(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO IX. Teatro Spagnuolo del secolo XVIII — CAPO II. Commedie: Tramezzi. » pp. 68-88
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(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO IX. Teatro Spagnuolo del secolo XVIII — CAPO II. Commedie: Tramezzi. » pp. 68-88

CAPO II.
Commedie: Tramezzi.

I.
Commedie.

Quanto più siamo persuasi della sagacità dell’ingegno spagnuolo nel trovar nelle cose il ridicolo, come altresì dell’eccellenza della ricchissima lingua di tal nazione che si presta con grazia e lindura alle festive dipinture de’ costumi, tanto maggior maraviglia ci reca il veder in quelle contrade sì negletta la buona commedia in questo secolo, in cui anco nel settentrione vanno sorgendo buoni imitatori di Terenzio, Machiavelli, Wycherley e Moliere.

Non possiamo rammemorare senza ribrezzo tra’ comici scrittori nella prima metà del secolo altri che Giuseppe Cañizares sebbene motteggiato da’ satirici del suo tempo come cattivo verseggiatore. Seguitando il sistema de’ passati drammatici egli scrisse commedie sregolate ma dilettevoli per la buffoneria e prossime alla farsa. La farsa però non è mica opera spregevole o facile. L’esperienza giornaliera dimostra che per mille drammatici che tesseranno tragedie regolate ma insipide destinate a morire il dì della loro nascita, a stento se ne incontrerà uno che sappia comporre una farsa piacevole atta a resistere agli urti del tempo, come son quelle di Aristofane o di Moliere. Le favole del Cañizares da me vedute ripetere in Madrid sono: el Honor dà entendimiento, el Montañès en la Corte, el Domine Lucas. Nella prima si dipinge una specie di Cimone del Boccaccio, il quale non per amore ma per onore diviene scaltro, cangiamento che si rende verisimile per la durata dell’azione di più mesi. Nella seconda si fa una piacevole pittura locale della vanità degli abitatori delle Asturie, i quali si tengono per nobili nati, ed ostentano la loro executoria ossia carta di nobilità in ogni incontro. Il titolo del Domine Lucas è tolto da una commedia di Lope de Vega che ebbe luogo nel Teatro Spagnuolo del Linguet; ma la favola del Cañizares è assai più piacevole, ed è la sola che con tal titolo comparisce su quelle scene. Il Domine Lucas è uno studente delle montagne Asturiane sommamente goffo ed ignorante, ed il di lui zio che esercita l’avogheria, non è meno ridicolo. Ha costui due figliuole, la prima delle quali vorrebbe dare a Don Lucas il quale però ama l’altra sciocca e semplice al pari di lui. Aumenta il ridicolo del carattere di Don Lucas il capriccio di voler fare esperienza di Leonora a lui promessa, e prega un suo amico che è di lei occulto amante, a fingere di amarla, e gliene dà tutto l’agio.

Il primo che abbia osato pubblicare in Ispagna una commedia senza stravaganze fu l’autore di una buona Poetica Spagnuola Ignazio Luzàn. Diede egli nel 1751 alla luce in Madrid sotto il nome del Pellegrino una giudiziosa traduzione in versi coll’ assonante del Pregiudizio alla moda di M. La Chaussée intitolandola la Razon contra la moda.

L’avvocato Nicolàs Fernandez de Moratin già lodato fra’ tragici si provò anche nel genere comico, e nel 1762 impresse la sua Petimetra, nella quale, ad onta di una buona versificazione, della lingua pura, e della di lui natural vivacità e grazia, riuscì debole nel dipingere la sua Doña Geronima e sforzato ne’ motteggi, e cadde in certi difetti ch’ egli in altri avea ripresi. Ne scrisse poi un’ altra col titolo El ridiculo DonSancho che rimase inedita. Essendosi compiaciuto l’autore di permettermene la lettura, vi ammirai pari armonia nella versificazione e felicità di locuzione, ma parvemi priva di energia e d’interesse nella favola e nel costume.

Nel Saggio teatrale del sig. Sebastian y Latre uscì anche una riforma del Parecido en la Corte, in cui l’ autore procurò di guardare le unità, ma non ritenne le grazie dell’ originale,

Nel 1770 uscì in Madrid una commedia intitolata Hacer que hacemos, cui noi potremmo dar il titolo di Ser Faccendone. L’autore a me ignoto si occultò sotto il nome anagrammatico di Don Tirso Ymareta. L’inazione di questa favola si chiude in un giorno con particolare nojosità. L’autore avea in mente un embrione accozzato di molti tratti ridicoli di un uomo che vuol mostrarsi affaccendato, ma gli mancò la necessaria sagacità nella scelta de’ più teatrali, nel dar loro la dovuta graduazione, nell’ incatenarli ad un’ azione vivace, e nel prestare alla sua commedia interesse e calore24.

Tutte le altre favole pubblicate nella penisola sino a questi ultimi anni sono tali che ci rendono preziose le stravaganze del passato secolo. E quando mai nel tempo del Calderone venne fuori una favola più mostruosa del Koulicàn di un tal Camacho? Quando si videro più sciocche fanfaluche di quelle che portano il titolo di Marta Romorandina mostruosità insipidissime di trasformazioni e magie, che nella state del 1782 per più di un mese si recitarono con maraviglioso concorso ogni giorno? Quando si tradussero ottimi drammi forestieri più scioccamente di quello che Don Ramòn La Cruz ed altri simili poetastri fecero del Temistocle, dell’Artaserse, del Demetrio, dell’Ezio, dell’Olimpiade deteriorate da per tutto e segnatamente imbrattate coll’ introdurvi il buffone? Quando ne’ secoli più rozzi d’ogni nazione si sono poste in iscena favole più incondite di quelle rappresentate in Madrid dal 1780 inclusivamente sino al carnevale del 1782 della Conquista del Perù, del Mago di Astracan, del Mago del Mogol? Io non ne nomino i meschini autori per rispettar la nazione; ma probabilmente essi troveranno ricetto nella Biblioteca del Sampere per morire in coro in siffatto scartabello, di cui in Ispagna altri già più non favella se non che il proprio autore.

Gli ultimi anni però si sono composte in Madrid quattro commedie, benchè non se ne sia rappresentata che una sola, le quali meritano di conoscersi. Due di esse scritte sin dal 1786 non hanno veduta la luce delle stampe; due altre si sono impresse nel 1786 e 1788.

Appartengono le inedite a Don Leandro Fernandez de Moratin di Madrid degno figliuolo del prelodato Don Nicolas da cui ha ereditato l’indole poetica, l’eleganza e la grazia dello stile, la dolcezza del verseggiare e la purezza del linguaggio. S’intitola l’una el Viejo y la Niña (il Vecchio e la Fanciulla) e l’altra la Mogigata, che tra noi può intitolarsi la Bacchettona, trattando di una donna che si fa credere chiamata a monacarsi.

Un perverso tutore (ecco il soggetto della prima) a condizione di non essere astretto a dar conto dell’amministrazione de’ beni d’Isabella sua pupilla che conta poco più di tre lustri, la sacrifica facendola sposa di un vecchiaccio caduco, mal sano, rantoloso che ne ha passati quattordici, ed ha atterrate tre altre mogli. Ella amava un giovanetto suo uguale che era andato in Madrid, e per vincerla le vien dato a credere con false lettere ch’egli abbia colà preso moglie. Si conchiude l’inegualissimo matrimonio, e dopo due o tre settimane arriva l’amante e trova Isabella sposata a Don Rocco suo corrispondente, in casa di cui viene ad albergare. La virtù e la passione della fanciulla sono a cimento. Egli si determina a partire e gire in America. Ella sente il tiro di leva, sviene, e ripigliati i sensi obbliga Don Rocco con mille ragioni a consentire che vada a chiudersi in un ritiro. Questa commedia è nel buon genere tenero ed insinua l’avversione alle nozze disuguali di una fanciulla di quindici a venti anni con un vecchio che ne ha scorsi più di settanta. Il giudizio, la regolarità, la morale, la delicatezza delle dipinture, la versificazione e la locuzione eccellente, ne formano i pregi principali. Merita ben di essere dagli esteri conosciuta, singolarmente per le seguenti cose: per le piacevoli scene di Don Rocco col suo domestico Muñoz; per quelle d’Isabella col suo amante, e spezialmente per la 12 dell’atto I, e l’11 del II; per l’angustia d’Isabella astretta dal vecchio a parlare all’amante mentre egli da parte ascolta ed osserva, che benchè non nuova produce tutto l’effetto; per quella in cui Isabella ode il tiro di leva del vascello nel quale è imbarcato l’amante; e finalmente per l’aringa eccellente d’ Isabella, in cui svela i secreti del suo cuore al marito, detesta l’ inganno del tutore, assegna le ragioni di non aver ella parlato chiaro, rifondendone la cagione all’educazione che si dà alle donne onde si avvezzano alla dissimulazione. Piacemi di tradurre per saggio buona parte della dilicata scena 11 dell’atto II:

Isab.

Vien gente . . . oimè! Desso è che viene! io vado . . .
Misera che farò? Veder nol voglio.

Gio:

Isabella?

Isa.

Se amore o gentilezza
Quì vi scorge, o signor, per congedarvi,
Il ciel vi guardi e vi conduca (aimè!)

Gio:

A dirti io vengo sol . . .

Isa.

Sì che ten vai,
Lo so: va pur, te lo consiglio io stessa,
Vanne crudel: se hai tu valor bastante
Per eseguirlo, anch’io, se pria non l’ebbi,
Tanto or ne avrò per affrettar co’ prieghi
L’infausto istante:

Gio:

Ah che non sai qual pena . . .

Isa:

Eh sì, quanto io ti debba io non ignoro,
So . . . parti, fuggi, lasciami morire ..
Ma infin ten vai? ma certo è dunque? è certo?
Dopo un sì fido amor, dopo tant’anni,
Dopo tante speranze, ecco qual premio
Ci preparò la sorte! Ah l’amor mio
Ciò meritò?

Gio:

L’ho meritato io forse?
Ingrata donna e che facesti mai?
Per te, per te ... tu la cagion tu sei
D’ogni tormento mio! Qual fu la tua
Facilità crudel! Dunque ha potuto.
In breve ora un rispetto una violenza
Astringerti a disciorre il più bel nodo
Fatto per man d’amor, dal tempo stretto?
Oh tempo! oh lieti dì! te ne rammenti?
Ti rammenti, Isabella ...

Isa.

Io vengo meno ...

Gio:

Quando di nostra sorte appien contenti
D’un innocente amor dolci gustammo
E teneri momenti! La strettezza,
Il concorde voler, l’etade, il genio,
Gli scherzi, i finti sdegni . . .

Isa.

Ah tu m’uccidi!

Gio:

Un motto, un guardo tuo, qualche sospiro
Era de’ voti miei gloria e misura.
Tutto è finito! S’io t’amai, se un tempo
Ci amammo, un’ ombra or ne rimane, un sogno.
D’un vil cedesti agli artifizj indegni!
Vana illusione e gelosia fallace
In te si armaro del mio amore a danno!
Fralezza femminile!

Isa.

Il cuor mi scoppia;
Tardi ne piango.

Gio:

Tardi, è ver; la morte
Terminerà il mio male.

Isa.

Il ciel nol voglia.
Io, sì, ne morirò, che in me non sento
Valor per tante pene; ahi sventurata!

Gio:

Addio mio ben, non ci vedrem più mai,
Lungi da te cercherò climi ignoti.
Tu la memoria almen di tanto affetto
Serba, mia cara; altro da te non bramo.
Amami, pensa a me; forse ristoro
Troverò al mio dolore, immaginando
Che una lagrima almen, qualche sospiro
Potrò costare alla beltà che perdo!

Più piacevolezza, più forza comica scorgesi nella Mogigata, i cui caratteri sebbene non tutti nuovi veggonsi delineati con circostanze proprie a svegliare l’attenzione perchè tratte con garbo dal puro tesoro della natura. Due coppie di personaggi dissimili, cioè due fratelli e due cugine in continuo contrasto, danno acconcio risalto non meno alla moralità che al ridicolo. Nè due fratelli vedesi l’immagine degli Adelfi di Terenzio. Don Martino simile a Demea burbero, difficile, avaro, intrattabile, rileva la sua figliuola Chiara con tanta asprezza che ne altera l’indole e la rende falsa e bacchettona. Don Luigi simile a Mizione nella dolcezza ma con più senno indulgente, e più felice ancora nel frutto delle sue cure paterne, educa la sua Agnese con una onesta libertà, la forma alla virtù, alla sincerità, alla beneficenza. Trionfa la gioviale ragionevolezza di Don Luigi e l’amabile franchezza di Agnese al confronto dell’aspro e tetro umore di Don Martino e dell’ipocrisia di Chiara. Ma questi caratteri disviluppandosi con maestrevole economia lasciano alla bacchettona il posto di figura principale nel quadro ossia nell’azione che consiste nel discoprimento della di lei falsa virtù e santità, per mezzo di un tentato matrimonio clandestino. Discostandosi questa favola dalla precedente nella sola specie ne conserva i pregi generali della buona versificazione, del buon dialogo, della regolarità, della grazia e del giudizio. Lodevoli singolarmente nell’atto I sono: la prima scena in cui si espone il soggetto, si dipingono i caratteri, e si discopre con senno la sorgente della simulazione di Chiara: le due seguenti ove si manifesta il carattere leggiero, stordito e libertino di Claudio gli artifizj dell’ astuto Pericco proprj della commedia degli antichi ed accomodati con nuova grazia a’ moderni costumi Spagnuoli. Anima l’atto II un colpo di teatro che rileva l’ipocrisia di Chiara e la vera bontà di Agnese, perchè quella, per discolparsi di un suo errore, all’arrivo di suo padre prende il linguaggio melato degl’ ipocriti e fa credere col pevole la cugina. Nell’atto III son da notarsi le seguenti cose: un altro colpo di bacchettona allorchè Chiara parlando delle sue nozze clandestine con Pericco, si accorge che viene il padre, e senza avvertirne il servo muta discorso, dicendo, io volea mettermi tralle cappuccine per meritare con una austerità maggiore più gloriosa corona, ma bisogna obedire al padre: la scena in cui Don Luigi vorrebbe che ella si fidasse di lui e gli dicesse se inclini allo stato conjugale, ed ella punto non fidandosi continua sempre col tuono di bacchettona: l’artificio con cui si prepara lo scoglimento colla mutazione che fa un parente del suo testamento. Egli volea lasciar Chiara erede del suo, ma sapendo che si faceva religiosa, fa la sua disposizione a favore di Agnese e muore. Ciò forma la disperazione ed il castigo dell’avido Don Martino, di Claudio e di Chiara. Tutto per essi è sconcerto, amarezza, disperazione, quando Agnese pietosa e magnanima intercede per la cugina da cui era stata offesa, promette di rinunziarle i beni ereditati per non lasciarla cadere nella miseria, e la riconcilia col padre. Questo scioglimento interessante è accompagnato da una felice esecuzione. Noi ne tradurremo soltanto uno squarcio. Vada (dice della figlia l’ irato Don Martino) vada da me lontana, viva infelice, sappia a quante disgrazie la soggetta il pessimo suo procedere. Ma Agnese in questa guisa esprime i benefici suoi concetti:

No non fia mai che la disgrazia io vegga
Di mia cugina, e non la senta io stessa
Nel più vivo del cuore. Amato Padre,
Poichè appresi da te le altrui sventure
A deplorar, ed a mostrar con fatti
Non con parole una pietà verace,
Concedimi (e ben so che me ’l concedi)
Ch’io le porga la man: misera, errante,
Abbandonata io la vedrò, nè seco
Dividerò i miei beni? Ah no, detesto
Una ricchezza sterile che il numero
Degli oppressi non scemi. Oggi assicuri
Legittimo contratto in suo favore
Quanto a lei cedo: un generoso amplesso
Del padre suo i dubbj miei disgombri,
E a tutti il suo perdon renda la calma.
Deh piaccia al ciel, cugina, che tu vegga
Dal sincero amor mio rassicurata
La tua felicità, giacchè vi prende
Tanta parte il mio cuor, ch’esser non voglio
Felice io stessa, se non sei tu lieta.

Queste due commedie bene scritte di un giovane poeta pieno di valore e di senno, le quali secondate potrebbero formare una fortunata rivoluzione nelle scene ispane, non si sono accettate da’ commedianti di Madrid. Io converrei seco loro per la seconda fino a tanto che l’autore non vi sfumasse certe tinte d’ipocrisia troppo risentite, onde per altro ben s’imita l’abuso che fanno i falsi divoti delle pratiche e dell’espressioni religiose. Ma perchè intanto non rappresentar la prima? Ciò che in Italia nuocono alle belle arti le mignatte periodiche e gli scarabocchiatori di ciechi Colpi d’occhio, nuoce all’avanzamento del teatro spagnuolo la turba degli apologisti ed il Poetilla che tiranneggia i commedianti nazionali.

Le altre due commedie impresse appartengono a Don Tommaso de Yriarte autore di altre note produzioni letterarie. S’intitolano el Señorito Mimado, ossia la Mala Educacion, e la Señorita Mal-criada, impresse nelle opere dell’ autore, e poi separatamente nel 1788, argomenti felicemente scelti per instruire e dilettare.

La prima si rappresentò in Madrid nel Coral del Principe nel 1788, e piacque. La dipintura di un giovane educato con moine e carezze senza verun freno da una madre debole e compiacente, e cresciuto senza virtù e abbandonato alla leggerezza e al libertinaggio, dovè interessare per gli effemminati sbalorditi originali di tal dipintura, i quali abbondano nelle società culte e numerose. I caratteri di Don Mariano mal educato, della Madre che chiama amor materno la cieca sua condiscendenza, di Donna Monica venturiera che si finge dama e serve di zimbello in una casa di giuoco, sono comici ed espressi con verità e destrezza. Conveniente è quello di Don Cristofano tutore e zio del Signorino accarezzato, che si occupa a riparare gli sconcerti della famiglia. Sono figure subalterne ed alcuna volta fredde D. Flora, D. Alfonso, e D. Fausto. D. Taddeo trapalon che esce una sola volta nell’ultimo atto, è un ritratto degli antichi sicofanti. La favola consiste nel discoprimento e nella punizione di D. Monica e nell’esiglio di D. Mariano per essere stato sorpreso in un giuoco proibito, che porta in conseguenza il dolore della madre ed il matrimonio che non interessa di Flora con Fausto. L’azione è condotta regolarmente, con istile proprio della scena comica, e colla solita buona versificazione di ottonarj coll’ assonante. Alcuno troverà soverchie le operazioni della favola nel periodo che si racchiude dall’ ora di sesta all’annottare. Il trage de por la mañana di D. Mariano indica ch’egli venga a casa prima dell’ora del pranso; e se egli non ha desinato in sua casa, non faceva uopo dirsene un motto? La venuta di D. Monica nell’atto III in casa di D. Cristofano dopo essere stata ravvisata per una ostessa Granatina, sembra poco verisimile, e con un solo di lei biglietto poteva invitarsi D. Martino al giuoco e rimetterglisi le lettere falsificate di Fausto e Flora. Soprattutto vi si desidererà più vivacità, ed incatenamento più necessario ne’ passi dell’azione. Noi facciamo notare tralle cose più lodevoli di questa favola le origini della corruzione del carattere di D. Mariano indicate ottimamente nella 2 scena dell’ atto I: la di lui vita oziosa descritta da lui stesso in pochi versi nella 7 del medesimo atto25: l’incontro comico della 13 dell’atto II di D. Monica dama riconosciuta per Antonietta di Granata ed i di lei artificj per ismentir D. Alfonso.

Gettata sul conio della precedente è la Señorita Mal-criada impressa e non rappresentata, in cui si descrive una fanciulla ricca guasta dall’educazione di un padre spensierato, come nell’altra è una madre tale che corrompe il costume del figliuolo: vi si vede una D. Ambrosia vedovetta trincata di dubbia fama, che alimenta nella Pepita capricciosa, impertinente, intollerante, tutte le dissipazioni della gioventù senza costume, e fomenta la di lei sconsigliata propensione per un vagabondo ciarlatano; come nell’altra favola D. Monica contribuisce alla ruina di D. Mariano: D. Eugenio onorato cavaliere che ama Pepita e vorrebbe correggerne i difetti, equivale all’ innamorato Fausto: D. Basilio che fa riconoscere nel finto Marchese un vero truffatore di mestiere, corrisponde a D. Alfonso, per cui è scoverta la falsa dama dell’altra favola. Il viluppo e lo scioglimento di questa è fondato, come nella precedente, nell’artificio di due finte lettere. La critica che tende alla perfezione delle arti, potrebbe suggerire che meglio forse risalterebbero gli effetti della pessima educazione di Pepita, se la di lei Zia si mostrasse meno pungente in ogni incontro, e D. Eugenio innamorato meno nojoso, che ostenta sempre una morale avvelenata da un’ aria d’importanza e precettiva: che egli non dovrebbe continuare nè a moralizzare nè a corteggiar Pepita promessa ad un altro, a cui il padre ha già contati diecimila scudi per le gioje: che Pepita in tali circostanze non dovrebbe nell’atto II innoltrarsi in una lunga e seria conferenza deliberativa col medesimo e con la Zia: che il carattere di Bartolo portato a tutto sapere e tutto dire non dovrebbe permettergli di tacer come fa in tutta la commedia l’ importante secreto della finta lettera posta di soppiatto in tasca di D. Eugenio, che egli non ignora sin dall’atto I: che in una favola che l’autore vuol far cominciare di buon mattino e terminar prima di mezzodì, non pare che possano successivamente accadere tante cose, cioè diverse conversazioni riposatamente, consigli, trame, deliberazioni, una scena di ricamare in campagna, un giuoco di tresillo, indi un altro di ventuna, ballo, merenda, accuse contro D. Eugenio e D. Chiara, discolpe, arrivo di un nuovo personaggio &c. Checchessia però di tutto ciò la favola merita molta lode per la regolarità, per lo stile conveniente al genere, per l’ottima veduta morale, per le naturali dipinture de’ caratteri di Pepita, D. Ambrosia, D. Gonzalo e del Marchese, nel quale con molta grazia si mette in ridicolo il raguettismo di coloro che sconciano il proprio linguaggio castigliano con vocaboli e maniere francesi, del cui carattere diede in Ispagna l’esempio il rinomato autore del Fray-Gerundio.

II.
Tramezzi.

Itramezzi che oggi nelle Spagne si rappresentano nell’intervallo degli atti delle commedie, o sono alcuni antichi entremeses buffoneschi di non molti interlocutori che continuano a recitarsi per lo più dopo l’atto I, o sono sainetes 26, favolette più copiose di attori e più proprie de’ tempi presenti, perchè vi si dipingono i moderni costumi nazionali, e se ne riprendono le ridicolezze e i vizj, recitandosi con tutta la naturalezza e senza la cantilena declamatoria delle commedie. Ora quando a tali sainetti, ossieno salse comiche sapessero i poeti dar la giusta forma, essi a poco a poco introdurrebbero la bella commedia di Terenzio e Moliere. Ciò pare che facciano sperare le lodate commedie inedite di Don Leandro de Moratin e le ultime impresse di Don Tommaso Yriarte. Ma coloro che in tutta la mia dimora in Madrid dal settembre del 1765 alla fine del 1783 fornirono di tramezzi le patrie scene, non seppero mai dar sì bel passo, 1 perchè non si avvisarono d’imparar l’ arte di scegliere i tratti nella società più generali, allontanandosi dalle personalità, per formarne pitture istruttive, 2 perchè non hanno dato pruova di saper formare un quadro che rappresenti un’ azione compiuta; 3 perchè hanno mostrato d’ignorar la guisa di fissar l’altrui attenzione su di un solo carattere principale che trionfi fra molti, ed hanno esposto p.e. una sala di conversazione composta di varj originali con ugual quantità di lume, e dopo avergli fatto successivamente cicalare quanto basti per la durata del tramezzo, conchiudono perchè vogliono, non perchè debbono, con una tonadilla.

Un gran numero di tali sainetti, e forse la maggior parte si compongono da Don Ramòn la Cruz, di cui con privilegio esclusivo fidansi i commedianti di Madrid. Le sue picciole farse sono state spesso ricevute con applauso, e per esse si sono talvolta tollerate goffissime commedie o scempie traduzioni del medesimo La Cruz. Per natura egli ha lo stile dimesso ed umile assai accomodato a ritrarre, come ha fatto, il popolaccio di Lavapies o de las Maravillas, i mulattieri, i furfanti usciti da’ presidj, i cocchieri ubbriachi e simile gentame che talvolta fa ridere e spesse volte stomacare, e che La Bruyere voleva che si escludesse da un buon teatro. Può vedersene un esempio nel sainete intitolato la Tragedia de Manolillo, in cui intervengono tavernari, venditrici e venditori di castagne, d’ erbe, facchini &c. e l’eroe Manolo che torna senza camicia e mal vestito dopo aver compito il decennio della sua condanna nel presidio di Ceuta. L’azione consiste nella morte di Manolo ferito da Mediodiente di lui rivale cui tutti gli altri personaggi fanno compagnia, buttandosi in terra e dicendo che muojono, ma subito l’istesso feritore ordina che si alzino, ed essi risuscitano insieme col trafitto Manolillo belli e ridenti. Il disegno di tal farsetta è di mettere in ridicolo gli scrittori di tragedie e l’osservanza delle unità. Gli scherzi e i motteggi si aggirano sulle corna, sulle frodi de’ tavernari, su i ladroni, su varie donne di partito condotte all’Ospizio e a San Fernando, su i pidocchi uccisi in presidio da Manolo,

Y en las noches y rato mas ocioso
matava mis contrarios treinta à treinta.

Mat.

Todos Moros?

Man.

Ninguno era Cristiano.

In far simili ritratti dell’infima plebaglia egli ha mostrato destrezza. Segno a’ suoi strali mimici sono stati ancora frequentemente gli Abati che ostentano letteratura. Egli potrà aver anche fantasia per inventare e ben disporre favole nuove compiute; ma in tanti anni non l’ha certamente manifestata. In effetto fuori di certe invenzioni allegoriche che per lo più non si lasciano comprendere27, egli si è limitato a tradurre alcune farse francesi, e particolarmente di Moliere, come sono Giorgio Dandino, il Matrimonio a forza, Pourceaugnac &c. Ma in vece di apprendere da sì gran maestro l’arte di formar quadri compiuti di giusta grandezza simili al vero, egli ha rannicchiate, poste in iscorcio disgraziato e dimezzate nel più bello le di lui favole, a somiglianza di quel Damasto soprannomato Procruste, ladrone dell’Attica, il quale troncava i piedi o la testa a’ viandanti mal capitati, quando non si trovavano di giusta misura pel suo letto28.