maneggi ◀di▶ Elena fanno sì che per due anni e mezzo nè le lettere ◀di▶ Diego giungano alla cugina, nè quelle ◀di▶ lei sieno a Diego indirizzate. In oltre per abbattere ◀di▶ un colpo la costanza d’Isabella si fa arrivare un finto soldato colla falsa notizia della morte ◀di▶ Diego, che riduce agli estremi la vita d’Isabella senza indebolirne la passione. Dall’altra parte Diego ha fatti prodigii ◀di▶ valore, ha salvata la vita all’Imperadore, si è fatto ammirare nella Goletta, è stato il primo a montare sul muro ◀di▶ Tunisi, ma sempre sfortunato si trova tuttavia povero. Disperato si vuole ammazzare; giugne all’Imperadore la notizia ◀di▶ quel trasporto; ne intende le avventure ed i meriti; lo dichiara capitano della propria compagnia; gli assegna tremila scudi annui sulle rendite ◀di▶ Teruel per mantenersi, e gliene dà altri quattromila per le spese del viaggio.
Non può disporsi Isabella a sposar Ferdinando prima ◀di▶ compiersi lo spazio
accordato al creduto morto suo amante de’ tre anni e tre giorni. Nell’atto
III scorso questo tempo un’ ora dopo è costretta a dargli la mano. Dopo un’
altra ora giugne in Teruel Diego vivo ricco e glorioso. L’incontro
de’ due amanti è tenero e doloroso. Vorrebbe
Isabella narrare come sia condiscesa alle nozze, ma teme che sopraggiunga il
marito. L’affretta a partire. Tradurrò esattamente qualche squarcio ◀di▶
questa scena.
Vieni tu con salute?
dice
Isabella.
Saprai poi del mio stato
,
risponde Diego; ma tu come stai? Morta sopra la terra, ella ripiglia e vuol partire. Addio, ella segue agitata:
Addio; con te restar non m’è concesso.Ti dirò solo in breve, che un soldatoChe sospirai, che piansi,Che morir volli… Oddio! non è più tempoDi rammentar quel che obbliare è forza.Die.
Isa.
Di pensar ch’è questaL’ultima volta, oimè, ch’io ti favello,Che tu mi vedi.. Addio… Ti amai, lo sai.Partisti…Die.
Die. E bene?Isa.
Si ostinò Fernando,L’interesse parlò, l’udì mio padre.Corse il romor della mentita morte…Ah maledetto sia l’infame, il falso,Il comprato messaggio, onde mi vedoA sì misero stato oggi ridotta!Passò il tempo prefisso; amante invanoVolli oppormi al destin ; minaccia il padre;E infin…. deggio pur dirlo? In fin son moglie.Vanne, tel dissi già, lasciami, parti,Chè se ti miro più perdermi posso,E perdermi non vò.Die.
Pensa.Isa.
Non giova.Die.
Ben mio…Isa.
Vanne…Die.
Ah tu speri invan, crudele,Che tal freddezza e tal contegno io soffra.Isa.
Che far poss’ io?Die.
Al padre dir ch’io vivo.Isa.
È vano.Die.
Parlar chiaro a don Fernando.Isa.
Sono già sua.Die.
Prova la forza.Isa.
È vana.Die.
Vientene meco.Isa.
L’onor mio m’è caro.Die.
Fuggi sola.Isa.
Ove?Die.
A un giudice ricorri.Isa.
A cui?Die.
Dì che sei mia.Isa.
Non è più tempo.Die.
Uccidimi.Isa.
Io che t’amo?Die.
Segui dunque ad amarmi.Isa.
Ah nobil nacqui!Die.
Qualche rimedio alfin trovar conviene.Isa.
E trovato.Die.
Qual è?Isa.
Morir tacendo.Die.
Scelgo il morir, ma palesando al mondoL’amor tuo, la tua fe.Isa.
Sai ch’ho un marito.Die.
Io, io son tuo marito, e dal tuo fiancoAppartarmi potrà solo la morte.Isa.
E l’onor mio?Die.
Tutto si perda omai.Isa.
E la tua vita?Die.
Oggi finisca.Isa.
E il mioConsorte?Die.
Non ti goda.Isa.
E i miei parenti?Die.
Versin tutto il mio sangue.Isa.
Invano io priego?Die.
Io nulla ascolto.Isa.
Ed io con questa manoSaprò morir.Die.
Saprò morire anch’io.
Parte Isabella, la segue Diego; ma ella temendo che sia veduto dal marito, per far che vada via gli dice che l’abborrisce. L’anima dell’innammorato oppressa in tante guise dalla piena de’ violenti affetti non resiste a quest’ultimo colpo, e spira ◀di▶ puro dolore, cagionando colla sua morte quella d’Isabella che gli muore accanto. La relazione ch’ella prima ◀di▶ spirare fa della morte del suo amante al marito, e l’estreme sue querele mal corrispondono alla scena patetica e naturale che abbiamo tradotta, essendo il rimanente pieno ◀di▶ arguzie, sofisticherie, scipitezze e concettuzzi impertinenti. Questa composizione per lo più si rappresenta ogni anno sul teatro ◀di▶ Madrid sempre con piacere e concorso, quante volte la parte d’Isabella si eseguisca da un’ anima sensibile che per buona ventura o per arte non sia stata avvelenata da’ pregiudizii istrionici. Tal era negli anni che io vi dimorai, la delicatissima attrice Pepita Huerta mancata nel fior degli anni suoi.
Uno degli scrittori più fecondi trasportati da sfrenata fantasia fu frate Gabriel Tellez ◀di▶ Madrid religioso ◀di▶ s. Maria della Mercede morto verso il 1650. Le sue commedie impresse in tre volumi in Madrid ed in Tortosa nel 1634 portauo il finto nome ◀di▶ Maestro Tirsi de Molina. Egli accumolava ◀di▶ tal sorte gli avvenimenti che oltrepassava gli eccessi de’ suoi contemporanei. A lui appartiene la commedia delle imprese de’ Pizarri, in cui corre dalle Spagne al Perù con somma leggerezza. Il teatro odierno non parmi che ◀di▶ questo frate altra favola rappresenti eccetto il Burlador de Sevilla, per altro titolo il Convitato ◀di▶ pietra. Niuno ignora la fortuna ◀di▶ questa stravagantissima composizione. In Ispagna si è continuato a mostrarsi sulle scene sino al tempo che Antonio de Zamora non prese a trattar questo medesimo argomento con minori assurdità. In Italia però dal Perrucci siciliano si tradusse quella del frate, ed i pubblici commedianti la ridussero a sogetto rendendola ancor più grottesca. Il Moliere la rettificò, facendone una dipintura ◀di▶ un discolo, la spogliò della varietà intemperante, del bizzarro, del miracoloso, e ne dissipò il concorso. Fece altrettanto Carlo Goldoni. Il dramma originale del Tellez ha trionfato per più ◀di▶ cento anni su tanti teatri, e si riproduce da’ ballerini pantomimi; ad onta del re ◀di▶ Napoli che esce col candeliere alla mano ai gridi d’Isabella vituperata e ingannata da uno sconosciuto, ◀di▶ tante amorose avventure ◀di▶ don Giovanni Tenorio, de i ◀di▶ lui duelli, della statua che parla e camina, che va a cena, che invita il Tenorio a cenare, che gli stringe la mano e l’uccide, e dello spettacolo dell’inferno aperto e dell’anima ◀di▶ Don Giovanni tormentata.
Giambatista Diamante è autore ◀di▶ varie favole, alcune delle quali sino a’ giorni nostri si sono conservate in teatro, e nel giro ◀di▶ ciascun anno costantemente vi si ripetono. Ogni prima Dama del teatro spagnuolo per far pompa ◀di▶ abilità apprende a rappresentar la ◀di▶ lui Judia de Toledo. L’argomento appartiene al regno ◀di▶ Alfonso VIII re ◀di▶ Castiglia che per sette anni perseverò nell’amore ◀di▶ una Ebrea toledana chiamata nelle cronache nazionali Fermosa. Don Luis de Ulloa y Pereyra compose de’ fatti ◀di▶ lei un poema ◀di▶ 76 ottave intitolato la Raquel che si trova inserito nel Parnasso Spagnuolo. L’azione del dramma incomincia dall’esiglio degli Ebrei decretato da Alfonso, per cui viene Rachele ad implorar la clemenza del sovrano, prosegue col reciproco innammoramento, e termina colla morte ◀di▶ Rachele per mano de’ Castigliani sollevati. Le stranezze dello stile, l’irregolarità, la buffoneria alternata con gli evenimenti tragici, non offuscano del tutto l’energia e la verità che si osserva nella dipintura delle passioni e de’ caratteri ◀di▶ Rachele innammorata ed ambiziosa, e ◀di▶ Alfonso accecato dall’amore. Traluce agli occhi curiosi e sagaci qualche pensiero vigoroso e naturale, benchè sommerso, per così dire, da una tempesta ◀di▶ metafore spropositate. Tale parmi nella giornata I ciò che Rachele risponde al padre che vuol sugerirle quel che dir debba al re. Non ho bisogno, gli dice, delle vostre ragioni per persuadere; e quando mai, aggiugne, il ◀di▶ lui sdegno confondesse il mio discorso,
Yo harè que enmienden los ojos lo errores de mi labio.
Tale nella giornata II è la risposta data da Rachele ad Alfonso. Lascia il rispetto, le dice il re,
Hablame como à tu amante,No como à tu rey.Raq.
No puedo,Que ha poco que eres mi amante,Y ha mucho que eres mi dueño.
Tale nella giornata III il congedo che Rachele condotta a morire prende dal padre.
Diamante scrisse anche una favola sul Cid, e Pietro Cornelio ne trasse alcuni pensieri. A lui debbe questo sentimento ◀di▶ Chimene,
Je sai que je suis fille, et que mon pere est mort.
Diamante avea detto ciò forse con maggior precisione,
El Conde es muerto, y yo su hija soy.
Ma in fine che brami? si dice a Chimene, ed ella presso il poeta francese risponde,
Le pursuivre, le perdre, et mourir après luy.
Diamante disse prima,
Perseguille hasta perdelle,Y morir luego con ela
Ma sotto questo lungo e fecondo regno fiorì principalmente il famoso Pedro Calderòn de la Barca assai conosciuto in Francia ed in Italia, de i cui drammi sacri e profani si valse frequentemente l’istesso Filippo IV. Egli compose almeno centoventi commedie oltre al gran numero ◀di▶ prologhi o loas, delle quali una gran parte sino a nostri dì continua a rappresentarsi, e secondo l’apparenza continuerà ancora. Sino all’anno 1664 non n’erano usciti che tre tomi, i quali poi crebbero a nove oltre a sei altri impressi in Madrid nel 1717, che contengono settantadue autos sacramentales. Ma il numero ◀di▶ questi e delle commedie apparisce molto maggiore perchè gliene attribuirono altre non sue per accreditarle col ◀di▶ lui nome.
Di questo celebre commediografo variamente giudicarono i critici, e forse sempre con ingiustizia. Deificato da alcuni fu trattato da altri qual mostro e corruttore del teatro. Non meritava la cieca idolatria de’ primi, avendo lasciate a’ posteri moltissime cose da migliorare; non le amare invettive degli altri a cagione ◀di▶ molti pregi che possedeva. Blâs de Nasarre, il quale cercò abbassare i più celebri drammatici spagnuoli, per sostituir loro un merito ideale ◀di▶ altri oscuri scrittori, declamò prolissamente contro le stravaganze, gli errori e l’ignoranza ◀di▶ Calderòn. Senza dubbio questo poeta (per accennarne alcuna cosa in generale prima ◀di▶ scendere alle particolarità ◀di▶ qualche sua favola) mostrò ◀di▶ non conoscere, o almeno non si curò ◀di▶ praticare veruna delle regole che è più difficil cosa ignorare che sapere: pensando far pompa ◀di▶ acutezza nell’elevare lo stile, si perdè, non che nel lirico, nello stravagante, e, per dirla col signor Andres medesimo suo compatriota, ne’ ghiribizzi e negli agguindolamenti: abbellì i vizii (errore sopra ogni altro inescusabile) e diede aspetto ◀di▶ virtù alle debolezze: fece alcun componimento ◀di▶ pessimo esempio come el Galàn sin Dama: cadde sovente in errori ◀di▶ mitologia, ◀di▶ storia, ◀di▶ geografia. Ma Calderòn ebbe una immaginazione prodigiosamente feconda: non cedeva allo stesso Lope nell’armonia della versificazione: maneggiò la lingua con somma grazia, dolcezza, facilità ed eleganza: seppe chiamar I’ attenzione degli spettatori con una serie ◀di▶ evenimenti inaspettati che producono continuamente situazioni popolari e vivaci. Sono, è vero, i suoi ritratti per lo più manierati e poco somiglianti agli originali che ci presenta la natura; ma non si allontanano molto dalle opinioni dominanti a’ giorni suoi. Oggi che si conosce colà tutto il ridicolo della smania cavalleresca e de i duellisti mercè del piacevole pennello ◀di▶ Miguèl Cervantes, i personaggi ◀di▶ Calderòn rassembrano tutti Rodomonti e Pentesilee erranti; ma era cosa comune al suo tempo che un cavaliere prendesse ◀di▶ notte le sue armi, andasse in ronda sospirando sotto le finestre della casa della sua bella, e si battesse con chi passava. Per giudicar dritto ◀di▶ un autor comico, non basta intender l’arte, ma convien saper trasportarsi al ◀di▶ lui secolo.
I generi scenici da lui coltivati furono tre, l’allegorico degli auti sacramentali, le favole istoriche, e le commedie ◀di▶ spada e cappa.
Quanto agli auti sembra che egli non avesse compresi gl’inevitabili inconvenienti attaccati al maneggiar sulla scena la delicata materia de’ misteri della nostra religione. Al vedere egli deliziavasi nell’interpretarli con mille giuochetti puerili sulle parole e con tante buffonerie de’ personaggi ridicoli. Eccone qualche prova. Cristo (dicesi in un auto) morì alla strada de las tres Cruces, alludendo con equivoco meschino alle croci del Calvario e alla calle de las tres Cruces ◀di▶ Madrid. Con simile equivoco si dice che la Samaritana abita alla calle del Pozo. Con istrano anacronismo intervengono in un medesimo auto personaggi divisi ◀di▶ tempi e ◀di▶ paesi, come la Trinità, il demonio, san Paolo, Adamo, s. Agostino, Geremia. L’Appetito, il Peccato, una Rosa, un Cedro, il Mondo, si trovano personificati negli autia. In quello intitolato gli Ordini Militari si figura insipidamente che Cristo venga a domandare la Croce al Mondo, e che questo personaggio per concedergliela voglia sentirne l’avviso ◀di▶ Mosè, Giobbe, Davide e Geremia, i quali affermano che egli la meriti pel quarto del Padre; dopo ◀di▶ che il Mondo si determina a dare a Cristo la Croce, affermando non averla sinora concessa a veruno se non per onore. Nel Laberinto del Mondo l’Innocenza rappresentata dalla Graziosa, che corrisponde alle nostre Servette e Buffe, in presenza ◀di▶ Theos che è Gesù Cristo venuto su ◀di▶ una nave a redimere il mondo, dice del mare,
… por mi cuenta he halladoQue no es grazioso el mar aunque salado;Mas fuera dicha sumaQue el chocolate hiciera tanta espuma.
Garcia de la Huerta per giustificar l’anacronismo ◀di▶ Calderòn ◀di▶ aver fatto usar l’artiglieria in tempo
dell’imperadore Eraclio, citò Milton che pur l’introdusse
nel combattimento degli
Angeli, ed aggiunse che
l’uno e l’altro
sublime ingegno
pospose con
uguale ardire e felicità
lo proprio à lo sublime y
maravilloso
. Non so se nell’auto riferito Calderòn si propose ancora in grazia del sublime
e del maraviglioso ◀di▶ mentovar l’uso del chocolate prima della venuta ◀di▶ Cristo; almeno non costa che gli
Angeli avessero fatto uso ancora ◀di▶ questa pozione Messicana.
Ma è inutile ◀di▶ più trattenersi su gli auti sacramentali banditi al fine per sempre da teatri spagnuoli. Erano già tre mesi nel settembre del 1765 quando giunsi in Madrid, che per real rescritto del gran monarca Carlo III se n’era proibita la rappresentazione per lo scandalo che producevano le interpretazioni arbitrarie e gli arzigogoli de’ poeti stravaganti su ◀di▶ così gran Mistero, e per l’indecenza ◀di▶ vedersi sulle scene una Laide rappresentar da Maria Vergine, una mima elevar la sfera sacramentale, e cantare il Tantum ergo.
Nelle favole istoriche dove introduconsi personaggi reali, regnano le principali stranezze tanto nello stile per cercarsi il sublime, quanto nelle apparenze e negli accidenti accumulati senza modo per correre dietro alle novità, ed all’inaspettato ad oggetto ◀di▶ chiamare il concorso. Calderòn ne compose moltissime che possono dirsi senza esitanza stravaganti; p. e. las Armas de la Hermosura, in cui Coriolano diventa un vero cavaliere errante de’ bassi tempi: Finezza contra finezza, in cui si ammassano evenimenti disparati ed apparenze senza numero, e si stravolge il bellissimo episodio ◀di▶ Olinto e Sofronia del gran Torquato: la Aurora en Copacavana che a stento m’induco a crederla lavoro del Calderòn. In essa i Peruviani sono delineati a capriccio, e la storia dello scoprimento ◀di▶ Pizarro vi è adulterata ed involta in miracoli ed apparenze senza oggetto e senza giudizio, divenuta tutta fantastica per mezzo dell’Idolatria personaggio allegorico, che si agita, medita, eseguisce mille incantesimi senza perchè e senza sapere ella stessa nè quel che si voglia nè quel che intenti.
Pur tra simili sue favole istoriche se ne leggono alcune più interessanti e più sobrie, per varii tratti poetici e per situazioni pregevoli, se voglia usarsi loro indulgenza per la solita manifesta irregolarità. Prescelgo in questo genere tragico, malgrado delle buffonerie, la Hija del aire, el Tetrarca de Jerusalen, la Niña de Gomes Arias.
Sotto il nome ◀di▶ Hija del aire (figlia del vento) Calderòn non altrimenti che l’italiano Muzio Manfredi, pubblicò due favole sulle avventure ◀di▶ Semiramide. Nella prima ne dimostrò la prima gioventù, l’educazione selvaggia avuta ne’ monti, le sue nozze con Mennone indi con Nino re degli Assiri. Nella seconda trattò del ◀di▶ lei regno dopo la morte ◀di▶ Nino, della maniera come tolse il freno del governo al figliuolo inetto e regnò sotto spoglie virili e della ◀di▶ lei morte. Nell’una e nell’altra è dipinto vivacemente il carattere ◀di▶ questa regina straordinaria piena ◀di▶ valore e ◀di▶ ambizione; ma nella seconda sono gli evenimenti assai più dilettevoli e più atti a tirar l’attenzione dell’uditorio.
El Tetrarca de Jerusalen contiene le avventure ◀di▶ Marianna ed Erode, ed è forse la più famosa delle sue rappresentazioni istoriche, e quella che più spesso ho veduta riprodursi sul teatro ◀di▶ Madrid. La favola si aggira sul timore che ha Marianna ◀di▶ una predizione ◀di▶ un astrologo che ella perirebbe preda ◀di▶ un gran mostro, e che Erode col pugnale che sempre porta allato darebbe la morte alla persona da lui più amata. Risaltano in questa favola il carattere ◀di▶ Marianna virtuosa quanto bella e quello ◀di▶ Erode eccessivamente amante e geloso.
Nell’atto I Erode tenta dissipare i timori ◀di▶ Marianna riguardo al mostro, e
perchè non abbia a temere del pugnale, lo getta in mare, supponendo il poeta
che Gerusalemme fosse città marittima. Ma questo ferro fatale va a
cadere appunto su ◀di▶ un uomo che a nuoto tenta
salvarsi da un naufragio, e questi è Tolomeo suo capitano da lui mandato in
soccorso ◀di▶ Marcantonio contro ◀di▶ Ottaviano. È condotto questo Tolomeo col
pugnale fitto nel corpo, e prima che spiri fa un racconto del trionfo ◀di▶
Ottaviano e dell’armata ebrea distrutta dalla tempesta. Ma egli a dispetto
del pugnale che l’ha trafitto, vuole tutto ciò riferire in settantacinque
versi ripieni ◀di▶ concettuzzi e ◀di▶ circostanze inutili, entrandovi il
bucentoro ◀di▶ Cleopatra lavorato ◀di▶ avorio e ◀di▶
coralli
, il mare divenuto
Nembrot
de’ venti che pone monti sopra monti e città sopra
città
, la tavola su ◀di▶ cui si salva Tolomeo fatta
delfino impietosito
, il ferro che
l’ha trafitto divenuto
cometa errante, che corre la
sfera dell’aria contro l’umano vascello del ◀di▶ lui
corpo
. Un poeta più sobrio avrebbe ad un moribondo
risparmiato almeno sessanta ◀di▶ questi versi ed un pajo ◀di▶ dozzine ◀di▶
pensieri stravaganti.
Tout ce qu’on dit de trop est fade et rèbutant.
Intanto Ottaviano in Menfi per alcune carte comprende i disegni ◀di▶ Erode. E quali sono? Aspirare a divenire imperadore ◀di▶ Roma. È una ipotesi troppo inverisimile e ridevole per accreditar le situazioni che seguono, che un Idumeo signore ◀di▶ una parte della Palestina nel tempo che contendevano Ottaviano e Marcantonio dell’impero del mondo, concepisca il disegno ◀di▶ farsi padrone ◀di▶ Roma. Ottaviano tralle carte nominate appartenenti ad Aristobolo ha trovato un ritratto della bella Marianna, e gli vien dato ad intendere esser quella dipintura immagine ◀di▶ una bellezza estinta. Il poeta riconduce lo spettatore a Gerusalemme ad ascoltare un dialogo ◀di▶ Marianna ed Erode che aringano ed argomentano a vicenda.
In Menfi comincia l’atto II che poi termina nella Giudea. Nell’intervallo degli atti si figura il Tetrarca fatto prigioniero, ed è condotto alla presenza ◀di▶ Ottaviano, che ha nelle mani il ritratto ◀di▶ Marianna. Erode s’ingelosisce; Ottaviano lo minaccia e rimprovera, e gli volge le spalle; Erode tenta ◀di▶ ferirlo col suo pugnale. Per render verisimile questo attentato, dovrebbe supporsi che Ottaviano si trattenesse col nemico senza verun testimonio, senza corteggio, senza guardie. Ma chi lo salva dalla morte? Una copia grande al naturale tratta dal ritrattino, la quale cadendo dal muro si frappone e riceve il colpo destinato ad Ottaviano. Il pugnale tolto dalla percossa immagine rimane in potere ◀di▶ Ottaviano, ed Erode è condotto ad una torre per aspettar la sentenza della sua morte. La gelosia gli fa vedere la sua Marianna in potere del nemico che ne tiene varii ritratti. Pensa ad impedirgliene il possesso ancor dopo che egli sarà morto, ed in una lettera ordina la ◀di▶ lei morte, e la manda a Tolomeo. Per un intrigo amoroso ◀di▶ una damigella questa lettera passa nelle mani della stessa Marianna, che con somma maraviglia e dolore ne legge il contenuto. Le giuste sue querele sono patetiche, ma confuse in un mucchio d’espressioni fantastiche. È notabile la situazione ◀di▶ Marianna, dopo la lettura ◀di▶ quel foglio. La tormentano l’amore e l’indignazione; nè a questo punto patetico altro manca che una esecuzione più naturale ed espressioni spogliate da i delirii de’ secentisti.
L’atto III passa in Gerusalemme. Marianna si presenta ad Ottaviano coperta ◀di▶ un velo, e domanda la vita del consorte. Egli non vuole udirla, e le dice,
Si enternecer no espero mis iras, paraque con ellas luchas?
e Marianna con grandezza e vivacità ripiglia,
Paraque tu gobiernas sino esouchas?
Ottaviano convinto da tal detto si arresta, ma ricusa ◀di▶ ascoltarla se non
discopre il suo volto. Marianna si discopre, ed è conosciuta per
l’originale della pittura. L’imperadore concede la grazia
domandata e nobilmente dilegua anche ogni sospetto svegliato in Erode alla
vista de’ ritratti. Erode vuol mostrare la sua gratitudine alla moglie, ma
ne ammira la somma mestizia e le lagrime. Ne vuol sapere la sorgente, e
Marianna gli rimprovera l’ordine dato per farla morire, mostrandogli il
foglio ◀di▶ lui. Molti pensieri patetici e vigorosi si trovano sparsi nelle ◀di▶
lei querele; ma sono frammischiati a varie impertinenze pedantesche ◀di▶ quel
tempo. Ella si ritira al suo appartamento per mai più non vederlo, giurando
por los dioses
che adoraa che si getterà in mare, se ardisce
entrarvi. Intende Ottaviano la strettezza in cui vive Marianna, e risolve ◀di▶
andar ◀di▶ notte a vederla. Quì Ottaviano diventa un innamorato ◀di▶ spada e
cappa che
si accinge ad un’ avventura notturna; là
dove egli prima per dissipare i sospetti del Tetrarca magnanimamente diede
ragione della maniera onde acquistato avea il ritratto, e ◀di▶ più lo lasciò
in potere della stessa Marianna. Egli in fatti entra ◀di▶ notte nelle stanze
◀di▶ lei con poco decoro della maestà e con rischio della fama della regina.
L’incontra, offerisce liberarla (quando che dovea e potea farlo decentemente
colla propria autorità). Marianna gli dice che la sua prigionia è
volontaria. Puerilmente ancora Ottaviano s’invaghisce un’altra volta del
ritratto che spontaneamente le avea consegnato, e la regina glielo nega e
vuol bruciarlo. Ottaviano insiste, l’impedisce, vuol prenderlo a viva forza.
Ella minaccia ◀di▶ ammazzarsi col pugnale ◀di▶ Erode che Ottaviano porta al
fianco. Non è questa una contesa tutta comica ed indecente contraria alla
verisimiglianza ed al decoro ◀di▶ simili personaggi? Ottaviano si arresta;
ella fugge e getta via il pugnale; egli le corre dietro.
Chi riconosce più in tal conflitto e strano inseguimento
l’Ottaviano del resto della favola? Il Tetrarca viene col disegno ◀di▶ tentar
◀di▶ parlare a Marianna. Si maraviglia de’ fregi donneschi sparsi per la
stanza; si avvede del suo pugnale che era rimasto in potere dell’imperadore;
ode la voce ◀di▶ lui e quella ◀di▶ Marianna; sente tutta la sua gelosia; imbatte
in Ottaviano; l’affronta; Marianna per separargli smorza il lume. Erode
perde la spada, impugna il pugnale, incontra Marianna e l’ammazza, e poi si
getta in mare.
Questa è la favola del Tetrarca de Jerusalèn che l’autore volle chiamar tragedia, ad onta delle buffonerie che quì ho tralasciate, dell’irregolarità e delle avventure comiche notturne; conchiudendo, che quì termina la tragedia, restando adempiuto l’influsso. Ed in ciò ancora è da riprendersi il poeta; perchè in vece ◀di▶ prefiggersi l’insegnamento ◀di▶ una verità, cioè che le passioni sfrenate e la pazza gelosia cagionano ruine e miserie, egli si è studiato d’insegnare che esse provengono dall’influsso degli astri. Era questa una bella moralità da insinuarsi dalle scene? Si combattono in tal guisa gli errori volgari? È questa una dottrina concorde colla libertà umana e colla religione? Calderòn incorse nel medesimo difetto nell’altra sua favola reale la Vida es sueño.
Credè il signor Giovanni Andres che il Francese Tristano avesse tolto l’argomento della sua Marianna dal Tetrarca ◀di▶ Gerusalemme. Ma che mai trovò egli ◀di▶ rassomigliante nella condotta della tragedia francese e della favola spagnuola, in cui si vedono le additate tinte comiche miste alle tragiche, tante irregolarità, que’ ritratti adorati dal poco grave Ottaviano, quelle avventure notturne, il passaggio alternato da Gerusalemme a Menfi e da Menfi a Gerusalemme, la cura puerile del poeta ◀di▶ accreditar gli errori volgari dell’influsso? Ben però è certo che Lodovico Dolce precedè ◀di▶ un secolo Calderone e Tristano nel porre sulle scene l’argomento della morte ◀di▶ Marianna e della gelosia ◀di▶ Erode riferita da Giuseppe Ebreo, e ne formò una tragedia regolare recitata con tale applauso in casa ◀di▶ Sebastiano Erizzo che quando volle ripetersi nel ducal palazzo ◀di▶ Ferrara, la calca che vi accorse ne impedì la rappresentanza. E chi non vede quanto più la Marianna ◀di▶ Tristano rassomigli quella del Dolce, il quale, se ne togli qualche languidezza ed espressione troppo famigliare, formò con giudizio ◀di▶ quella storia una vera tragedia regolare ed interessante? Ma siccome non dubitiamo ◀di▶ affermare che il Dolce per invenzione ed arte ◀di▶ tanto precedè il francese e lo spagnuolo, così confessiamo che egli, non osando abbandonar la storia, non migliorò quanto doveva i caratteri ◀di▶ Marianna e ◀di▶ Erode; là dove a mio avviso Calderòn dipinse più vivacemente il geloso furor ◀di▶ Erode, e rendè più interessante il carattere ◀di▶ Marianna amante, offesa, virtuosa, sensibile e grande. Osserviamo ancora che l’Italiano nello scioglimento produsse assai meglio l’effetto tragico ◀di▶ quello che fece lo spagnuolo colla morte ◀di▶ Marianna seguita all’oscuro per un equivoco mal congegnato. Ci sembra però nel tempo stesso che il Dolce avrebbe meglio eccitato il terrore, se non avesse scemata l’odiosità prodotta dall’insana sevizia del tiranno coll’infruttuoso suo pentimento; o se dopo l’eccidio egli avesse con tutta evidenza fatto conoscere al geloso il suo inganno e l’innocenza ◀di▶ Marianna.
La Niña de Gomes Arias contiene la detestabile dipintura ◀di▶ un soldato discolo colpevole ◀di▶ più delitti, e segnatamente ◀di▶ tradire tutte le semplici donzelle che le prestano fede. Dorotea trafugata dalla casa paterna viene da lui, che già n’è sazio, abbandonata in un deserto mentre dorme a piè dell’Alpujarra, ne’ cui monti (presa Granata da Ferdinando ed Isabella) si permise che dimorassero alcuni Mori come tributarii, i quali ◀di▶ tempo in tempo calavano al piano e rendevano schiavi i passeggieri. Allo svegliarsi Dorotea, vedendosi dappresso un Affricano, cerca lo sposo. Questa situazioue esigeva altre espressioni che le seguenti false e inverisimili. Ella domanda al Moro:
Dime que has hecho del dia,Atezada nube parda?Sombra que has hecho del sol?Noche que has hecho del alba?
È presa da’ Mori, ma vien liberata da alcuni soldati cristiani, e condotta in una casa dove dimora l’istesso Gomes suo traditore. Stà egli colà pensando ◀di▶ menar via un’altra donzella ◀di▶ quella casa stessa, e per errore porta seco Dorotea. All’apparir del dì nell’atto III la riconosce, e si trovano nel medesimo luogo dove l’abbandonò la prima volta, cioè a vista ◀di▶ Benamexì città de’ Mori. Dispettoso l’oltraggia, l’ingiuria, vuol ◀di▶ nuovo abbandonarla. Piagne la meschina, domanda la morte; ma l’inumano fa una risoluzione più barbara, e invitando i Mori a calare tratta ◀di▶ venderla. Meritano ◀di▶ notarsi le querele ◀di▶ Dorotea, malgrado de’ freddi concetti che le deturpano. Nedarò una mia traduzione, e ne’ passi dove i tratti patetici vengono traditi dalle false espressioni, non sostituirò ad esse i miei pensieri, ma le trascriverò a piè ◀di▶ pagina. Ecco come a lui parla Dorotea.
Mostro, barbaro, ingrato, ove, trascorria?Vender mi vuoi tiranno? A un mostro vileVendermi! oimè! senza pensar che schiavaSe mi fe un folle amor, libera io nacqui?Tanta infamia si udì? Quella che amasti,Nè vo’ già dir la sposa tua, tu stessoTi nieghi il sol la luce, e del tuo sangueTi vegga asperso, e dell’infame bustoUn cernefice vil quell’empio capoRecida… Ma che dico ? Oimè, ben mio,Mio sposo, mio signor, tua schiava io sono,Se nel tuo sdegno incorsi, uccidi, moraLa schiava tua senza cangiar catena.Splenda a te sempre mai propizio il sole,Placida l’aura ti vezzeggi, un tersoSpecchio l’acqua ti sia, per te la terraIn ridente giardin tutta si cangi.Il fiero Cagnerì cui tu mi vendi,Quel dì che in preda mi lasciasti al sonno,Amante si mostrò, chè il ciel disponeCh’io nell’essere amata ed abborritaSia del pari infelicea ! Or tu vorraiDarmi in sua man, nè sentirai quel geloChe suol provarsi ancor per chi si abborre?Se amor non può, ti renda onor geloso.Io pure udii dal labbro tuo talvoltaChe sposo mio saresti. Ah per sì caroNome che meritai qualche momento,Signor, pietà, mercè,Deh non lasciarmi, oimè!Presa in BenamexìIn man del CagneriaChè se per non serbar la data fede,Fuggir mi vuoi, ben ti prometto e giuroObbliarla per sempre ed in un chiostroDal Ciel t’implorerò giorni feliciQuel tempo che il dolor della tua assenza,Della perdita tua, mi lasci in vita.E se Beatrice ingelosir pur temi,Se mi vedrà tornar teco a Granata,Io stessa a lei dirò che per erroreDi sua casa salii, che vi ritornoL’ira io fuggia, tu lei salvar credendoSalvasti me ; ma che non v’è fra noiNe mai fu arcano onde si adombri e offenda.E quando in servitù vuoi pur ch’io viva,Dia legge a me chi innammorar te seppe ;Lei servirò ; nè più avvilir si puoteDisingannato amor, femminil fasto.Ma se il mio pianto a intenerirti è vanoPer quel che sono, a quel che fui deh pensaAmata mi vedesti, e rispettataNella patria da nobili e volgari.Ti ascoltai, ti credei ; patria ed onoreO memoria crudel !) per te perdei.Pietà, signor, quel miserabil vecchioPensa qual resterà, quando l’infaustaNovella a lui del mio destin pervenga.Vendicarsi vorrà, quando non siaAltri uccidendo, colla propria morte.Ma già…. misera me…! mi manca il fiato..Mi balza il cor… dalla funesta rupeGià scende il Cagnerìa….Signor, mio bene,In te stesso per te ; cangi il pentirtiIn merito il delitto ; o tu vedraiCongiurato in tuo danno e cielo e terraa.Signor, pietà, mercè,Non mi lasciare, oimè!Presa in BenamexìIn man del Cagnerì.
Ma l’infelice è dall’inumano Gomes data la potere dell’Affricano. Viene poi liberata dalle armi della regina Isabella, la quale informata delle ◀di▶ lei aventure, ed avuto in suo potere lo spietato Arias, decreta ch’egli risa rcisca l’onore ◀di▶ Dorotea sposandola ed indi perda la testa su ◀di▶ un palco.
Ognuno vede che questo atroce misfatto è lo stesso che commise un mostro Inglese in persona ◀di▶ una Caraiba, la quale oltre all’avergli dato il cuore e il possesso ◀di▶ se stessa, gli avea ◀di▶ più salvata la vita. L’uomo ingrato in ricompensa, giunto con lei a salvamento nella Barbata, vendè la sua benefattrice. Se l’argomento della favola del Calderòn è finto, egli immaginò quel che eseguì il detestabile Inglese. Se egli trasse dal fatto della Caraìba l’argomento del suo dramma, perchè mai trasportò dalla nazione inglese alla propria quell’infamia che eccita il fremito dell’umanità? E se tralle antiche leggende spagnuole si rinviene eziandio questa spietatezza (◀di▶ che lascio a’ nazionali la cura d’investigarlo) egli è da dire che l’umana malvagità volle copiare se stessa, e far ripetere nel declinar del passato secolo ad un Inglese quel che già avea eseguito uno Spagnuolo.
Ma il merito particolare del Calderòn non si appalesa nelle favole istoriche, ove per lo più volendo esser tragico, grande, sublime, diventa turgido, pedantesco, puerile. Egli trionfa nelle commedie dette ◀di▶ spada e cappa, presentando a’ sagaci osservatori un gran numero ◀di▶ situazioni interessanti, colpi ◀di▶ teatro curiosi disposti acconciamente, regolarità maggiore, stile più proprio del genere, e dialogo quasi sempre naturale. Quindi è avvenuto che mentre le commedie dello stesso Lope e ◀di▶ quasi tutti i suoi coetanei più non compariscono sulle scene ◀di▶ Madrid, vi si sostengono quelle del Calderòn. Noi qui potremmo addurne diverse degne ◀di▶ leggersi; ma ci contenteremo ◀di▶ quelle che più spesso si rappresentano, o che hanno alcun pregio particolare. Ben tessuto è il viluppo delle due commedie Casa con dos puertas mala es de guardar, e Tambien ay duelo en las Damas, le quali si rassomigliano ne’ colpi scenici. Tiene l’uditorio svegliato l’intrigo della commedia los Empeños de un acaso, dove per accidente più che per interesse passano i personaggi d’uno in un altro impegno. Lo stile è proprio del genere eccetto quando gli amanti vogliono parere spiritosi, fioriti, leggiadri, perchè allora diventano enimmatici e pedanteschi. Fu tradotta da’ Francesi col titolo les Engagemens du hazard.
Si rassomigliano in varie cose le commedie Nadie fie su secreto, ed il Secreto à voces; ma sono artificiose e naturali per alcune situazioni comiche. Nella prima un principe ama l’innamorata del suo favorito, e sapendone i secreti toglie agli amanti l’opportunità ◀di▶ parlarsi, ◀di▶ sposarsi, e ◀di▶ fuggirsi via. Nell’altra un servo diventa la spia del proprio padrone, che è il segretario ◀di▶ una principessa da cui è occultamente amato. Egli ama una dama della corte ◀di▶ lei, e la principessa ne sa l’amore, ma non l’amata. Gl’innamorati per comunicarsi anche in pubblico quanto passa, hanno stabilito tra loro una cifra, che rende inutili tutte le diligenze e gli avvisi della spia. Questo intrigo riesce piacevole, e sarebbe a desiderarsi che il poeta avesse renduta più verisimile la pratica della cifra. Senza mettersi per ipotesi che gli amanti sieno un Perfetti e una Corilla, cioè verseggiatori estemporanei, è impossibile persuadere all’uditorio ch’essi s’intendano. Ecco in che consiste la cifra. Colui che comincia a parlare, prende in mano un fazzoletto per avvisare all’altro che stia attento. Indirizza poi a’ circostanti un discorso diverso dal secreto, del qual discorso però ogni prima parola ◀di▶ un verso s’intende diretta all’amante; ◀di▶ modo che raccogliendo in fine tutte le prime voci, ne risulti l’avviso che si vuol dare. Questa cifra è soggetta a due opposizioni. Primieramente la prima voce da prendersi nella favola del Calderòn è sempre il principio ◀di▶ un verso, e non già ◀di▶ un periodo terminato. Di poi la lunghezza del discorso riesce inverisimile all’improvviso nel parlare, dovendosi fare due discorsi seguiti ◀di▶ materie differenti colle medesime parole. E se Calderòn vivesse, confesserebbe che a tavolino distese egli con qualche studio ciò che suppone che i suoi personaggi facessero estemporaneamente. Siane un saggio l’avviso che dà Laura all’amante nella giornata II. Ella vuol dirgli ciò che segue:
Flerida ha sabido yaque de aqui no te ausentaste,y que con tu dama hablaste,de que muy zelosa està.
Ciascuna parola ◀di▶ questi quattro versi dee servire per prima parola ◀di▶ ogni verso del discorso generale indirizzato a tutti gli altri; ◀di▶ maniera che ciascuno ◀di▶ questi versi fornisce le quattro prime parole de’ quattro versi del sentimento che si dirige agli astanti. Eccone la prima strofa:
Flerida, cuya beltadha con tu ingenio igualadosabido es quanto ha mostrado.ya mi afecto mi humildad.
Da ciò apparisce l’inverisimiglianza della pratica esecuzione ◀di▶ tal cifra parlando. Vi è però la maniera ◀di▶ migliorar tale artificio, per fuggir l’incoveniente che risulta dal far parere che il personaggio sappia esser la commedia scritta in versi.
Contansi tralle migliori commedie del medesimo autore per situazioni interessanti e per caratteri ben distinti: el Medico de su honra, Primero soy yo, Dicha y desdicha del nombre, el Garrote mas bien dado. La commedia No ay burlas con el amor contiene i caratteri ◀di▶ due sorelle che si contrastano; Leonora sensibile, facile e nell’espressioni e nelle maniere naturale: Beatrice schiva, ritrosa, nojosamente stoica, affettata. L’ostentazione dell’erudizione, greca e latina ◀di▶ Beatrice c’induce a sospettare che Moliere ne avesse tolta l’idea del suo componimento le Donne Letterate; ma ciò è incerto, e dall’altra parte è sicuro che il vivacissimo colorito della favola francese ha un impasto originale. La commedia Mejor està que estaba è fondata ( come la maggior parte delle spagnuole ) nel concorso ◀di▶ varii colpi ◀di▶ teatro. Ma ben notabile ( e l’avvertì anche il signor Linguet a ) è la situazione delle prime scene, in cui Carlo si ricovera in casa ◀di▶ Flora per avere ammazzato un uomo, ed è da Flora nascosto. Ella intende poscia che l’ucciso è il ◀di▶ lei cugino, nè perciò lascia ◀di▶ proteggerlò e salvarlo. In questa favola Calderòn non ha evitato il solito difetto ◀di▶ mescolar colle scurrilità le cose sacre. Il buffone stà parlando col Podestà, e gli è detto che si contenga nel dovuto rispetto alla presenza del Podestà. Norabuena, egli risponde,
Diciendo yo la verdad,ser que importa en conclusionel Trono, ò Dominacion,Quanto mas el Potestad.
In tutte le favole Calderoniche non è da cercarsi regolarità ed unità nel tempo, nel luogo, nell’azione e nell’interesse. Ma nella sola favola los Empeños en seis horas si trova di’ proposito racchiusa l’azione quasi nel tempo della rappresentazione. Ben si vede che l’autore volle tesserla con tale angustia, non per osservar le regole che prescrive la verisimiglianza, ma per desiderio ◀di▶ riuscire in una impresa allora forse riputata difficilissima. Di fatti egli si studiò sempre ◀di▶ trovare argomenti artificiosi capaci ◀di▶ recar meraviglia; senza industriarsi ◀di▶ cercarli idonei ad ispirare amore per qualche virtù o a rilevare alcuna massima istruttiva. E che insegna quest’intrigo degl’Impegni in sei ore? Per mezzo ◀di▶ un manto si prende senza verisimiglianza un equivoco, per cui Nisa è creduta Porzia da un personaggio che viene a sposar quest’ultima. E quando l’equivoco si scioglie, che mai vi s’impara? Sarebbe incessantemente da inculcarsi a’ poeti scenici, che il diletto non mai dee andar disgiunto dall’insegnamento. Ma ad onta ◀di▶ tanti difetti ◀di▶ regolarità, ◀di▶ stile ed istruzione, le favole ◀di▶ Pietro Calderòn de la Barca contengono molti pregi, pe’ quali piacquero e piacciono ancora in Ispagna, e trovarono traduttori ed imitatori in Francia prima ◀di▶ Moliere ed in Italia nel passato secolo. Chè se altrettanto non è concesso a tanti e tanti commediografi, bisogna dire che nelle ◀di▶ lui favole si nasconda un perchè, uno spirito attivo vivace incantatore, per cui, secondo Orazio, sogliono i poemi ascoltarsi con diletto quante volte si ripetono. Egli è questo perchè, questo spirito elettrico che sfugge al tatto grossolano ◀di▶ certi freddi censori ◀di▶ Calderòn.
Nel tempo che egli ◀di▶ tanti componimenti arricchiva il teatro castigliano, altri poeti fiorirono ancora, ma principalmente Agostino Moreto ed Antonio Solis, i quali per avventura nulla a lui cedevano per fantasia, e lo superavano per qualche altro pregio.
Moreto giusta il costume del secolo scrisse varie commedie
in compagnia ◀di▶ altri poeti, e non poche ne produsse solo raccolte in tre
volumi, de’ quali il primo uscì in Madrid l’anno 1654; ma cessò ◀di▶ comporne
tosto che fu iniziato negli ordini sacri, ai quali indi ascese. In generale
questo scrittore usa della libertà spagnuola meno dal Calderòn, per lo più nelle sue favole distendendosi la durata
dell’azione a pochi giorni. Ha parimente più copia ◀di▶ sali e più lepidezza;
dipinge i caratteri con maggior vivacità comica; i suoi colpi ◀di▶ teatro
hanno più varietà. Se la moda e l’esempio non avesse rapito Moreto, forse in lui sarebbe surto il Moliere
delle Spagne. La perizia che possedeva in rilevare il ridicolo ◀di▶ un
carattere, comparisce singolarmente nella sua commedia el
Marquès del Cigarral. Questo marchese è un ridicoloso vantatore
tutto pieno ◀di▶ una sognata nobiltà, ◀di▶ cui pretende tirar l’origine da Noè.
Il signor Scarron,
la tradusse in
Francia intitolandola Don Japhet, ma non contentandosi ◀di▶
ritenerne le grazie, la caricò fuor ◀di▶ proposito. Lo stile ◀di▶ Moreto generalmente è moderato e proprio del genere comico,
eccetto quando parla l’innamorato, perchè allora egli si perde nel lirico e
nello stravagante al pari degli altri. Le facezie ed i motteggi sono
graziosi e frequenti; ma egli segue i compatrioti nell’usanza ◀di▶ scherzare
sulle parole sacre. Don Cosmo dice nella giornata I
ad
Ephesios responsion
, nella II giura il personaggio
por el santisimo bote de la Magdalena
santa
, nella III esclama
valgame todo
el Psalterio
. Lo spettatore volgare che altra scuola
pubblica non suole avere che il teatro, si conferma con ciò nell’abito ◀di▶
abusare delle sacre espressioni. Moreto non pertanto pieno
◀di▶ buon senso vide molti difetti del teatro spagnuolo, e più ◀di▶ una volta ne
rise. In questa favola motteggia sull’uso d’introdurre i servi buffoni, che
sono gli arlecchini ◀di▶ quelle scene, ad
assistere
ai discorsi de’ principi, ed a mettervi il loro sale. Quanto alle unità ◀di▶
tempo e ◀di▶ luogo si vale de’ privilegii nazionali ma con discretezza.
L’azione comincia in Ortaz e prosegue e termina in Consuegra, e vi s’impiega
almeno lo spazio ◀di▶ dodici giorni; dicendo don Cosmo nella I giornata a
Leonora che vada a Consuegra, dove egli si porterà passati dieci giorni e
nella prima scena poi della II giornata,
Ayer se cumplio el plazo prometido,En que ha señalado su venida.
Sono dunque trascorsi undici giorni, e l’azione principale non è pure incominciata,
Ma egli compose la Confusion de un Jardin, in cui seppe tessere un’azione regolare passata in un giardino nel giro ◀di▶ una notte. Anche in essa riprese i compatriotti che appiccavano indivisibilmente agli innamorati i buffoni con manifesto detrimento della verisimiglianza. Egli fa che l’innamorato all’entrar nel giardino dia congedo al suo servo, il quale si lagna ◀di▶ essere il primo servo con cui il padrone non si consigli, e che rimanga escluso da i ◀di▶ lui secreti maneggi. Si vede che Moreto volle comporre una favola dentro le regole senza dipendere dall’uso spagnuolo. Essa è tanto regolare quanto gl’Impegni in sei ore del Calderòn; ma è più semplice, meno caricata ◀di▶ accidenti, e non meno dilettevole. Ma queste commedie che noi con ingenuità mettiamo alla vista, sono state forse additate da’ Nasarri e da’ Lampilli? E lasciando gl’innumerabili insetti del Parnasso spagnuolo che professano ◀di▶ tutto ignorare, il signor Andres le ha mai contate fralle buone della sua nazione, egli che s’immaginò ◀di▶ avere assicurato il suo trionfo colla Celestina alla mano la quale, mel permetta pure, egli mal conobbe? E Garzia de la Huerta, inurbano Gongorista, che solo stava bene in Orano, le ha mai poste in vista? Si confrontino le loro scritture. Anche in questa favola si osservano le solite allusioni buffonesche alle cose sacre; essendo preso un cavaliere nel giardino, la Graciosa dice,
Es noche de Jueves santo,Que se hace prision en huerto.
Non dee, però dissimularsi che nè gl’Impegni in sei ore, nè la Confusione ◀di▶ un Giardino ho mai veduto rappresentare in Madrid nella mia ben lunga dimora.
El desdèn con el desdèn, altra commedia del Moreto, comparisce sempre con nuovo diletto sulle scene
castigliane. Benchè sottoposta ai soliti difetti d’irregolarità, vi si
ammirano pennelleggiate con somma maestria le passioni ◀di▶ una dama bizzarra
che vuol parere superiore all’amore. Moliere la tradusse
intitolandola la Princesse d’Elide; ma questa copia, fatta
per altro frettolosamente, sembra assai fredda a fronte dell’originale. Che
vivacità in Moreto! Che delicato contrasto ◀di▶ un orgoglio
nutrito sin dalla fanciullezza, e ◀di▶ un amor nascente nel cuore ◀di▶ Diana!
Che interesse in
tutta la favola progressivamente
accresciuto a misura che si avanza verso il fine! Tutto questo si desidera
nella copia che ne abbozzò Moliere. In prima questo gran
comico francese trasportò l’azione fra remotissimi principi Greci d’Elide,
d’Itaca, ◀di▶ Pilo e della Messenia; e con ciò alla bella prima ne diminuì
l’evidenza e l’interesse, che fuor ◀di▶ dubbio noi prendiamo più facilmente
per oggetti che più a noi si avvicinano. Di poi quel Moròn
francese comparato col ben grazioso Polilla spagnuolo
comparisce un freddo buffone. Appresso l’Eurialo ◀di▶ Moliere, che è il conte ◀di▶ Urgel ◀di▶ Moreto, introduce il suo stratagemma ◀di▶ fingersi nemico d’amore
spogliato ◀di▶ circostanze che l’accreditino, ed in un modo languido che
annoja coloro che conoscono l’originale spagnuolo. Inoltre l’insipidezza
colla quale la principessa d’Elide entra nell’impegno d’innammorare Eurialo,
copre ◀di▶ gelo l’invenzione ◀di▶ Moreto.
Je vous
avove
(atto 2 scena 5)
que cela m’a
donnè de l’émotion, et je
souhaiteroisfort de trover les moyens de chàtier cette hauteur.
Qual differenza da queste parole a quelle della scena ◀di▶ Diana con Cintia in
cui nasce l’impegno ◀di▶ lei! Con quanta energia ella s’irrita alla freddezza
◀di▶ Carlo! Qual pennellata maestrevole in questi due versetti:
Aunque me cueste un cuidado,He de rendir à este necio,
ne’ quali tutta si manifesta l’anima orgogliosa ◀di▶ Diana, e la facilità ch’ella si lusinga d’incontrare a vincerlo! Giunto io in Madrid la prima volta m’imbattei ad udirli espressi dalla singolare attrice Mariquita Ladvenant con tal sagace misto ◀di▶ certa sicurezza maestosa, ◀di▶ dispetto, e ◀di▶ un riso ironico, che pareva ◀di▶ aver letto nell’anima ◀di▶ Moreto. Nè anche la copia francese rappresenta in menoma parte le vaghe tinte originali ◀di▶ una scena della II giornata, in cui Carlo cade a palesarsi amante, e vien trattato da Diana coll’ultima fierezza e col disdegno più altiero. Per la qual cosa egli scaltramente ripiglia la dissimulazione, ed ella rimane mortificata e sempre più impegnata ad innamorarlo davvero. Invano parimente si cerca nella copia la bellezza della scena della III giornata, in cui Carlo si finge preso ◀di▶ un’ altra e la chiede in isposa, così che la gelosia finisce ◀di▶ trionfare del cuore ◀di▶ Diana. E finalmente la languidezza, con cui la principessa d’Elide vuole esigere da Aglante che la vendichi rifiutando la mano ◀di▶ Eurialo, se si confronti colle infocate espressioni ◀di▶ Diana gelosa, superba e disprezzata, rassomiglia un suoco fiaccamente dipinto alla vista ◀di▶ una fornace ardente.
Anche l’altro valoroso comico francese Regnard rimase al ◀di▶ sotto ◀di▶ Moreto nell’imitare ne’ suoi Menecmi varie scene piacevoli della commedia ◀di▶ Moreto la Occasion hace el ladron. In essa una baligia cambiata ed un nome preso a caso da un cavaliere cui importa ◀di▶ non esser conosciuto, forma un intrigo assai vivace. Vi si veggono con molto artificio condotte le comiche situazioni, e con verità dipinti i caratteri, specialmente quello ◀di▶ don Manuel de Herrera in cui sí ravvisa un natural ritratto dei discendenti de’ nobili, che commettono azioni ingiuste degne d’ogni rimprovero, e pure credonsi onorati, purchè non rubino; quasi che l’infamia dipenda da questo solo genere ◀di▶ delitti. Il sign. Linguet ha renduto a Moreto tutta la giustizia per questa favola preferendola a quella de’ Menecmi ◀di▶ Regnard. Egli l’ha inserita nel suo Teatro Spagnuolo con altre due del medesimo autore, cioè col Parecido en la corte, e con No puede ser guardar la muger. Il Parecido è una commedia ◀di▶ rassomiglianza che ha varie scene piacevoli, e dove il buffone ha una parte competente. L’altra è stata adottata dagl’istrioni dell’Italia e recitata spesso estemporaneamente, ossia a sogetto. Ma in questa si vuole osservare che il poeta per sostenere il sentimento opposto introduce un fratello che non è la persona più scaltra del mondo nè la più atta a vegliare su gli andamenti della sorella; ed oltre a ciò essa è da riporsi tralle favole ◀di▶ cattivo esempio che danno peso appo i volgari alle massime perverse del libertinaggioa.
Termineremo ◀di▶ parlar del Moreto colla commedia intitolata
el Valiente Justiciero, nella quale si ritraggono al
vivo le tirannie baronali, quando regnava in Ispagna con tutto il vigore il
governo feodale. Vi si rappresenta un Rico-Hombre ◀di▶
Castiglia padrone ◀di▶ Alcalà e delle città, castelle e villaggi che le sono
intorno, vantandosi egli ◀di▶
passeggiare sempre per le proprie
possessioni per dieci miglia ◀di▶ circuito
, e queste non ottenute già
per mercede da qualche sovrano, ma guadagnate contro i Mori a colpi ◀di▶
lancia. Egli gonfio non meno della ricchezza, che del legnaggio dice,
… que en Castillaviò Ricos-hombres mi casaantes que Reyes su silla;
laonde rende a se stesso giustizia in questa guisa,
Pues quien ha de poner leyen un hombre como yo,que ya que Rey no naciò,tampoco es menos que el Rey?
Queste pennellate eccellenti preparano ad intenderne le ingiustizie e le violenze; e vien descritto come ingannatore ◀di▶ nobili donzelle deluse con parola ◀di▶ matrimonio, e poi rifiutate con discortesia e disprezzo, come rapitore ◀di▶ spose illustri, come derisore dell’autorità reale quando si tratta della sua pretesa giurisdizione. È degna ◀di▶ osservarsi l’ultima scena della prima giornata, in cui il rico-hombre chiamato Don Tello riceve nella propria casa il re don Pietro detto il crudele in qualità ◀di▶ un privato cortigiano chiamato Aguilera. Don Tello parla con poco rispetto del re che crede assente, ed il finto Aguilera alzandosi ne lo riprende con bizzarria; ma don Tello quasi sdegnandosi ◀di▶ corrucciarsi con una persona tanto, al suo credere, a lui inferiore per nobiltà e per valore, gli dice con tranquilla superiorità,
Sientese el buen Aguilera.
Questo tratto ◀di▶ alterigia è vendicato nella II giornata. Don Tello è costretto dal re a venire a Madrid. Entra nella reale udienza, ed è obbligato ad aspettar lungo tempo il sovrano, il quale esce al fine ad ascoltarlo, ma mostrando ◀di▶ leggere una lettera, nè badando a don Tello che gli s’inginocchia davanti. Il buffone che al solito assiste a questo incontro, rileva cotal disprezzo, e motteggia sul padrone mortificato col ripetere quel verso
Sientese el buen Aguilera.
Dipoi don Tello pe’ suoi delitti è condannato a morte. Perchè egli più ◀di▶ una volta ha mostrato disprezzo del valor personale del re che si teneva per prode, per ordine secreto del sovrano è condotto fuori della prigione e ◀di▶ Madrid. Il re senza farsi conoscere duella con lui, lo disarma, e si scopre, godendo ◀di▶ avere umiliato e convinto l’orgoglioso vassallo non meno del proprio podere che della gagliardia.
Prima ◀di▶ passare alle commedie ◀di▶ Antonio Solis, quest’ultima favola del Moreto ci torna in mente quante volte i poeti spagnuoli hanno introdotti i sovrani, che deposta la maestà si trattengono in domestici colloquii con contadini senza scoprirsi. Distinguonsi in tal particolare altre due commedie applaudite, e solite anche al presente a rappresentarsi in Madrid, cioè el Montattes Juan Pasqual, ed el Sabio en su retiro. La prima dicesi composta da un Ingenio, e vi è introdotto anche il re Don Pietro il crudele, il quale andando alla caccia obbligato da una improvvisa tempesta si raccoglie in casa del lavrador Juan Pasqual, con cui nel tempo della cena ragiona allegramente, ed intende parlar ◀di▶ se senza le basse lusinghe cortigianesche da un uomo ◀di▶ buon carattere, e fornito ◀di▶ saviezza. L’altra commedia, el Sabio en su retiro, appartiene a Giovanni Matos Fregoso, ed è la migliore delle sue favolea. Notabili sono in essa il carattere del re Alfonso detto il savio, e quello ◀di▶ un uomo ◀di▶ campagna pieno ◀di▶ virtù, e ◀di▶ buon senso naturale. Interessante singolarmente è la scena della loro cena; ed i discorsi del re, e ◀di▶ Juan Pasqual sono ben degni degli elogii de’ giornalisti francesi, e ◀di▶ Linguet. I miei leggitori vedranno forse con piacere tradotto qualche squarcio ◀di▶ questa favola; ed io prescelgo un discorso ◀di▶ Juan Pasqual, col quale s’indirizza all’autore della natura, perchè ne manifesta il carattere.
Della terra e del ciel, quali non debboSì mi colmasti, che quanto si scopreDalla vicina rupe a quella valleTutto a me serve! I copiosi faviaQuanto mele raccolgono, al suol quantiInchina il ricco peso, quanti montiDi dorato frumento ingombran l’aje,Tutto, tua gran mercè, per me si aduna.Nè la ricchezza è la maggior venturaChe mi donasti; un placido riposoUna gioja innocente appien graditoRende lo stato mio; che l’uom feliceTant’è quant’ei si reputa. LontanoDa cure ambiziose infra i castagniInfra le quercie, in rustico abituroNacqui, e dodici lustri io vissi lieto ;L’altera corte, e sol due leghe appenaLunge è da quì; tal mi cagiona orroreIl doppio mascherato cortigiano !Meno tranquilli i dì fra miei pastoriChe mi onorano a gara, ed i miei votiA’ cittadini onori io non sollevo :Chè gir sì alto è ben somma folliaPer cader poi con più fatal ruina.Che de’ venti al soffiar spesso si spezza,Quando debole canna il lor furoreStanca cedendo, e col piegarsi vince.
G l’Inglesi hanno un picciolo componimento intitolato il Re ed il Mugnajo ◀di▶ Mansfield, cui l’autore Dodsley dà modestamente il nome ◀di▶ novella drammatica. Vi si vede un re d’Inghilterra che smarrito in una foresta si ricovera solo in casa del mugnajo, dove ascolta i propositi de’ campagnuoli e l’infedeltà usata da un suo cortigiano ad una contadinaa Verisimilmente l’autore ne tolse l’argomento dalle favole del Moreto e dell’anonimo o ◀di▶ Matos. Non per tanto m. Sedaine, che ha scritto in Francia le Roi et le Fermier, e m. Collet autore della Partie de chasse de Henri IV, confessarono ◀di▶ aver seguita la favoletta inglese, ignorando che questa era una debole copia delle mentovate commedie spagnuole.
L’altro degno contemporaneo del Calderòn e del Moreto è il celebre autore della storia della Conquista del Messico Antonio Solis. Senza eccettuarne l’istesso Moreto, egli ha rispettate più ◀di▶ ogni spagnuolo le regole del verisimile. Circa l’unità ◀di▶ tempo quasi mai non si valse della libertà nazionale nelle favole ◀di▶ spada e cappa, e si limitò a un giorno ◀di▶ ventiquatr’ore, e talora ◀di▶ poco eccede i due. Non manca ◀di▶ colpi ◀di▶ teatro e ◀di▶ comiche situazioni, e supera l’istesso Calderòn se non nell’eleganza nella proprietà della comica locuzione, non vedendosi nelle ◀di▶ lui favole que’ groppi ◀di▶ stravaganze ne’ quali cade Calderòn. Solis fa parlare i personaggi con naturalezza, giusta il carattere e la passione, e se alcuna volta sottilizza rapito dal turbine che tutti gli altri aggirava, non mai incorre in metafore stranissime, o nella mostruosa mescolanza del tragico col comico. M. Linguet hadel Solis tradotto soltanto Un bovo hace ciento, commedia avviluppata che si continua a rappresentare; ma forse poteva fare scelta migliore fralle seguenti: Amparar al enemigo, che dal Celano in Napoli si tradusse in prosa intitolandola Proteggere l’inimico che ha più ◀di▶ una situazione interessante, locuzione propria, nè l’azione dura più ◀di▶ due notti e tre giorni. La Xitanilla de Madrid si tradusse dal medesimo Celano col titolo la Zingaretta ◀di▶ Madrid. Una novella ◀di▶ Cervantes diede l’argomento a questa favola, che ha somma grazia in castigliano, e perde assai ◀di▶ naturalezza nelle traduzioni. Le communi passioni, le gelosie, gli amori, gli sdegni, le riconciliazioni, hanno in essa un grazioso e nuovo colorito. La durata dell’azione passa ◀di▶ poche ore le ventiquattro. Sebbene per le passioni generali e per l’intreccio si è veduto con piacere anche ne’ teatri italiani, tutta volta fuori delle Spagne è impossibile ritenere i tratti originali della dipintura degli zingani Andaluzzi che acquistano ancor grazia maggiore nella rappresentazione che ne fanno i nazionali. Più ◀di▶ una fiata ho veduta rappresentare questa commedia (perchè quasi ogni anno si ripete) or dall’eccellente attrice Pepita Huerta, morta da molti anni, or dalla Carreras che già si era ritirata dal teatro quando io nella fine del 1783 lasciai le Spagne. L’una e l’altra con pari applauso, benchè per differenti pregi, si segnalarono nel carattere ◀di▶ Preziosa. Rendevasi accetta la prima per certa grazia naturale tutta nobile che faceva trasparire in mezzo ai modi ed ai gerghi zingareschi. Questo bel misto ◀di▶ grazia, ◀di▶ spirito e ◀di▶ nobiltà mirabilmente conviene ad una giovinetta ◀di▶ sommo talento e vivacità ma disdegnosa e bizzarra ancor nell’amore, la quale in fine si scopre ◀di▶ esser nata ◀di▶ famiglia distinta. Si fece ammirare in seguito la Carreras nella rappresentazione fattasene nel 1781 per la viva imitazione delle maniere ◀di▶ quel ceto da non potersi migliorare. Stando poi nella convalescenza ◀di▶ una grave infermità si destinò l’anno 1782 a rappresentarla nel passar che fece il Conte d’Artois per Madrid andando al campo ◀di▶ San Roque; ma dopo la prima scena ella cadde in un profondo deliquio e convenne che la Graziosa per nome Apollonia supplisse sul fatto la parte ◀di▶ Preziosa; nè poichè si riebbe dalla nuova infermità volle la Carreras, benchè giovane, tornar più sulle scene. Altra commedia del Solis è il Doctor Carlino, la quale anche si contiene nel termine ◀di▶ poco più ◀di▶ un giorno. Il personaggio che dà il titolo alla favola è tratto della commedia imperfetta del Gongora, ed è felicemente dipinto; ma questa commedia non è rimasta al teatro. Nella commedia el Amor al uso (che Tommaso Corneille tradusse ed intitolò l’Amour à la mode) Solis ha pure rappresentata un’ azione che si compie in ventiquattro ore. Vi si dipingono vivacemente in istil faceto e naturale i costumi e le leggerezze giovanili. È posta in vista la galanteria ◀di▶ una dama ed un cavaliere che mostrano ◀di▶ amarsi, avendo però ciascuno più d’un intrigo amoroso per le mani. Solis sopravvisse a Calderòn, il quale morì assai vecchio nel 1681, e tutti si rivolsero a Solis, perchè succedesse all’estinto commediografo nel comporre gli autos sacramentales; ma egli risolutamente ricusò ◀di▶ porvi la mano, confessandosi insufficiente ◀di▶ seguirlo in tal carriera. Verisimilmente questo valoroso scrittore che non calcò le vestigia nè ◀di▶ Lope nè ◀di▶ Calderòn nè de’ loro seguaci, nell’irregolarità delle commedie e nello stile, conobbe ancora gl’incovenienti e le mostruosità annesse a quell’informe specie ◀di▶ dramma.
Si avvicinano a’ soprallodati poeti il messicano Giovanni Ruiz de Alarcòn, Antonio Zamora, Giovanni La Hoz e Francesco Bances de Candamo. Molte commedie essi diedero al teatro spagnuolo, benchè oggi poche se ne rappresentino.
Comparisce alcuna volta la commedia ◀di▶ Alarcòn intitolata No ay mal que por bien no venga, Don Domingo de Don Blas. Scorgesi in essa veramente la solita viziosa mescolanza ◀di▶ grandi interessi reali con avventure mediocri e ◀di▶ persone tragiche con caratteri comici senza rispettarvisi le unità. Notabile nonpertanto per le stravaganze è il carattere originale ◀di▶ Don Domingo, cavaliere onorato e valoroso, ma talmente innamorato del proprio comodo e così avverso a quanto possa torgli il menomo uso della propria libertà, che giugne all’eccesso e ne diviene ridicolo. Il re ◀di▶ Leone passa per Zamora? Don Domingo non si cura ◀di▶ andar con gli altri nobili a corteggiarlo. Il re manda a chiamarlo? Egli si affretta ad obedire sol per liberarsi presto da quella noja. Il re vuol fargli qualche grazia, e lo sprona a domandarne alcuna? Egli lo prega che se continua a dimorare in Zamora gli risparmii l’onore ◀di▶ più chiamarlo. Ode che in una casa si stà cantando? Per goder da vicino ◀di▶ quella musica, senza invito monta su e si pone a sedere. Giugne chi se ne ingelosisce e lo disfida; egli accetta, ma vuol battersi senza levarsi da sedere. Andando per la città mena seco un servo che oltre ad un parasole porta sotto il braccio uno scabello, ◀di▶ cui Don Domingo si serve in istrada quando vuol riposarsi. Questo personaggio capriccioso che tal volta eccede e si rende inverisimile e tocca il buffonesco della farsa, è non per tanto interessante pel valore ◀di▶ cui è dotato, e per la fedeltà che in ogni incontro mostra verso il sovrano.
Tralle commedie ◀di▶ Antonio Zamora che raccolte in due tomi si sono impresse ne’ principii del secolo XVIII, havvene due che oggi si rappresentano. La prima s’intitola No ay plazo que no se compla, ni deuda que no se pague, cioè non vi è tempo prefisso che non arrivi, nè debito che non si paghi; ed è il Convitato ◀di▶ pietra in parte rettificato. Zamora spogliò la mostruosa favola del frate ◀di▶ molte inverisimiglianze; colorì assai meglio il carattere del libertino; circoscrisse l’azione all’ammazzamento del comendatore, rammentando per racconto i trascorsi del Tenorio in Napoli, e ritenne solo il prodigio della statua convitata che parla e camina e convita ed uccide Don Giovanni. Quanto al tempo egli si permise la licenza ◀di▶ tre mesi d’intervallo dal I al II atto, nel qual tempo si scolpisce il magnifico sepolcro dell’Ulloa. Anche lo stile è più sobrio e lontano da molte stranezze nazionali ◀di▶ que’ tempi. L’altra commedia del Zamora solita a rappresentarsi è l’Hechizado por fuerza, l’ammaliato a forza, ◀di▶ cui lo stile, l’azione, i caratteri si contengono ne’ limiti ◀di▶ quel genere comico che si appressa alla farsa. Pecca ancora nell’unità del tempo, durando l’azione intorno ad un mese; come altresi in quella del luogo, benchè non esca da’ contorni ◀di▶ Madrid; ma l’uno e l’altro difetto rimarrebbe dissimulato sopprimendosene alcuni versi. Poche commedie spagnuole hanno la piacevolezza ◀di▶ questa ridicola favola.
El Castigo de la miseria, il castigo dell’avarizia ◀di▶ Giovanni La-Hoz lascia alla critica poche cose da censurare, e non poche da lodare. La sudicia avarizia ◀di▶ Don Marcos Gil, che oltrapassa gli Euclioni e gli Arpagoni, è colorita con tratti vigorosi e ben punita con un matrimonio ◀di▶ una finta ricchezza ◀di▶ una vedova indiana che in effetto è una povera donna ◀di▶ Salamanca. Anche questa favola partecipa assai della farsa; ma i caratteri sono felicemente dipinti, e lo stile è buono, comico, grazioso.
Francesco Bances de Candamo compose più commedie, delle
quali
tre sole si riveggono alcuna volta sulle
scene, lo Schiavo in catene d’oro, il Sarto del Campiglio, il
Duello contra l’Innamorata. Non v’ha regola ◀di▶ verisimile che in
esse non si trasgredisca, nè stranezza ◀di▶ stile che non possa notarvisi; e
pur vi si scorge un artificio che ne rende gli argomenti interessanti.
Imprese Candamo a dar nella prima favola una lezione
scenica a’ principi col medesimo intento che ebbe il signor ◀di▶ Marmontel ne’ discorsi ◀di▶ Giustiniano e Belisario. E siccome nel
libro ◀di▶ tal Francese la morale e la politica che vi si spargono, vengono
avvelenate da una perpetua languidezza, dall’inverisimiglianza, e da più
errori ◀di▶ calcolo politico e morale, oltre a quelli ◀di▶ religione; così nel
dramma spagnuolo la lezione che si pretende dare a’ sovrani tende a
distruggere un principio erroneo ed a stabilire una falsità opposta. Un
vassallo ardito che crede avere studiato, censura il governo ◀di▶ Trajano, e
si ribella. L’imperadore benigno per
castigarlo
se l’associa al trono. Il suo disegno e ◀di▶ mostrare che non vale lo studio
scompagnato dall’esperienza; ma viene a fondare questa massima:
que no es ciencia que se studia la del reinar
, cioè che l’arte ◀di▶
regnare non si studia, la quale è manifestamente falsa. Studio richiede il
regno; ma studio saldo, profondo; studio ◀di▶ cognizioni immediatamente
necessarie a’ diversi rami della politica, della pubblica economia e della
legislazione; studio non iscompagnato dall’intelligenza degli affari. Il
Camillo ◀di▶ Candamo avea studiato male; si doveva dunque
insegnare che al principe conviene studiar bene. In fatti egli vien dipinto
ignorante non solo ne’ principii politici che mettono capo nella ragion
naturale e delle genti, ma ancor nella geografia e nella storia. Or che avea
egli studiato? delle ciance pedantesche? Candamo dunque
dovea insegnare, non a disprezzare i libri, ma bensì a saperli scegliere per
l’oggetto ◀di▶ studiar l’arte ◀di▶ regnare, e che questa si
apprende non meno ne’ buoni libri che nel maneggio degli
affari; altrimenti il popolo nella scuola pubblica del teatro porterà a casa
un grossolano pregiudizio contro il sapere. Se i principi studieranno l’arte
◀di▶ cantare, danzare e verseggiare come Nerone, in vece ◀di▶ quella ◀di▶ regnare,
diventeranno musici, ballerini e rimatori, e non già principi illuminati
dalla sapienza. Se come Alfonso che fu detto il Savio, studieranno
l’astronomia a segno ◀di▶ credersi abili a dar consigli all’Autor delle cose
per migliorare il sistema celeste, essi diventeranno astronomi temerarii e
principi inetti. Ma se impareranno l’arte ◀di▶ ben conoscere i proprii popoli,
◀di▶ pesarne l’energia, ◀di▶ dirigerla a vantaggio dello stato, ◀di▶ calcolarne la
forza e la debolezza, ◀di▶ moderarne gli eccessi e ◀di▶ correggerne i difetti,
◀di▶ animarne la virtù co’ premii in vece ◀di▶ scoraggiarla col disprezzo, ◀di▶
emendarne gli errori da padre e non da despoto; i principi che si
dedicheranno a questo studio,
calcheranno le orme
de’ Titi e degli Antonini, i quali furono dotti non meno che grandi e degni
principi. Se apprenderanno a ben ragionare, a sapere i doveri ◀di▶ ogni classe
◀di▶ uomini, a scemare i loro bisogni e per conseguenza i loro delitti, in
vece ◀di▶ aumentarli, e si faranno istruire da’ veri filosofi, da’ Leibnitz, da’ Volfii, da’ Locki, da’ Montesquieu, da’ Genovesi,
applicandone le dottrine al maneggio degli affari, ed imitando i regnanti
benefici e scienziati, essi riscuoteranno gli applausi universali e
l’approvazione ◀di▶ se stessi. Se s’illumineranno co’ viaggi, co’ libri savii
e colla conversazione de’ sapienti e de’ buoni, come fece Pietro il grande
◀di▶ Russia, e come hanno fatto a’ nostri giorni diversi altri principi, essi
sapranno in pochi anni, rifondere e rigenerare le nazioni, e divenirne i
creatori. Se volgeranno le cure ad allegerire il popolo dal pesante fardello
delle leggi senza numero fra se talora discordi e talora avverse
all’umanità, e quasi
sempre bisognose ◀di▶ una
legione ◀di▶ comentatori, come pensò in Napoli Carlo III Borbone, e come
eseguì in Pietroburgo Caterina II col codice Russiano, se veglieranno poi
all’esecuzione della nuova legislazione; essi renderanno i soggetti e se
stessi felici e gloriosi. Adunque dalla favola ◀di▶ Candamo
risulta uno sciocco insegnamento, cioè che l’arte del regnare non s’impara
se non col solo maneggio degli affari. Se per apprendere ogni arte si
richiede disposizione naturale, studio ostinato e pratica ragionata, ◀di▶
grazia l’arte ◀di▶ regnare ch’è l’ultimo sforzo dell’umana ragione, si dovrà
attendere dalla sola presenza de’ casi, i quali sempre sono infinitamente
scarsi e fra se diversi, e quindi insufficienti a darne principii
applicabili ad ogni evento? E come maneggiarsi bene senza una norma, senza
bussola, senza aver coltivata la ragione? ogni arte che si acquista a forza
◀di▶ pratica materiale, s’impara errando, e gli errori de’ principi sono
sempre fatali. Questo soltanto che
nella favola
◀di▶ Candamo merita lode, è che vi si mostra coll’esempio ◀di▶
Camillo questa verità morale, cioè che un principe buono, che voglia bene
adempiere il proprio dovere, è un vero schiavo, che col manto reale ricopre
le proprie dorate catene, dovendo per bene de’ popoli rinunziare a non poche
delizie concesse a’ privati. E questa verità imparata colla pratica ◀di▶ un
lungo regno ha prodotto ◀di▶ tempo in tempo le abdicazioni ◀di▶ Silla, ◀di▶
Diocleziano, ◀di▶ Amorat, ◀di▶ Carlo V, ◀di▶ Cristina ◀di▶ Svezia ecc.
L’altra commedia ◀di▶ Candamo il Sarto del Campiglio è una mescolanza ◀di▶ affari pubblici ◀di▶ affetti privati, e ◀di▶ accidenti mal disposti con qualche situazione interessante. Io l’ho veduta tradotta in prosa italiana poco felice, ma spogliata in gran parte delle arditezze dello stile e delle solite irregolarità.
Il Duello contro l’innamorata chiama il concorso coll’azione principale, benchè si aggirì per vie tortuose. Una dama bizzarra esige dall’amante infedele un giuramento ◀di▶ non palesarla, e prende l’apparenza ◀di▶ un principe nella corte della sua rivale. Col nome finto, altro non potendo, sfida l’amante. Egli trovasi nell’angustia o ◀di▶ combattere contro una donna amata nella pubblica piazza, o ◀di▶ rimaner disonorato, o ◀di▶ mancare al giuramento fatto ◀di▶ non iscoprirla. Ma toccando a lui l’elezione dell’armi, esce dall’impegno scegliendo ◀di▶ combattere colla sola spada e col petto nudo non solo ◀di▶ armi ma ◀di▶ vesti. La donna altera vinta da questo artificio è costretta a palesarsi col pianto. Nel tempo stesso l’innamorato, il quale si era raffreddato nel ◀di▶ lei amore per un sospetto ingiusto, si trova disingannato per altri accidenti, e le dà la mano ◀di▶ sposo, Questo scioglimento curioso ha renduto noto questo dramma, ed il signor Linguet l’ha inserito nel suo Teatro Spagnuolo, intitolandolo poco felicemente la Fidelitè difficile.
Incredibile è il numero de’
contemporanei e
successori del Calderòn, i quali con minor vena, fuoco e
felicità hanno seguito il ◀di▶ lui metodo. Io potrei impinguare questa parte
del mio libro con più migliaja ◀di▶ commedie e de’ già nominati scrittori e ◀di▶
molti altri, come Godinez, Bocangel, Cuellar, Paz, Huerta, Zarate, Monroy, Anna ◀di▶ Caro ecc. Ma qual vantaggio o diletto
apporterebbe un catalogo ◀di▶ favole per lo più mancanti d’arte, ◀di▶ gusto e ◀di▶
giudizio? Qual gloria alla nazione numero sì grande ◀di▶ talenti abbandonati
al trasporto ◀di▶ una immaginazione calda e disordinata, ed innamorati ◀di▶ un
parlar gergone metaforico enimmatico gigantesco? Essi tutto posero lo studio
a riempiere le sregolate loro favole ◀di▶ ripetute impertinenti descrizioni e
pitture ◀di▶ cavalli, tori, armature, navi, giardini, palagi, duelli,
battaglie navali e terrestri, naufragii, ◀di▶ avventure romanzesche ◀di▶ ogni
maniera. Questi ornamenti ridondanti strani capricci osi contrarii al genere
rappresentativo, formavano
allora il sublime
delle favole spagnuole e niuno de’ loro autori ne andò libero. Per la qual
cosa tanti giudiziosi critici nazionali strepitarono negli ultimi tre secoli
contro le follie teatrali, lusingandosi ◀di▶ arrestare l’inondazione fangosa
colle loro letterarie querelea. Più grave ancora è l’accusa fatta
a’ loro compatriotti per l’oscenità de’ loro drammi negata invano col solito
capriccio dal nominato apologista Catalano, e ripresa con forti espressioni
dal Canariese Giovanni Ceverio de Vera, morto in concetto
◀di▶ santità nel 1600, con un dialogo contro le commedie
spagnuole; indi dal p. f. Giovanni della
Concezione, dal lodato Nasarro, e dall’amico Nicolàs Fernandez de Moratin. Laonde confessando
l’immensa fecondità degl’ingegni spagnuoli, ed il
loro sale comico non bene avvertito da Saverio Bettinelli, che volle
scherzare con una asserzione non vera, cioè che essi
nè anche
sapevano ridere senza gravità
; per servire alle leggi della storia
che sol del vero si alimenta e si pregia, osserviamo che rarissime sono le
commedie che da tali rimproveri si esimono. Ma non lasciamo ◀di▶ dire che se
essi al loro sale nativo, alla vivacità e fecondità dell’immaginazione, alla
predilezione che hanno pel teatro, accoppiato avessero un prudente timore ◀di▶
offendere la verisimiglianza, e si fossero appigliati ad uno stile più
conveniente al genere, superati forse avrebbero in tal carriera i loro
vicini e i lontani.
Da quanto abbiamo ora quì appena accennato, ben si rileva perchè nel XVII ancor meno che nel precedente secolo si rinvengano vere tragedie. Montiano che ne fu il più diligente investigatore, appena giunse a contarne sette o otto e pure sregolate. Perciò (dirò sempre) voglionsi compatire alcuni forestieri, e fra questi il signor Linguet (cui non ha punto liberato dalle insolenze ingiuste per lo più del fu Vicente Garcia de la Huerta l’essere stato tanto benemerito del teatro spagnuolo) se avanzano che la vera tragedia o non si è coltivata o non si è conosciuta dalla maggior parte della nazione.
Quasi tutte le tragedie del secolo XVII appartengono a Cristofaro Virues, avendone egli solo prodotto cinque nel 1609. S’intitolano la Gran Semiramis, la Cruel Cassandra, Atila furioso, la Infelix Marcella, l’Elisa Dido. La prima sulla regina Semiramide non può a buona ragione reputarsi una tragedia divisa in tre giornate, o dicansi atti, ma sì bene una rappresentazione de’ fatti ◀di▶ essa in tre favole separate. Trattasi nell’atto primo dell’incontro ◀di▶ Nino con Semiramide moglie ◀di▶ Mennone, cui il re propone ◀di▶ cedergliela; e ricusando egli, il regliela toglie per forza, e Mennone s’impicca. Dal primo atto al secondo passano sedici anni, e l’azione consiste nell’esser Nino avvelenato, nel chiudersi tralle Vestali d’ordine della regina il proprio figliuolo Ninia avuto da Nino, e nel farsi ella stessa coronar re, essendo per la somiglianza creduta Ninia suo figliuolo. Corrono altri sei anni dal secondo al terzo atto, in cui si tratta della dichiarazione che fa Semiramide ◀di▶ esser donna, della cessione dello scettro a Ninia palesandosene innamorata, e della morte che ne riceve. La Cruel Cassandra contiene molti fatti e molte uccisioni, ed è la più spropositata delle favole del Virues. Ad eccezione ◀di▶ uno o ◀di▶ due personaggi che poco figurano nella multiplicità delle azioni contenute in tal componimento, tutti gli altri sono scelerati. Muojonvi otto personaggi, e nello scioglimento veggonsi sulla scena cinque cadaveri in una volta; talche soleva dire un erudito spagnuolo, che in vece ◀di▶ una tragica azione gli sembrava una rappresentazione ◀di▶ una peste. Tutto in essa è sconcerto, stranezza, puerilità; nè lo stile e la versificazione rendono tanti spropositi meno nojosi ed in certo modo tollerabili. Atila Furioso, non cede alle altre nelle scempiagini, e tutte le vince in atrocità. Muojono in essa intorno a cinquantasei persone, oltre ◀di▶ una galera bruciata con tutto l’equipaggio e i passeggieri. La furia ◀di▶ Atila non disapprovata dal signor Montiano, mi sembra poi la cosa più sciocca e ridicola del dramma. Atila dovrebbe dipingersi furioso, se non come Oreste pieno ◀di▶ rimorsi, almeno come dominato dall’ira in estremo grado, ma non già ridicolo e impetuoso come un pazzo. La terza tragedia la Infeliz Marcela non è solo una specie ◀di▶ novella, come diceva il medesimo Montiano, ma un tessuto ◀di▶ scene sconnesse, improprie, talvolta buffonesche, talvolta atroci. I personaggi per lo più sono inutili ed episodici, le inconseguenze continue, lo stile ineguale, ora plebeo della feccia del volgo, ora fuor ◀di▶ proposito elevato, sempre sconvenevole e lontano dalla tragica gravità, la versificazione in un luogo pomposa in un altro triviale. L’autore volle in Marcella rappresentare le sventure d’Isabella amata da Zerbino dipinte dall’Ariosto. Ed appunto nella prima parte Virues mostra il caso d’Isabella condotta da tre seguaci del suo amante e restata in potere ◀di▶ uno ◀di▶ essi preso per lei d’amore, il quale allontanato con un pretesto il più forte de i due, ferisce l’altro. Alarico nel componimento del Virues mentre Marcella dorme, invia Ismenio a procurare un cocchio, e ferisce Tersillo che ricusa ◀di▶ secondarlo. Marcella tenta ◀di▶ fuggire; Alarico la trattiene; accorrono alle grida ◀di▶ lei alcuni banditi, ed Alarico fugge. Formio capo della masnada consegna Marcella a Felina, come Isabella è data in custodia nell’Ariosto alla vecchia Gabrina. Manca poi al Virues la guida del Ferrarese, e si avvolge nel resto in avventure mal accozzate, in bassezze e indecenze. La favola ◀di▶ Elisa Dido non rappresenta questa regina ◀di▶ Cartagine amante ◀di▶ Enea come immaginò Virgilio. La favola spagnuola si aggira sul matrimonio che Jarba vuol contrarre con Didone. Ella tuttochè piena della memoria ◀di▶ Sicheo, promette nella prima scena ◀di▶ unirsi all’Affricano. Alcuni capitani suoi vassalli che aspirano alle sue nozze, per turbare il trattato, assaltano il campo de’ Mori, e rimangono uccisi. L’ambasciadore moro torna a Didone, ed a nome ◀di▶ Jarba le presenta una spada, una corona ed un anello. Didone presso a conchiudere le nozze con Jarba torna col pensiero a Sicheo; ma pur comanda che Jarba sia introdotto nella città. Questo re che non si è veduto ne’ primi quattro atti, comparisce nel quinto, ed il Coro apre le stanze ove dimorava Didone, e si vede questa regina trafitta dalla spada ◀di▶ Jarba ed ha la corona a’ piedi ed una lettera in mano. Jarba (che sembra venuto in iscena unicamente a leggere quel foglio e a disporre l’esequie ◀di▶ Didone) comprende dalla lettera che la regina per mantenere eterna fede a Sicheo ha scelta la morte. Impone dunque, altro non potendo, a’ Cartaginesi ◀di▶ adorarla come una divinità, e finisce la tragedia. Tutti i cinque atti sono ripieni d’inutili inverisimili e freddi amori de’ capitani ◀di▶ Dido e ◀di▶ un racconto de’ suoi andati casi impertinentemente cominciato nell’atto I, narrato a spezzoni ne’ seguenti, interrotto quattro volte, e terminato nel quinto. Il signor Montiano affermava che in questa favola si rispettano le regole; ma per regole egli intende soltanto le unità ◀di▶ tempo o ◀di▶ luogo. Il signor Lampillas poco intelligente ◀di▶ poesia che volle parlar ◀di▶ drammatica, stimò questa Dido una tragedia perfetta. Compete questo suo decreto ad una favola ◀di▶ cui tre atti almeno sono inutili, e nella quale Didone senza apparire la necessità che l’astringe a promettersi a Jarba, è posta nel caso ◀di▶ darsi la morte per non isposarlo? Ciò è tanto più sconvenevole, quanto più Jarba che viene in iscena sì tardi, si dimostra ben lontano da ogni fierezza, dotato ◀di▶ un cuor compassionevole e religioso. Si dirà perfetta una tragedia, in cui Seleuco, Carchedonio, Pirro e Ismenia, personaggi totalmente oziosi, la riempiono sino alla noja ◀di▶ declamazioni e ◀di▶ racconti gratuiti e seccanti ? È argomento ◀di▶ perfezione, che mentre i personaggi subalterni cianciano a buon dato, Elisa figura principale del quadro, in cinque atti appena recita 170 versi e Jarba non meno necessario all’azione è riserbato unicamente a sotterrar Didone? Piano così assurdo verseggiato inegualmente in istile lontano dalla gravità e dalla correzione, a chi poteva parer tragedia perfetta se non al signor Lampillas?
Una tragedia intitolata Pompeyo compose Cristofero de Mesa traduttore dell’Iliade ◀di▶ Omero, e dell’Eneide ◀di▶ Virgilio impressa nel 1615, ed anche dell’Ecloghe, e della Georgica pubblicate nel 1618 insieme colle proprie Rime Rime, e colla nominata tragedia. Reca però maraviglia che un ingegno così esercitato, e che oltreacciò pregiavasi ◀di▶ avere per ben cinque anni frequentato, ed ascoltato in Italia Torquato Tasso, avesse scritta una tragedia sì cattiva, seguendo il sistema erroneo de’ compatriotti, anzi che l’esempio degli antichi e ◀di▶ Torquato. Il suo Pompeo comparisce in Lesbo, passa in Farsaglia, s’imbarca, ritorna a Lesbo, e va a morire in Egitto.
Forse dopo l’Elisa Dido del Virues non possiamo contare altre tragedie del XVII secolo, che la traduzione delle Troadi ◀di▶ Seneca fatta da Giuseppe Antonio Gonzalez de Salas che s’impresse nel 1633, ma in essa quasi sempre egli superò l’originale in gonfiezza, come pure l’Hercules Furente y Oeteo ◀di▶ Francesco Lopez de Zarate pubblicata con altre opere nel 1651, nella quale si nota qualche squarcio sublime. Ma nè queste nè quelle del Virues sono mai state rappresentate ne’ teatri ◀di▶ Madrid negli anni che io vi dimorai.
Tale è la storia del Teatro Spagnuolo fino alla fine del passato secolo da me con pazienza e fede compilata senza averne trovato esempioa. Varie cose ne trattarono i lodati Montiano, Luzan, Nasarre, l’Antonio, le cui lodi o invettive non volli adottare senza averle pesate con imparzialità. Sopratutto ho atteso a schivare le loro inutili decisioni generali. E che giovano esse quando non sono verificate su i medesimi drammi? Io ne ho scelti ed esaminati i migliori, ed ho potuto su ◀di▶ essi particolareggiare, ed accennarne con fondamento i difetti assai noti, e le bellezze, delle quali non ancora si erano avvisati i nazionali ◀di▶ far diligente inchiesta. Possa questo mio lavoro inspirar loro il disegno ◀di▶ fare una collezione ◀di▶ favole sceniche spagnuole scelta e ragionata, mille volte promessa, e mai non intrapresa! Possa facilitarne l’esecuzione questa mia storia! Allora gli Spagnuoli che mostrano già molti progressi fatti nelle scienze, e nelle arti, vedranno a tutta luce le loro forze, e le debolezze teatrali, e si volgeranno a calcare miglier sentiero. Allora si avvedranno, che tralle potenti cagioni che vi ostano; son da noverarsi gli scritti de’ Lampillas, dei Garcia de la Huerta, e ◀di▶ altri simili tagliacantoni letterarii, ed infedeli adulatori ◀di▶ se stessi, e de i difetti del teatro nazionale. Allora (o che io m’inganno) da scrittore antispagnuolo qual mi vollero dipingere, sarò tenuto per uno de’ benemeriti ◀di▶ una nazione, ◀di▶ cui non meno nel Discorso sopra le sviste del Lampillas, che nell’Orazione funebre per Carlo III recitata ed impressa nell’aprile del 1789, ed altre volte reimpressa, abbozzai un sincero elogio dettato dalla verità a me sempre cara, e non già dalle sordide speranze, o da bassezze lusinghiere.