(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO V. Teatri Oltramontani nel secolo XVI. — CAPO IV. Spettacoli scenici nella penisola di Spagna. » pp. 137-226
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO V. Teatri Oltramontani nel secolo XVI. — CAPO IV. Spettacoli scenici nella penisola di Spagna. » pp. 137-226

CAPO IV.

Spettacoli scenici nella penisola di Spagna.

Sebbene pochi sieno gli Eruditi Spagnuoli che non abbiano poco o molto favellato del proprio teatro, tuttavolta se ne desiderava ancora una storia seguita prima ch’io l’abbozzassi nella generale de’ Teatri pubblicata nel 1777, ed i buoni nazionali urbanamente me ne seppero gradoa. Nè anche dopo di me si è intrapresa tale storia nè in Ispagna, nè altrove; e l’istesso chiarissimo esgesuita Andres nella sua bella opera sopra ogni letteratura nulla d’importante aggiugne a quanto allora io scrissi del teatro spagnuolo. Adunque senza aver ragione degl’ingrati una mi accingo a darne ora io stesso assai più piena, in cui alle notizie ovvie e comunali altre se ne uniranno non prima avvertite, procurandosi nel tempo stesso coll’usata imparzialità di delineare le fisonomie (per così dire) de’ drammatici spagnuoli, e di rilevarne le bellezze da’ nazionali o non viste, o non descritte mai.

Gli Spagnuoli di pronto e acuto ingegno, di vivace e fertile fantasia, arguti, facondi, e ricchi di lingua, essendosi nel XVI secolo moltissimo distinti nelle lettere, specialmente verso la fine di esso coltivarono con qualche ardore la scenica poesia. Le prime cose che in quella penisola ebbero certa immagine rappresentativa, furono le Novelle in dialogo, o come le chiamò il bibliotecario don Blas de Nasarre, Dialoghi detti commedie lunghissimi, e incapaci di rappresentarsi a. I Portoghesi, e gli altri Spagnuoli ne composero moltissime tutte in prosa intitolandole novelle, tragicommedie, tragedie, e commedie. Di esse inutilmente si tesserebbe un catalogo compiuto, nulla avendone guadagnato il teatro, se non che potrebbero servire come di semenzai di pitture, e di ritratti al naturale, e di caratteri, e di passioni poste in inovimento, ed a buon lumea. Tale è la Celestina di tutte la più rinomata cominciata a scriversi nella fine del XV secolo da Rodrigo de Cota (altri dice da Giovanni Mena), e terminata men felicemente da Fernando de Roxas b, che s’impressse la prima

prima volta in Salamanca nel 1500 (la qual notizia rilevasi dall’edizione fattasene in Valenza nel 1529) e porta il titolo di tragicommedia divisa in atti ventuno, de’ quali solo il primo fu scritto dal primo autore. Non è che un lungo romanzo in dialogo, in cui mostrasi tutta l’oscenità senza velo col pretesto di riprenderla a. Per una delle prove evidenti che la rappresentazione di tal Novella sarebbe assurda ed impraticabile, si noti che i personaggi sogliono cominciar il dialogo in istrada, proseguirlo entrando in casa, e senza conchiuderlo uscirne. L’azione dura due mesi ed ancor più, ed è questa. Calisto innamorato di Melibea ricorre a Celestina vecchia ruffiana e maliarda famosa, la quale fa varii scongiuri, incanta una matassa di filo, la porta a vendere a Melibea, e per incanto la rende perduta amante di Calisto. Gli amanti più di una volta si veggono di notte, e Melibea è deflorata. I servi di Calisto per ingordigia ammazzano Celestina, danno nella giustizia, e sono impiccati. Calisto stando con Melibea ode un romore nel giardino accorre, cade dalla scala, e si ammazza. Melibea il dì seguente si precipita da una finestra e muore.

In prima questa azione appoggia in falso, perchè non solo Celestina fa mercimonio di malie, ma si finge effettivamente fattucchiera; e l’innocente Melibea per forza del suo incanto è corrotta; ed in ciò si vede la mancanza d’arte dell’autore; perchè se avesse saputo rifondere tutto il trionfo all’insidiosa eloquenza della vecchia, la novella sarebbe riuscita più verisimile, più artificiosa e più morale. Celestina poi anima di tutta l’azione muore uccisa nell’atto dodicesimo, per la qual cosa ne’ seguenti nove atti l’azione cade, si rende straniera al nome del protagonista, e si raffredda. La morte di Calisto è verisimile, ma la caduta che l’ammazza, è casuale, nè produce istruzione, perchè (come ben diceva un mio dotto amico spagnuolo) ad un anacoreta il più penitente ed esemplare non che ad un dissoluto, potrebbe accadere la stessa disgrazia nel discendere da una scala di una chiesa. Ultimamente il fine morale dell’autore di mostrar le funeste conseguenze delle sfrenatezze, viene interamente distrutto colle dipinture e situazioni laide e lascive, per le quali ne fu meritamente proibita la lettura. Nell’atto settimo Parmenone si giace in letto con Areusa a persuasione della vecchia scellerata che ciò stà vedendo; e questa situazione si rende tanto più scandalosa, quanto più il dialogo di tutti e trè è scritto con somma proprietà e bellezza. Negli atti XIV e XIX Calisto e Melibea soddisfano compiutamente i loro appetiti, si abbandonano ai dolci trasporti e discorsi e ad azioni proprie della più sfrenata passione, fino a numerare gli atti ripetuti della loro tresca, mentre che una serva posta di sentinella vede e nota con molta vivacità tutte le delizie che gustano gli amanti. In somma i movimenti, le parole, il silenzio stesso in questo punto dell’azione, è quanto può dipingersi di più disonesto in un racconto, non che su di un teatro; e questi sventuratamente sono i più bei passi del libro. Di grazia poteva ciò essersi immaginato per rappresentarsi? Ora se gli ultimi apologisti spagnuoli avessero conosciuta la Celestina, avrebbe l’esgesuita Lampillas avuto coraggio di riprendere qualche motto soverchio libero delle commedie dell’Ariosto? Garcia de la Huerta avrebbe dato ragione al Lampillas e torto al Signorelli? L’esgesuita Giovanni Andres avrebbe tacciato di oscenità le commedie del Machiavelli, e preferita, errando in più maniere, la scandalosa mostruosità della Celestina all’Orfeo del Poliziano? Son sicuro che egli non lesse mai nè l’una nè l’altro.

Lascio poi che il carattere di Calisto è quasi fantastico, pieno di espressioni iperboliche e di slanci d’immaginazione disparati, declamatorio e pressochè senza verità di affetti. Lascio ancora che il carattere di Celestina per altro eccellentemente dipinto, si vede imbrattato di vana ostentazione di erudizione e dottrina intempestiva impertinente. Del resto simil difetto è generale in questo romanzo in dialogo. Chi può soffrire Melibea, che in procinto di precipitarsi si trattiene a ripetere varii evenimenti istorici di Tolomeo, Oreste, Clitennestra, Nerone, Agrippina, Erode, Fraate, Laodice, Medea? Chi il di lei padre che a vista della tragica morte della figliuola apostrofa ed insulta amore, perchè venga chiamato nume, perchè si dipinga nudo, armato, cieco, fanciullo? che parla di Paolo Emilio, di Pericle, d’Ipermestra, di Anassagora, di Egisto, di Davide, di Paride, di Sansone, di Salomone, di Ero e Leandro, di Elena, di Saffo, di Arianna?

Ma sono da collocarsi tralle principali bellezze della Celestina nell’atto I l’eccellente, concisa, naturale ed elegante dipintura della bellezza di Melibea, la descrizione del carattere e delle occupazioni di Celestina, il dialogo comico di lei con Parmenone. Nell’atto III si ammira la sagacità della vecchia ottimamente lumeggiata, quando narra i suoi meriti ruffianeschi, e quando dipinge le ragazze innamorate. Nel IV è ben rilevata la scaltrezza di lei nell’insinuarsi per tutte le vie nell’animo di Melibea. Nel VII, nel XIV e nel XIX le già riferite scandalose situazioni veggonsi descritte con grazia e verità inimitabile e detestabile.

Risulta da quanto abbiamo accennato che la Celestina giustamente proibita e giustamente lodata ancora, ove però voglia considerarsi come spettacolo teatrale, parrà un componimento per tutte le vie spropositato e mostruoso; là dove mirandola come conviensi qual novella in dialogo, in cui l’autore sempre occultandosi tutto mette in bocca de’ personaggi, sarà un libro ricco di varie bellezze e meritevole di certo applauso. Ed in fatti la vivacità delle descrizioni de’ caratteri, e la maestria del pennello ne’ quadri de’ costumi, non permetteranno che tal libro perisca, e la gioventù potrebbe apprendervi a temere le funeste conseguenze degli amori illeciti, se il dolce veleno di questi non fosse dipinto con soverchia espressione e con tal naturalezza, che può renderlo anzi pernicioso che istruttivo. Libro divino lo chiamò intanto il Cervantes nella decima del Poeta Entreverado; e l’autore del Dialogo de las lenguas affermò che in castigliano non v’ ha libro scritto con maggior proprietà, naturalezza ed eleganza. Se ne fecero varie edizioni a, e traduzioni; ma la prima di queste fu quella italiana impressa in Roma pel Silber e Franch l’anno 1506, indi reimpressa in Venezia cinque altre volte sino al 1553. L’autore di tal versione fu uno Spagnuolo domiciliato in Italia chiamato, per quel che si dice da lui stesso, Alfonso Ordonez a.

Celebre fu anche la novella chiamata Commedia Eufrosina pur composta in prosa da un autore che si occultò sotto il nome di Giovanni Speraindeo. Si pubblico la prima volta dal portoghese Francesco Rodriguez Lobo, che poetò circa il tempo di Filippo III, e poi si tradusse in castigliano da Fernando Ballesteros y Saavedra morto nel 1665, e s’impresse nel 1631a. In tal componimento in mezzo alla purezza dello stile trovansi frequentissime allusioni pedantesche che annojano.

Una seconda commedia di Celestina compose Feliciano de Silva, in cui trattansi gli amori di Felide e Poliandria. Una terza parte della tragicommedia di Celestina produsse Gasparo Gomez. La tragicommedia di Lisandro e Roselia di un anonimo stampata in Madrid nel 1542 è pure un componimento che discende dalla Celestina. L’autore del Flos Sanctorum Alfonso de Villegas toledano nella sua gioventù sulle tracce della Celestina scrisse la Selvagia commedia.Giovanni Rodriguez fece la Floriana che tratta degli amori del duca Floriano con Belisea impressa nel 1544 in Medina. Per non tornare a parlar di simili novelle drammatiche, accenniamo ancor quì che il famoso Lope de Vega in un volume ne scrisse anch’egli una in prosa secondo l’usanza tenuta in esse, e l’intitolò Dorotea che non si rappresentò, nè per la sua lunghezza era capace di rappresentarsi. La Ingeniosa Helena figlia di Celestina, novella scenica detestabile per l’oscenità, s’impresse in Lerida nel 1612, ed in Madrid nel 1614. Tre altre ne compose il portoghese Giorgio Ferreira de Vasconcelos impresse ne’ primi lustri del secolo seguente. La prima e la migliore detta commedia Eufrosina dopo altre edizioni uscì in Lisbona nel 1616; la seconda chiamata commedia Olisipo si produsse nella medesima città la seconda volta nel 1618; e la terza col titolo comedia Aulegrafia, che contiene una descrizione della corte, si pubblicò nel 1619.

Ma componimenti proprii per la rappresentazione scrisse in Portogallo il famoso Gil Vicente, il quale nato di nobil famiglia (secondo Diego Barbosa) rappresentò più volte le proprie commedie alla presenza del re Emanuele e di Giovanni III. Fu considerato come il Plauto del Portogallo, e talmente applaudironsi le sue favole, che invogliarono Erasmo Roterdamo a studiar la lingua portoghese per comprendere le grazie comiche di Gil Vicente. Egli morì in Evora prima del 1557. E dopo la di lui morte se ne pubblicarono le opere in cinque volumi, de’ quali il secondo contiene le commedie, il terzo le tragicommedie, il quarto le farse. Tra queste opere teatrali trovo distinte le seguenti: Auto (che in tal materia equivale a rappresentazione) de Amadis de Gaule, Auto da barca do inferno, Auto de don Duardo a, Auto do Juiz de Beira, Triunfo do infierno comedia, Pranto de Maria Parda, Auto da donzella da torre, Auto do Fidalgo Portuguez. Lasciò Gil due figliuoli ed una figliuola che gareggiarono col padre nel coltivar la poesia. Il primo di essi fu Gil Vicente detto il giovine tenuto per più eccellente del padre, e tra i di lui drammi credesi il migliore quello intitolato don Luis de los Turcos. Il secondo fu Luis Vicente, il quale intraprese l’impressione delle opere del padre. Pabla Vicente chiamossi la figliuola, di cui corse fama che correggesse le composizioni paterne, oltre di averne scritte ella stessa alcune assai bene accolte.

Il celebre quanto infelice gran poeta portoghese Luigi Camoens autore del poema epico Las Luisiadas composto nelle Indie, perfezionato in Europa quando vi fece ritorno nel 1569, e pubblicato sette anni prima della di lui morte dopo aver menato una vita da mendico sotto gli occhi del sovrano cui avea servito colla penna e colla spada; Camoens, dico, dee contarsi tra’ benemeriti del patrio teatro pel suo Anfitrione tratto da Plauto, di cui ritiene molte grazie, e per un’altra picciola farsa che leggesi nelle di lui opere.

Il dottor Francesco de Sà de Miranda nato nel 1495 e morto nel 1558 applaudito come il più insigne poeta portoghese dopo Camoens, scrisse qualche commedia da mentovarsi per la grazia de’ motteggi e pe’ caratteri ben sostenuti. Quella intitolata Commedia dos Vilhalpandos s’impresse dopo la di lui morte in Coimbra l’anno 1560 da Antonio de Maris; ma non fu questa la prima impressione dicendosi agora novamente impressa. Il soggetto si enuncia nel prologo che fa la Fama. Un Romano chiamato Pomponio ha un figlio ammaliato dalle arti di una cortigiana e dal di lei servaggio cercano ritrarlo il Padre colle ragioni e colla propria autorità, e la Madre per via di devozioni, mezzi che riescono ugualmente infruttuosi, perchè la cortigiana chiamata Aurelia seguita a governare a suo modo il giovine Cesarino. Tra gl’interlocutori chiamati figuras de comedia sono, un eremita, un ruffiano, un paggio francese ed una comitiva di pinzochere con Fausta madre del traviato giovinetto. La commedia è scritta a norma del verisimile e divisa in cinque atti cui non manca che vivacità ed azione. Se gli scrittori di quella penisola avessero seguito le vestigia di questo autore quanto alla regolarità, adattandosi però al tempo circa i costumi e i caratteri, avrebbero forse impedita l’irruzione de’ drammi stravagantia. Se ne fece un’altra edizione in Lisbona l’anno 1595 unita ad un’altra commedia del medesimo autore da me non veduta intitolata Os Estrangericos, della quale edizione parla solo Nicolas Antonio.

Antonio Ferreira nato in Lisbona, ad insinuazione del prelodato Francesco de Sà, prese a coltivar le muse sotto il re Sebastiano, e vi riuscì felicemente. Egli scrisse in più di un genere in maniera che si novera tra’ primi poeti portoghesi. Ma le sue opere si pubblicarono quaranta anni dopo che cessò di vivere, cioè nel 1598 da Michele suo figlio che lasciato aveva fanciullo. Consistono in varie poesie liriche, sonetti, odi, ottave, epigrammi, elegie, epistole, epitafii, e vi si trova una tragedia intitolata Castro mentovata dal citato Nicolas Antonio, non nota o solo di nome nota al Montiano e ad altri critici Spagnuoli, sfuggita al Nasarre, al Lampillas ed all’Andres. Io straniero, oltraggiato da Garcia de la Huerta e da Ramòn La-Cruz (se gli Huerta e i La-Cruz colle native villanie di Lavapies e de las Maravillas potessero oltraggiare altri che se stessi) perseguitato dagl’ingrati apologisti come antispagnuolo a dispetto della verità e dell’evidenza, io, dico, straniero mi accingo a rilevare i pregi di tal tragedia che avrei potuto impunemente dissimulare come negletta e ignorata da tanti nazionali sino a’ giorni miei.

Trasse il Ferreira l’argomento della sua tragedia dalla tragica morte di doña Inès de Castro; nè parmi che lo dovesse al Camoens, il quale nelle Luisiadi con tanta energia e passione ne cantò. Imperciocchè se le poesie del Ferreira s’impressero nel 1598 quaranta anni dopo della di lui morte, la sua tragedia dovè comporsi prima che Camoens tornasse in Europa col suo poema composto nell’Indie ed impresso nel 1572. Dividesi la Castro in cinque atti, e vi si osservano le regole del verisimile eccetto che nell’unità del luogo, seguendo l’azione parte in Coimbra e parte in Lisbona. Lo stile è nobile, è grave, e rare volte ammollito da qualche ornamento lirico, i costumi vi sono ben coloriti, e i discorsi vivacemente appassionati. Veggasene uno squarcio dell’atto I, quando Inès racconta l’amore che ha per lei l’Infante Don Pietro, e la pena che ei soffre per vedersi ad altra congiunto:

Suspira et geme et chora a alma cativa
Forzada da brandura et doce forza,
Sogeita a o cruel jugo que pesado
A seu desejo sacudir deseja.
Nào pode, nào convem, a furia cresce.
Laura a doce pezonha nas entranhas.
Os homes foge, foge a luz et odia.
So passea, sò fala, triste cuida.
Castro na boca, Castro n’alma, Castro
Em toa parte tem ante si presente,
Elle a molher cuidado et odio et iraa.

Fu questa tragedia copiata dal p. Girolamo Bermudez di Galizia nella Nise lastimosa senza che ne avesse fatto menzione. Il plagio è manifesto. Il piano, la sceneggiatura, tutto l’atto III col sogno d’Inès; tutto il IV colla patetica aringa fatta al re Alfonso dalla stessa e col congedo che ella prende da’ figliuoli; la forma de’ versi saffici de’ cori, l’atto V, in somma tutto involò al Portoghese senza avvertirne almeno in qualche modo il pubblicoa. Altro non v’ha che appartenga al Bermudez che i discorsi lunghi, nojosi, impertinenti, la mortale languidezza, e la viziosa versificazione rimata con sonetti, ottave, terzine ecc.; là dove il Ferreira di miglior gusto, fuor che ne’ cori, usò in tutta la tragedia con senno il verso sciolto. Noi nel parlar poi delle due Nise del Bermudez ne confronteremo qualche squarcio.

Il gesuita Luigi de la Cruz nato parimente in Lisbona, e conosciuto per la traduzione latina del Salterio di David uscita in Ingolstad nel 1597, e poi in Napoli nel 1601, scrisse in versi latini varie azioni tragiche e comiche impresse in Lione nel 1605, cioè un anno dopo la di lui morte avvenuta in Coimbraa. E ciò abbiamo trovato di notabile fra’ Portoghesi.

Quanto al teatro Castigliano dobbiamo al noto Miguèl Cervantes la descrizione circonstanziata della fanciullezza e de’ primi suoi avanzamenti. Questo scrittore nato nel 1549 sotto l’Imperadore Carlo Quinto sei anni prima che cominciasse a regnar Filippo II, in un prologo ad otto sue commedie ci fa sapere che essendo egli fanciullo componevasi il teatro di Madrid di quattro o sei tavole poste sopra quattro assi in quadro alte dal suolo quattro palmi. Il suo ornato consisteva in una manta vecchia tirata con due corde, la quale divideva dal palco la guardaroba (che sarebbe il postscenium degli antichi) e dietro di questa manta stavano i musici, cioè gli attori che da principio cantavano senza chitarra qualche antica novella in versi che in castigliano chiamasi romance. Allora tutti gli attrezzi di un capo di compagnia si chiudevano in un sacco, come quelli de’ pupi, e si riducevano a quattro pellicce bianche guarnite di cartone dorato, quattro barbe e capigliature posticce, e quattro bastoni da contadini. Le commedie erano non lunghi colloquii tra due o tre pastori e una pastorella, o tra pochi personaggi di città assai bassi. Gli andavano i commedianti allungando con qualche tramezzo di una Mora, di un Ruffiano, di un Balordo, di un Biscaino, caratteri rappresentati a maraviglia da un battiloro di Siviglia chiamato Lope de Rueda. Si pretende che costui fiorisse circa il tempo di Leone X; ma Cervantes fanciullo lo vide rappresentare. Trovansi di questo commediante due Colloquii pastorali e quattro picciole commedie intitolate Eufrosina, Armedina, Medora e i Disinganni, le quali cose si pubblicarono in Valenza nel 1567 dal librajo Giovanni di Timoneda che fu anch’egli autore di alcune novelle e di tre commedie in prosa impresse nel 1559. Le commedie del Rueda, dice Lope de Vega nell’Arte Nuevo, di stile assai basso e che rappresentano fatti di artefici mecanici ed amori di persone plebee, come della figlia di un fabbro, nelle quali però dice,

        està en su fuerza el arte,
Siendo una accion y entre plebeya gente,

rimasero indi nel teatro per intermezzi, dopo che vi s’introdussero azioni ed amori di sovrani e principesse.

Al Rueda morto prima del 1557 succedette nel teatro un tal Naharro nato in Toledo, che rappresentava assai bene la parte di Ruffiano codardo. Ebbe costui il gusto più cittadinesco, e arricchì l’apparato comico di modo che non bastando il sacco, vi vollero i bauli per rinchiudervi i nuovi arredi scenici. Fece anche venir fuori quei che prima cantavano dietro della manta, e forse egli stesso gli rendè più accetti coll’acccompagnamento della chitarra, che si è veduta uscire sulle scene ispane sino a’ giorni nostri. Dispose parimente che gli attori deponessero le barbe posticce e rappresentassero a volto nudo, mostrando con ciò d’intendere la vera rappresentazione. Finalmente abbellì le azioni con varie decorazioni e macchine, fingendo nuvole, lampi, tuoni e facendo veder duelli, battaglie, tempeste. Tosto dunque uscirono i comici dalle commediole e dagli amori della figliuola del fabbro, i quali posti in circostanze pericolose o tragiche trassero seco loro la confusione de’ generi.

Mentre tali cose accadevano nel pubblico teatro, non mancò chi s’ingegnasse di tradurre e di comporre alcuna commedia non mentovata da Cervantes, forse perchè non si rappresentò nè influì ai progressi dell’arte. Trovo nominate tre commedie scritte da uno o più anonimi, ed impresse in Valenza nel 1521, Comedia Tebaida, Comedia Hypolita e Comedia Serafina che non mi è riuscito di sapere che cosa fossero. Si fa inoltre menzione di un dramma detto Tragedia Policiana, in cui si trattano gli amori di Poliziano e Filomena uscita in Toledo nel 1547. Probabilmente simili favole furono novelle in dialogo.

Verso i primi anni del secolo il dottore Villalobos tradusse in prosa l’ Anfitrione imperfettamente, avendone tralasciato il prologo e varii squarci quà e là. La stessa commedia fu meglio recata in castigliano anche in prosa da Fernan Perez de Oliva cordovese impressa poi in Cordova nel 1585 colle di lui opere. Pietro Simon April tradusse la Medea di Euripide, e nel 1577 pubblicò la sua versione delle commedie di Terenzio, le quali ben potranno giovare a’ Tedeschi per apprendere la lingua spagnuola , al qual fine Scioppio ne raccomanda la lettura nell’opuscolo de Studiorum ratione: ma si potrebbe mostrare a chi ne dubitasse, quante volte abbia l’April manifestato poca intelligenza dell’originale; nè ebbe torto l’erudito bibliotecario Giovanni Yriarte quando il derise in un epigramma inserito nelle di lui opere postume. Cristofano Castillejo morto nel 1596 scrisse alcune commedie rimaste inedite che io non ho potuto leggere, e che secondo il Nasarre potrebbero passar per buone, se fossero meno mordaci e lascive. Tralle altre vien lodata la Costanza, la quale trovasi manoscritta nella libreria dell’Escuriale a.

Ho bensì lette le poesie di Bartolommeo de Torres Naharro nativo di Torres presso Badajoz; il quale fu sacerdote, e non commediante, come credette l’esgesuita Giovanni Andres, confondendolo per avventura col soprannominato Naharro di Toledo b. Esse portano il titolo di Propaladia, la cui lettura sin dal 1510, quando s’impresse la prima volta in Siviglia da Giacomo Cromberger, fu proibita in Ispagna sino al 1573 allorchè si ristampò. Vi trovai otto commedie: la Serafina, la Trofea, la Soldatesca, la Tinellaria, l’Imenea, la Giacinta, la Calamita e l’Aquilana. Esse veramente sono all’estremo fredde e basse, prive di ogni moto teatrale, senza verisimiglianza nella favola, senza arte nell’intreccio, senza decenza nel costume. Gli argomenti sono di quel genere che dee bandirsi da ogni teatro culto. Ecco l’azione della Serafina, in cui vedesi un misto di dissolutezza e di superstizione. Floristano drudo un tempo di Serafina cortigiana di Valenza si marita ad Orfea onesta giovinetta: rivede l’amica: gli si risveglia in petto l’antico fuoco: Serafina l’aumenta co’ rimproveri insidiosi: gli chiede la morte della moglie: Floristano promette di ammazzarla dentro di un’ ora: la cortigiana si dispone ad attenderne l’esito, dicendo,

Vejam aço que fareu.

Determinato Floristano al misfatto si abbocca con un Eremita, e gli narra di esser caduto nella bigamia, per aver prima sposata clandestinamente la cortigiana, indi Orfea colle dovute formalità, aggiungendo di aver perciò deliberato di torre a quest’ultima la vita:

Es menester, egli dice,
Que yo mate luego è Orfea
Dò Serafina lo vea,
Porque lo pueda creer;

ed ecco con quale scandalosa ragione si anima al meditato eccesso, e vi riposa senza veruna agitazione o rimorso:

Porque si yo la matare,
morirà cristianamente;
yo morirè penitente,
quando mi suerte llegare.

Frattanto il vizio radicale della favola rende l’autore incerto fralla decenza e e la verisimiglianza, cose che non sa conciliare, si avvolge in difficoltà e cade in contraddizioni. Il servo nella giornata I domanda a Floristano, se ha consumato il matrimonio con Orfea, ed egli risponde,

Y aùn consumì el patrimonio,
Que ha sido mucho peor;

e ciò vuol dir di sì. Ma nella giornata V l’Eremita domanda la stessa cosa, ed egli risponde, ni pude ni quisiera . Or perchè poi codesto scempiato Eremita, il quale senza saper perchè si rende complice di un attentato sì atroce, aspetta sino a quel punto a domandare una circostanza sì necessaria per impedire l’ammazzamento di Orfea poco meno che eseguito? È chiaro. Quando domandò il servo, la commedia incominciava, e perchè potesse continuare, Floristano rispose di aver consumato il matrimonio, ed il patrimonio; ma all’Eremita verso la fine risponde di non averlo consumato, perchè la commedia dovea terminare. Tralascisi poi che i personaggi usano in tal commedia quattro idiomi, cioè un latino scolastico, un italiano insipido, il castigliano ed il valenziano; e neppur si metta a conto che l’Eremita cinguetti nel suo barbaro latino con servi e donne, e tutti l’intendono e rispondono a proposito.

Non minori assurdità e incoerenze si rinvengono nella Tinellaria, oltre di trovarvisi l’indicata mescolanza di linguaggi, altri parlando italiano, altri francese, altri portoghese. L’Imenea potrebbe dirsi delle otto la meno spropositata, ma in altro essa non consiste che in una languida filza di scene insipide malcucite, nelle quali si ripetono varie situazioni, si ritraggono i caratteri senza niuna verità, e l’azione si scioglie, non perchè trovisi giunta al segno necessario per isvilupparsi, ma perchè il poeta ha stimato a capriccio di conchiudere, facendo che quel Marchese, il quale senza ragione si opponeva al matrimonio di Febea sua sorella con Imeneo che l’ama, senza ragione ancora poi vi acconsenta, tuttochè mutata non sia o la situazione, o lo stato, o le circostanze de’ personaggi. La Giacinta per consenso de’ nazionali stessi preoccupati, è un dialogo insulso, che a Naarro piacque di chiamar commedia. Simili osservazioni ci apprestano le altre commedie della Propaladia; ma non vogliamo abusare della pazienza de’ leggitori.

Ebbe dunque torto il Nasarre a gloriarsi di tali sciapite commedie come delle migliori della nazione; ed era interesse della gioventù spagnuola, o

che si lasciassero nell’obblio in cui caddero, o che si valutassero per quelle che sono, affinchè non si prendessero per esemplari. Or perchè increbbe al catalano Saverio Lampillas, che uno straniero provvedesse a quest’interesse della gioventù che non merita di essere ingannata? Egli sel saprà.

Ci diede poi il Nasarre una notizia nè vera nè verisimile allorchè scrisse che esse si rappresentarono con indicibile applauso in Roma e in Napoli sotto Leone X. E donde il ricavò egli? Qual prova ne addusse? Una commedia spagnuola rappresentata in Italia avrebbe avuto qualche cosa di particolare da spingere gli eruditi di quel tempo a farne menzione; pur niuno ne fe motto nè in Italia nè nelle Spagne prima del Nasarre morto pochi lustri prima dellà fine del secolo XVIII. Don Nicolas Antonio che parla distesamente del Naarro de Torres, afferma solo che dimorò in Roma in tempo di Leone X, e vi scrisse alcune satire contro i cardinali (e nella Propaladia ancora se ne legge una) e dovè scapparne via e rifuggirsi a Napoli in casa di don Fabrizio Colonna. Or perchè lavorare sì impudentemente d’invenzione per ingannare i compatriotti? Era poi verisimile che farse così triviali languide insipide magramente scritte si tollerassero in Roma, quando in essa e nelle altre più chiare città dell’Italia si rappresentavano tante dotte eleganti ingegnose vivaci commedie dell’Ariosto, del Machiavelli, del Bibiena, del Bentivoglio? Nè anche nel XIV secolo quando rappresentavasi in Italia l’Ezzelino del Mussato si sarebbe sofferta una Serafina o una Soldatesca del Naarro. Fa dunque torto, ripeto, alla veracità ed onestà non meno che all’erudizione di un uomo di lettere, la vana jattanzia aggiunta a questa istoriella mendace e gratuita del Nasarre, cioè che il Naarro insegnò agl’Italiani a scrivere commedie, e che essi poco profitto trassero dalle di lui lezioni . È una rodomontata ed una falsità patente che eccita il riso. Di grazia chi scrivea Trofee, Tinellarie, Imenee, poteva mai, non che insegnare, esser discepolo di buona speranza in Italia, che sin dal XV secolo avea fatta risorgere l’eloquenza e l’erudizione Ateniese e Latina, e poscia illustrò sin da’ primi anni del XVI l’amena letteratura con la Sofonisba, l’Oreste, la Mandragola, il Negromante, la Calandra, il Geloso? Io non voglio omettere la nota I che nel 1789 si appose nel IV volume della Storia mia de’ teatri che appartiene a Carlo Vespasiano a. Egli così la lasciò su questa sbraciata del Nasarre: » Non sarebbe stato forse questo erudito Bibliotecario Matritense indotto dal folle orgoglio nazionale a pronunziar seriamente tali scempiaggini, se avesse riflettuto, che per le continue guerre e inquietudini ch’ebbe la Spagna per lo spazio di quasi otto secoli con gli Arabi conquistatori, l’ignoranza divenne così grande in quella penisola, e tanto si distese che nel 1473, come apparisce dal Concilio, che nel detto anno per ripararvi si tenne dal cardinal Rodrigo da Lenzuoli vicecancelliere di s. Chiesa e legato a latere di Sisto IV a, e come attesta parimente il Mariana b, tra’ sacerdoti pochi intendevano il latino, pauci latine scirent, ventri gulae servientes . Avrebbe certamente quel bibliotecario parlato con maggior circospezione, se si fosse anche ricordato di ciò che si narra da tanti scrittori c, cioè che Antonio di Nebrixa nato nell’Andalusia il 1444, dopo aver fatto per poco tempo i suoi studii in Salamanca, non ben soddisfatto passasse in Italia, e fermatosi lungamente nell’università di Bologna, dopo essersi renduto ben istruito non men nelle lingue che nelle scienze, ritornasse alla sua patria, richiamato, come vogliono, dall’arcivescovo di Siviglia Guglielmo Fonseca a cogli acquisti fatti della dottrina italiana, e leggendo per un gran pezzo in Salamanca non ostante l’opposizione degli scolastici che di favorir le novità l’accusarono, inspirò a’ suoi nazionali l’amor delle lettere, onde fu caro al re Cattolico che lo volle perciò in corte per iscrivere la sua storia, e fu dal Cardinal Ximenes impiegato nell’edizione della Bibbia Poliglotta, e di poi alla direzione dell’università di Alcalà di Henares, ove si morì nell’1522, e lasciò molte opere. La stessa cosa si dice che fatto avesse Ario Barbosa b nato in Aveiro nel Portogallo, il quale fu discepolo del Poliziano in Firenze, e fecevi gran profitto, e dopo lesse anch’egli in Salamanca per lo spazio di venti anni in compagnia del Nebrissense, e passato in Portogallo fu maestro de’ due principi, e morì decrepito in sua casa nel 1530 con lasciar varie opere. Laonde a questi due dotti uomini dirozzati ed ammaestrati in Italia dee la Spagna tutto l’onore di aver da’ suoi cacciata l’ignoranza in cui erano immersi. Del resto pur troppo vero si scorge in non pochi Spagnuoli ciò che di essi generalmente afferma il Baillet: Si l’on en croyoit ceux du pais, il ne s’en trouveroit point parmi ceux des autres nations qui les auroient surpassès, et fort peu même qui les auroient ègalès, mais il faut considerer cette opinion plutôt comme un veritable sentiment de tendresse pour leurs patrie, que comme un jugement fort sain ou fort sincere. Contro di questa mia nota (aggiunse il Vespasiano) volle scagliarsi l’apologista Lampillas a attribuendola per abbaglio al dotto mio amico il Dottor Napoli-Signorelli. E perchè tanto gl’increbbe la storia? Quel che vi si avanza specialmente dell’ignoranza provata de’ sacerdoti spagnuoli sino al XV secolo, è fondato, come ognun vede, sulle cure presene per distruggerla da tutto il Concilio Matritense e sul testimonio del celebre storico Mariana. Ora il Lampillas ha egli per avventura distrutte queste testimonianze nazionali lampanti, irrefragabili, imparziali? E se non l’ha fatto, a che tante ciarle? A che accozzar un capriccioso fallace raziocinio ed ascriverlo all’autor della nota? Poteva (dice poi il medesimo apologista) nel principio del XVI secolo uno spagnuolo insegnare agl’Italiani a scriver commedie , tuttochè uscisse da un paese barbaro ancora nel XV. Poteva, sì, accordiamolo; è ciò un possibile benchè troppo raro; ma un possibile gioverà mai contro il fatto? Io veggo però un altro possibile incomparabilmente più comune e naturale, cioè che il Nasarre ignorasse o dissimulasse la barbarie della penisola verso il principio del XVI secolo (alla quale non mai si derogherà nè per tre nè per quattro scrittori che altri potesse citare) e spacciasse un fatto passato solo dentro del suo cervello, cioè che ne fosse sbucciato un autore spagnuolo che usando nelle insipide sue commedie un latino barbaro ed un pessimo italiano, calato fosse ad insegnare a scrivere commedie a i maestri de’ Nebrissensi e de’ Barbosi, agl’Italiani, che, come osserva l’autore di questa eccellente storia teatrale, già possedevano le comiche produzioni de’ Trissini, degli Ariosti, de’ Machiavelli, de’ Bentivogli? Fin quì il Vespasiano.

Ma poste da banda le visioni del Nasarre a riconoscansi i primi avanzamenti del teatro spagnuolo dalle fatiche del prelodato Cervantes. Questo letterato infelice rimasto monco o storpiato nella battaglia navale di Lepanto contro i Turchi, che col valore e coll’ingegno non potè trovare tra’ compatriotti possessori delle miniere Americane sufficiente sostentamento; questo rinomato castigliano a’ suoi di negletto schernito e satireggiato da’ nazionalia, oltre alle altre sue opere scritte con grazia ed eleganza, compose intorno a trenta commedie ricevute, al suo dire, con sommo applauso, delle quali altro non si conserva che qualche titolo. Quelle che egli ebbe in maggior pregio, furono da lui nominate nella parte I del Don-Quixote nel cap. 48, e nell’Adjunta al Parnaso, e specialmente la Ingratitud vengada, la Numancia, el Mercader amante, la Enemiga favorable, e più di tutte la Confusa. Cervantes le tenne per buone, e noi dovremmo convenir con lui, a giudicarne da quanto, egli con gran senno ragionò sulle commedie della propria nazione. Ma questo argomento perde ogni vigore al riflettersi ch’egli lodò ancora come eccellenti alcune tragedie, che la posterità, come diremo, ha trovate cattive, non che difettose. Di più egli nel suo prologo enunciò come scritte con arte otto ultime sue commedie pubblicate un anno prima di morire, e pur sono talmente spropositate, che nel 1749, per procurar lo spaccio degli esemplari di esse non venduti, il bibliotecario Nasarre più volte mentovato prese il partito di appiccarvi una lunga dissertazione, in cui inutilmente si affanna per dimostrare che Cervantes le scrisse a bello studio così sciocche per mettere in ridicolo quelle del Vega. Ma le parole del Cervantes hanno tutta l’aria d’ingenuità che manca alla dissertazione, e distruggono sì manifestamente le sofistiche congetture del Nasarre, che io stimo che non mai quell’erudito da buon senno prestò fede egli stesso a quel che si sforzò di persuadere agli altri. Almeno in tentarlo dimostrò il Nasarre nella falsità qualche acutezza ed erudizione. Ma che strana e ridicola giustificazione delle scempiaggini delle otto commedie del Cervantes fu quella che venne in mente all’esgesuita Lampillas? Egli suppose che uno stampatore le avesse cambiate. Egli dovea con ciò supporre che Cervantes, il quale opravvisse un anno alla pubblicazione del libro, avesse veduto e sofferto il cambio a. Le apologie di codesto catalano respirano da per tutto sempre pari buona fede e saviezza.

Cervantes lasciò di scrivere commedie quando cominciò a fiorire Lope de Vega Carpio b, il quale sopravvisse a Cervantes diciannove anni, e morì di anni settantatre nel 1635. L’antica e la moderna Europa non vide un poeta teatrale del Vega più fecondo. I venticinque volumi impressi contengono appena una parte di ciò che scrisse pel teatro. Montalbàn afferma che le commedie furono più di mille ottocento, e che unite à los autos sacramentales, e ad altre picciole farse ascendono a duemila e dugento i componimenti scenici di Lope a, i quali quasi tutti ebbe il piacere di veder rappresentare o di udire che per le Spagne si rappresentavano.

Egli componeva quasi estemporaneamente tutte le sue opere, e specialmente le commedie, essendo solito a scriverne una in due soli giorni. Alla qual cosa conferì appunto quell’essersi sottratto alle regole del verisimile. Ma dotato di molto ingegno, di vasta fantasia e di eloquenza, per mezzo di una versificazione armonica e seducente, e della multiplicità degli eventi e delle cose più che maravigliose, cercò d’impadronirsi de’ cuori, e secondare, com’egli diceva, il gusto del volgo e delle donne, per la cui approvazione trionfava in Ispagna l’anarchia teatrale.

Con tutto ciò il Nasarre volle a gran torto avvilire il merito di Lope. Egli si scatena contro di questo poeta come il primo corruttore del teatro, e la corruzione suppone uno stato precedente di sanità e perfezione. Ma qual era il teatro spagnuolo prima di Lope? Dopo le commediette della figlia del ferrajo e i colloquii pastorali di Lope de Rueda, venne tosto il Naarro di Toledo introduttore di battaglie e duelli, cose aliene dalla poesia comica, le quali dimostrano con evidenza che sull’incominciare i comici si rivolsero ad un nuovo sistema che confondeva i generi. Seguì Cervantes a lavorare sul medesimo, per quel che appare non solo dalle ultime otto commedie che egli produsse, ma da qualche titolo delle prime perdute, come la Destruicion de Numancia, la Batalla Naval, la Jerusalèn, I poeti scenici poi lodati dal medesimo Cervantes tutti scrissero sregolatamente. Lope dunque ebbe ragione di dipingere a’ suoi in tal guisa il teatro patrio:

Hallè que las comedias
Estaban en España en aquel tiempo,
No como sus primeros inventores,
Mas como las trataron muchos barbaros,
Que enseñaron el vulgo à sus rudezas;
Y asi se inroduxeron de tal modo,
Que quien con arte agora las escribe,
Muore sin fama y galardòn.

A parlar dunque senza preoccupazione egli trovò che altri l’avea preceduto nell’avvezzare il volgo alle stravaganze. Egli il disse in faccia all’Accademia Spagnuola che allora fioriva in Madrida:

Mandanme, ingenios nobles, flor de España,
Que en esta junta y Academia insigne ecc.

E chi di que’ chiari individui che la componevano potè smentirlo? Trovò dunque il teatro già corrotto sin dall’immediato successore del Rueda; ed essendosi poi la commedia spagnuola sempre attenuta a tal sistema, ben possiamo dire che nacque da semi originariamente pontici e silvestri, la qual cosa non piacque al Lampillas nemico della storia.

I drammi di Lope consistono in commedie, tragicommedie, pastorali, tramezzi ed atti sacramentali, tutti in versi, a riserba della Dorotea già nominata voluminosa novella in dialogo scritta in prosa per leggersi e non per rappresentarsi. Tralle commedie si contano ancora quelle che trasse o dalla Sacra Scrittura, come la Creacion del Mundo y primer culpa del hombre in cui discende sino ai fatti di Caino e alle invenzioni di Tubalcain, ovvero dalle Vite de’ santi, come El Animal Profeta, in cui san Giuliano fugge dalla patria, come fece Edipo, per non ammazzare i genitori, secondo la predizione di una cerva che parla, e che va in una terra lontanissima, ove appunto per errore gli uccide. Nelle commedie dette di spada e cappa egli dipinse bene i costumi, se non che talvolta esagerò oltre i confini naturali per far ridere, come si scorge in alcuni tratti della Dama Melindrosa, Nelle opere che ci lasciò, s’incontrano dodici componimenti col titolo di tragicommedie, le quali punto non differiscono da quelle che chiamò commedie. Altre sei delle sue favole volle denominar tragedie, cioè el Duque de Viseo, Roma abrasada, el Castigo sin venganza, la Bella Aurora, la Sangre inocente, el Marido mas firme. Ma perchè le disse tragedie? In esse, oltre a i soliti difetti circa le unità e lo stile, vedesi la stessa mescolanza di compassione e di scurrilità che regna nelle altre sue favole.

Molti sono i drammi di Lope destinati a celebrare il Mistero sacrosanto dell’Eucaristia con feste teatrali intessute d’ invenzioni allegoriche. Io non so come varii nazionali a voce ed in iscritto poterono di tali feste attribuir l’invenzione al Calderòn a, quando non s’ignora che tante Lope ne compose a.

Quanto all’origine di questi Atti sacramentali l’erudito bibliotecario Nasarre vorrebbe trarla da’ canti de’ pellegrini che andavano al sepolcro di san Giacomo in Galizia, de cuya costumbre quedaron las oraciones de ciegos, y los Autos que llaman Sacramentales, ò por mejor decir la interpretacion comica de las Sacradas Escrituras . Ma questo è incominciar dalla morte di Meleagro e dagli elementi senza passare a mostrar come e quando quelle cantilene de’ pellegrini convertite si fossero in poesia teatrale, prendendo indi per oggetto l’Eucaristia.

Potrebbero gli Atti Sacramentali metter capo nelle mascherate e rappresentazioni e farse introdotte nelle chiese spagnuole, come altrove, dalle quali vennero indi escluse da’ Concilii e dagli sforzi de’ pontefici. Ma niuno indizio si ha che nel corso del XV secolo quelle farse spirituali avessero tolto per argomento l’Eucaristia ed il titolo di Atti Sacramentali. Imperciocchè se ciò apparisse, il Nasarre tutto dedito ad avvilire il merito teatrale di Lope e di Calderòn, non avrebbe tralasciato di notarlo.

Io son d’avviso che ne abbiano risvegliata l’idea le mute rappresentazioni delle più solenni festività sacre qual è quella del Corpus Domini. In essa sino all’anno 1772 in Madrid e per la Spagna tutta sono intervenuti nelle processioni non solo sonatori mascherati e danzantes (che nel tempo della mia dimora colà l’hanno sempre accompagnate) ma una figura detta Tarasca, simbolo a quel, che dicevasi, della gentilità o dell’eresia, che seguiva la processione in un carro, e quattro Gigantones figure colossali allusive alle quattro parti della terra, nelle quali si è il gran mistero propagato. Or siccome in tal festività soltanto mostravansi senza parole συνθηματα, i segni allusivi al mistero, per le strade, per le quali passava la processione, così poi per le medesime strade prevalse il costume di render parlanti que’ segni, e di recitarsi los Autos Sacramentales durante l’ottava del Corpus. In fatti l’Antonio nella Biblioteca Ispana moderna parlando di Lope de Vega e degli Autos da lui composti, dice, quos in die Corpus Domini sub dio recitari mos est in Hispania . Ciò io ho potuto rilevare con fondamento, nè altro scrittore nazionale prima di me mi ha sugerito nè cosa più ragionevole nè questo che io ho indicato a. Ma passiamo agli altri drammatici che fiorirono sul finir secolo XVI e sull’incominciar del seguente.

Molti contemporanei del Cervantes e del Vega coltivarono la drammatica senza discostarsi da’ principii dell’ Arte Nuevo, cioè lambiccandosi il cervello in lavori sregolatissimi con istile affettato e capriccioso e sommamente disdicevole al genere scenico. Cervantes nominò con molta lode il dottor Ramòn, forse dopo del Vega il drammatico più fecondo ed oggi il più dimenticato. Esaltò indi le favole artificiose di Miguèl Sanchez commendato anche distintamente da Lope. Loda pure Cervantes la gravità dello stile di Antonio Mira de Mescua andaluzzo di Guadix che compose varii volumi di commedie sotto Filippo III, fralle quali los Carboneros de Francia favola assai bene accolta in teatro. Non si dimenticò Cervantes di Guillèn de Castro valenziano o di origine o di nascita, encomiandolo per la dolcezza dello stile. Le commedie di costui si pubblicarono in Valenza, ma più non si rappresentano, ad eccezione di quella intitolata Mocedades del Cid, le gesta giovanili del Cid, che io vidi di tempo in tempo sulle scene. Probabilmente sarebbe questo scrittore rimasto confuso tralla turba de’ drammatici oscuri senza la felice imitazione del Cid fatta da Pietro Corneille. Egli compose una seconda favola De las Mocedades del Cid, la quale impropriamente portò questo titolo, sì perchè vi s’introduce il Cid già vecchio nè si tratta delle di lui imprese giovanili, sì perchè le azioni di questo componimento si aggirano sulle fraterne contese de’ figliuoli del re Fernando, nelle quali assai accessoriamente anzi ozio samente interviene il Cid. Ottennero anche distinte lodi dal Cervantes l’eloquenza e la dottrina del Tarraga, l’acutezza d’Aguilar, di Antonio Galarza e di Gaspar de Avila scrittore di non poche commedie.

Ma nè da lui nè dal Vega si fece menzione del dotto toledano Giovanni Perez professore di rettorica ammirato da varii letterati Spagnuoli e dal nostro rinomato Andrea Navagero. Il Perez benchè mancato immaturamente di anni trentacinque, avea col nome latinizzato di Petrejo acquistata molta fama pe’ suoi pregevoli versi latini. Quattro commedie Italiane furono da lui tradotte nel medesimo idioma, le quali dopo la di lui morte si pubblicarono da Antonio di lui fratello nel 1574 in Toledo. Il Nasarre che cercava fuori di Lope e Calderòn le glorie drammatiche della propria nazione; ed il Lampillas che faceva pompa di molte commedie per lo più cattive da lui nominate per essergli state sugerite da Madrid; ed altri che ora non vò ripetere, doveano anzi di simili erudite produzioni andare in traccia, e non attendere che uno straniero le disotterrasse. Vediamo ora se gli Spagnuoli ebbero mai vere tragedie senza veruna mescolanza comica.

Non è vero che essi non ne hanno veruna o che le loro tragedie non possono distinguersi dagli altri drammi, come abbracciando l’avviso di m. Du Perron de Castera, avanza l’avvocato Linguet nella prefazione al suo Teatro Spagnuolo. Egli crede ancora che il Vega non ebbe idea della vera tragedia, e pur nel di lui Arte Nuevo si trovano ben distinti i componimenti di Terenzio e di Seneca. Egli afferma parimente di non aver veduto in Madrid rappresentare tragedia alcuna; e dirà vero. Io però in diciotto anni che dimorai in quella corte, ben posso attestare di averne vedute diverse. Ecco per ora le tragedie spagnuole del secolo XVI. Oltre delle latine del portoghese la Cruz, e della Castro del Ferreira già riferite, io ne conto altre dodici di cinque letterati Spagnuoli. Vuolsi avvertire però che fra questi io non pongo quel Vasco Diaz Tanco de Fregenal, che altri leggermente pretese che avesse scritte tragedie prima de’ suoi compatriotti e degl’istessi Italiani. Nasce tosto al nominarlo la curiosità di sapere dove mai si trovino le tragedie di questo Vasco, e se furono impresse ovvero rimasero inedite. Niuno le vide, nè vi è alcuno che affermi di esservi documento che avessero una volta esistito. Il solo Vasco stesso se ne vanta nel suo Giardino dell’anima Cristiana. Dice che nella sua giovanezza compose quarantotto componimenti inediti sacri, storici e morali, e che fra essi erano anche alcune tragedie di Assalone, Ammone, Saule e Gionata. Il carattere di questo Tanco fa sì che senza molto esitare si ripongano tali tragedie nelle biblioteche immaginarie. Gli stessi nazionali attestano che egli adolecia de presumido (avea il morbo della presunzione) e Nicolàs Antonio assicura che i titoli stessi degli opuscoli accennati pieni di novità e di gonfiezza dimostrano la di lui vanitàa. Si sapesse almeno quando nacque questo Tanco? S’ignora affatto. Solo ne sappiamo che viveva in tempi di Carlo Quinto: che nel 1527 scrisse un opuscolo sulla nascita di Filippo II: che nel 1547 pubblicò una traduzione della storia di Paolo Giovio de Turcarum rebus intitolandola capricciosamente Palinodia: e che nel 1552 fe imprimere il riferito suo Giardino. Ad onta di tale incertezza, con cui mal si può intentar lite di anteriorità, e ad onta del disprezzo che il dotto Nicolàs Antonio mostrò per le millanterie di Vasco, vorrebbe Agostino Montiano con quèsto Tanco di Fregenal contrastare agli Italiani l’anteriorità della tragedia; dicendo che la di lui giovanezza poteva essere intorno al 1502 (epoca, come a suo tempo credevasi nella penisola, della prima tragedia degl’Italiani) perchè non vi è specie che ripugni all’esser nato Vasco nel 1500 a; ed in questo veramente erroneo raziocinio fu il signor Montiano seguito dal Velazquez e dal compilatore del Parnasso Spagnuolo. Non si avvidero questi eruditi che un può essere in buona logica non mai produce per conseguenza un è. Del resto la storia dimostra quante altre tragedie produssero gl’Italiani assai prima del 1502 in cui si vide quella del Carretto. Nè ciò si dice perchè importi gran fatto l’esser primo, essendo i saggi ben persuasi che vale più di essere ultimo come Euripide o Racine o Metastasio, che anteriore come Senocle o Hardy o Hann Sachs.

Nè anche pongo nel teatro tragico spagnuolo quelle mille tragedie dell’andaluzzo Giovanni Malara, le quali, sull’asserzione di Giovanni de la Cueva che le mentovò in alcuni suoi versi, sognarono i moderni apologisti che esisterono e si rappresentarono verso il 1579a. Il Malara nella sua opera intitolata Philosophia vulgar b più ingenuo del suo lodatore e de’ moderni apologisti, non ci ha conservata memoria che di una sola sua tragedia intitolata Absalon; ed il signor Sedano parimente afferma che il Malara si conosce soltanto per autore de la tragedia de Absalon. Nè anche questa però può dirsi essere stata tragedia vera; perchè il medesimo Cueva confessa che le tragedie del Malara non erano scritte secondo il metodo degli antichi , ma secondo il gusto nazionale .

Dicasi la stessa cosa di poche altre tragedie accennate nel II discorso del Montiano, cioè la Honra de Dido restaurada, la Destruicion de Costantinopla, una Ifigenia, il Martirio di san Lorenzo tragedia latina rappresentata nel 1551 nel convento dell’Escurial, due altre che senza dirne il titolo si nominano dal Salas Barbadillo, e Dido y Eneas de Guillèn de Castro. Esse o non esistono, e se ne ignora perciò la natura, o non sono certamente tragedie rigorose più delle sei del Vega, e delle altre favole eroiche di tanti altri, e delle commedie del Castro pubblicate in Valenza nel 1621a. Ma venghiamo alle dodici non immaginarie tragedie spagnuole.

Due ne scrisse Fernan Perez de Oliva, però in prosa, l’Ecuba triste tradotta da quella di Euripide, e la Venganza de Agamennon tradotta dall’Elettra di Sofocle, le quali non si pubblicarono prima del 1585 in Cordova dal suo nipote Ambrogio Morales. Questo maestro de Oliva prima del 1533 dimorava in Italia; dunque (conchiude il signor Sedano), pudo ser che le componesse intorno al 1520, quando al suo dire uscì in Italia quella del Trissino; dunque (notisi la logica) gli Spagnuoli hanno avute tragedie prima degl’Italiani. Nè anche del Perez si sa l’anno in cui nacque; e solo il medesimo Sedano ne dice col solito pudo ser che nacque forse nel 1497. Ma ciò concedendo ancora il maestro Perez de Oliva con lingua di latte snodava voci indistinte e incerte orme segnava , quando si leggeva in Italia la tragedia del Carretto; e non era uscito dall’età pupillare, quando vi si rappresentava Sofonisba e Rosmunda. L’abate Lampillas vuol mostrare in prima che il Perez non era fanciullo allora, asserendo gratuitamente contro la congettura del medesimo Sedano, che egli potè nascere verso il 1494. Indi trasformando le parole del Giraldi assicura che il Trissino terminò di scrivere la sua tragedia nel 1515; e così anticipando un poco la nascita del Perez, e ritardando un poco quella della tragedia del Vicentino, e supponendo anche che il Perez scrivesse le sue traduzioni in Italia (la qual cosa da niuno si è detta e dal Lampillas non si è provata) si lusinga di rendere contemporanee le favole del Perez alle prime tragedie italiane. Vuole in oltre che l’Ecuba e la Vendetta di Agamennone non debbano chiamarsi traduzioni; ed a ciò altro non replichiamo se non che il signor Andres suo amico e compagno l’ha pure riconosciute per tali, oltre all’averle lo stesso Lampillas nel tomo II del suo Saggio chiamate ancora traduzioni. Tali in fatti esse sono, sebbene non fatte sempre da verbo a verbo, perchè il Perez tratto tratto tronca, raccorcia, contorce e peggiora gli originali, siccome trovasi provato nel mio Discorso Storico-critico articolo V. Ha però preteso il citato signor Andres che il Perez in esse talora migliora gli originali nel dialogo . Io riconosco nelle traduzioni del Perez purezza, eleganza e naturalezza; ma con pace del signor Andres io trovo non poche volte peggiorati gli originali nell’una e nell’altra traduzione, e quasi sempre illanguiditi e stravolti con pensieri falsi. Non ne ripeto qui i passi che ne ho addotti in esempio nel mentovato mio Discorso alla pag. 39 e alle seguenti. Volle pure il signor Andres asserire che il primo che abbia dato qualche saggio di un teatro de’ Greci, è stato il Perez . Ma se non si’ sa quando egli scrisse quelle traduzioni, qual fondamento ha l’asserzione del signor Andres? Il pudo ser del Sedano e la congettura del Lampillas.

Il p. Girolamo Bermudez di Galizia domenicano e catedratico di teologia in Salamanca, il quale ancor vivea nel 1589, pubblicò in Madrid nel 1577 sotto il nome di Antonio de Siloa due tragedie sulla morte d’Inès de Castro intitolandole Nise lastimosa e Nise laureada. L’autore le chiamò prime tragedie spagnuole; ma se i Portoghesi debbono aversi in conto di Spagnuoli, la Castro del Ferreira fu scritta almeno venti o trenta anni prima. S’impresse, è vero, più tardi; ma il Bermudez senza dubbio l’ebbe nelle mani, giacchè l’ha copiata nella sua Nise lastimosa. Amendue le tragedie di questo Galiziano mancano di azione e d’intrigo: abbondano amendue di lunghissimi discorsi episodici intarsiati di fregi lirici: sono amendue estremamente languide, specialmente nello scioglimento: amendue sono verseggiate con ottave, ridondiglie e sonetti, con faleucii, saffici e gliconici castigliani, e con ogni sorte di versi rimati. Ma la prima, in cui ebbe il Bermudez una scorta giudiziosa, è più interessante; e la seconda, oltre a questi difetti comuni, ne ha moltissimi altri particolari, perchè caminò tutto solo.

L’azione della prima Nise si rappresenta parte in Lisbona e parte in Coimbra come la Castro del Portoghese, sulla quale servilmente in ogni scena è condotta la Nise castigliana. Così comincia, così prosegue, così termina, copiandosene la traccia, le situazioni, i pensieri, l’espressioni. La Ianguidezza de’ primi atti (dal Ferreira evitata in parte colla passione posta ne’ discorsi d’Inès) si fa sentire assai più nella Nise per la Iunghezza di essi che raffredda le situazioni. È però lodevole la seconda scena dell’atto III ove si narra il sogno di Nise copiato con più esattezza dalla Castro; ed il signor Sedano che la lodò, non ne seppe la sorgente. Migliore ancora è la seconda del IV, che nel Ferreira a me sembra veramente tragica e ricca di espressioni nobili, naturali, patetiche e convenienti al carattere d’Inès; ed il Bermudez attenendosi all’originale partecipa di questi pregi. Tenero specialmente è il congedo ch’ella prende da’ figliuolini nell’andare a morire. Il Portoghese avea detto così:

Abrazayme, meus filhos, abrazayme.
Despedivos dos peitos que mamastes.
Este sôs foram sempre: ja vos deixam.
Ay ja vos desampara esta may vossa.
Que acharà vosso pay quando viere?
Acharvosà tem sòs sem vossa may.
Nào verà quien buscaba: verà cheas
As casas et paredes de meu sangue….
Ah vejote morrer, senhor, por mim.
Meu senhor, ja que eu mouro, vive tu.

Il Galiziano esprime lo stesso in castigliano:

Mis angelicos, abrazadme, voyme.
Ay que ya vuestra madre os desampara.
Amores, despedios de estos pechos
Que aveis mamado con dulzura tanta.
Ay quando venga vuestro padre triste
Que harà de si, que serà de vosotros?
Hallaros ha huerfanitos y señeros.
No verà à quien buscaba: verà Ilenas
Las casas y paredes de mi sangre…
Ah veote morir, mi bien, por mi.
Mi bien, ya que yo muero, vive tua.

In somma il Bermudez ha seguito il Portoghese come ombra il corpo, tutto copiandone, traducendone, fin anche i difetti e gli ornamenti soverchio lirici e i pensieri soverchio ricercati del principe addolorato per l’inaspettato ammazzamento della sua diletta sposa.

La Nise laureada consiste nel vano sollievo che sperò il principe don Pietro asceso al trono facendo coronare il cadavere della sua Castro, e prendendo aspra vendetta degli uccisori di lei. Ma questo componimento poco merita il nome di tragedia. Ancor più della prima manca di azione e di nodo, eccede assai più in discorsi prolissi, intempestivi, strani; abbonda in iscene nojose, e come afferma l’istesso Sedano, diffuse e spropositate . Il carattere del re don Pietro nobile e grandemente innamorato, in questa seconda favola apparisce fiero, violento, atroce, basso ancora ed indecente. Le persone che vi s’introducono del custode, del portinajo, del carnefice, e i plebei motteggi di quest’ultimo contro de’ rei, e lo sputar loro in faccia, sono cose tutte disdicevoli in una tragedia, e mostrano abbastanza che il Bermudez non sapeva lavorar senza maestro. La scena terza dell’atto V che rappresenta il supplicio degli uccisori di Nise eseguito alla presenza del re e degli spettatori, è affatto ridicola ed impertinente, nè degna del genere tragico è l’azione del re che gli percuote colla frusta. Strappa il boja il cuore per le spalle al primo, giusta il comando del re, e mostrandolo dice:

Tal quiero yo el carnero, aunque no como
El corazon del ave que si aturdo.

Cava al secondo il cuore dal petto, e dice:

Allà Pluton harà con tal conejo
Èsta noche la fiesta à sus amigos.

Finalmente non vi si guarda l’unità del tempo. L’ambasciadore del re di Castiglia tratta nella scena seconda dell’atto II il cambio di tre Castigliani rifuggiti in Portogallo per gli uccisori d’Inès che si trovano nella Castiglia, domandandogli

todos tres en cambio justo de aquellos enemigos que allà tienes.

Queste parole que allà tienes, indicano che que’ traditori dimorano tuttavia in Castiglia, or come possono nel medesimo dì trovarsi nell’atto IV in Lisbona, esser chiusi in carcere e tormentati, e nell’atto V giustiziati? In somma ha questa favola tali e tanti difetti, che mi parve di un altro autore, ancor quando ignorava che la prima fosse una semplice copia o traduzione, malgrado dell’uniformità che si scorge nello stile e nella versificazione di entrambe. Contuttociò il signor Linguet avrebbe ben potuto ravvisare almeno nella prima (fosse copia ovvero originale) una tragedia spagnuola, e la sorgente della Inès di m. La Mothe.

Tralle commedie del sivigliano Giovanni de la Cueva impresse nel 1588 trovansi quattro altre tragedie, i Sette Infanti di Lara, la Morte di Ajace, la Morte di Virginia e di Appio Claudio, il Principe Tiranno. Noi le riconosciamo per tragedie, ma ci rapportiamo su di esse alla censura del nazionale Montiano. Nella prima, ei dice, si trasgrediscono le regole delle unità: nella seconda si pecca contro il verisimile: nella terza le azioni principali sono due: nell’ultima è fantastico e fuor di natura il carattere del protagonista. Ciò vuol dire che sono tragedie, ma difettose. Nega questi difetti il Lampillas, e strepita contro del Montiano e del Signorelli; ma le di lui repliche si trovano abbastanza combattute e confutate nell’articolo VI del mio Discorso Storico-critico. Quì dirò soltanto che il Lampillas in panto di poesia drammatica si è accreditato di poco intelligente non solo colle sue critiche, ma colla scelta che fece di alcune commedie assai deboli e difettose, mentre voleva far menzione delle migliori della nazione; là dove l’avviso del Montiano a suo confronto ha troppo gran peso, tra perchè ne’ suoi Discorsi questo spagnuolo mostrò saviezza, intelligenza e sobrietà, traperchè come autore di due tragedie ben condotte, in simili esami è giudice competente.

Di un’ altra tragedia intitolata los Amantes composta da Andrès Rey de Artieda e impressa in Valenza nel 1581, favellano Nicolàs Antonio e l’ab. Eximeno; ma i più intelligenti nazionali la conoscono soltanto per tradizione, nè sono io stato più felice nel ricercarla.

Il buon poeta Luperzio Leonardo de Argensola nato nel 1565, essendo nell’età di venti anni compose tre tragedie l’Isabella, la Filli e l’Alessandra, le quali si rappresentarono con gran concorso e vantaggio de’ commedianti. Sono state sepolte sino a’ nostri giorni, e la Filli si occulta ancora; ma le altre due si pubblicarono nel VI tomo del Parnasso Spagnuolo, in cui se ne dà un giudizio imparziale. Lo stile è fluido e armonioso, benchè non sempre proprio per la poesia drammatica; ma il piano, i caratteri, l’economia, tutt’altro in fine abbonda di grandi e molti difetti; nè so in che mai Cervantes avesse fondati i suoi esagerati encomii. Reca stupore che uno scrittore che nel ragionar sulle composizioni drammatiche dimostrò gusto e senno, le avesse riguardate come modelli da proporsi ad esempio. Reca stupore ancor maggiore che il Lampillas ad onta della saggia censura del Sedano non avesse compresi gl’inescusabili difetti dell’Isabella, anzi sfidando le fischiate e gli scherni dell’Europa intera l’avesse posta in confronto colla Zaira; cosa piacevole e comica per ogni riguardo, non altrimenti che se si mettessero le pitture cinesi a fronte delle tavole del Correggio. La moltiplicità delle azioni, tutte le persone principali e subalterne innammorate, le bassezze sconvenevoli alla tragica gravità, la strage di dieci persone che rendono la favola atroce, dura, violenta, le inesattezze circa le unità, la varietà di tanti metri rimati, le lunghe ricercate comparazioni liriche rigottate dalla poesia scenica, una macchina inutile allo scioglimento, cioè lo spirito d’Isabella che appare unicamente per congedare l’uditorio con un sonetto; tutto ciò forma un cumulo di difetti tanto manifesti nell’Isabella, che bisogna essere molto preoccupato per non avvedersene; ed il Lampillas non se ne avvide, ed a me convenne additarglieli nel citato Discorso Storico-critico.

Ma se tanti e sì grandi sono i difetti dell’Isabella, quelli dell’Alessandra vincongli di numero e di qualità. Molte sono le azioni: di undici interlocutori ne muojono nove: bassi e indecenti, sono i caratteri di Acoreo e di Alessandra: le atrocità si espongono alla vista dell’uditorio: le membra di Luperzio, il cuore, il sangue si presentano ad Alessandra, che è obbligata a lavarsi in quel sangue: i nomi stessi de’ personaggi sono in competenti: Luperzio, Remolo, Ostilio, Fabio non convengono ad Egiziani: lo stile s’inalza fuor di tempo in bocca del Nunzio, e si deprime in bocca di Alessandra e di Acoreo ecc. ecc.

Da questo racconto giustificato dalla ragione, da’ fatti e dall’autorità di eruditi nazionali, si ricava che gli Spagnuoli nel XVI secolo più di ogni altro popolo si appressarono agl’Italiani. E se non ebbero nella commedia Ariosti, Machiavelli, Bentivogli, Dovizii, Cari ed Oddi, e nella tragedia Trissini, Rucellai, Giraldi, Alamanni, Tassi e Manfredi, possono pregiarsi di aver prodotti nel Vega, nel Castro, nel Sanchez, nel Mira de Mescua più di un Shakespear, e nel Cueva, nel Ferreira, nel Perez, e nello stesso Bermudez tuttochè convinto di vergognoso plagio, alcuni pochi tragici non indegni degli sguardi del pubblico.