(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « LIBRO III — CAPO III. La Poesia Drammatica ad imitazione della forma ricevuta dagli antichi rinasce in Italia nel secolo XIV. » pp. 125-139
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « LIBRO III — CAPO III. La Poesia Drammatica ad imitazione della forma ricevuta dagli antichi rinasce in Italia nel secolo XIV. » pp. 125-139

CAPO III.

La Poesia Drammatica ad imitazione della forma ricevuta dagli antichi rinasce in Italia nel secolo XIV.

Mentrechè risorgeva dentro le Alpi la lingua latina col l’ammirarsene i preziosi codici scappati alla barbarie, nasceva da’ rottami greci, latini, orientali e settentrionali la lingua italiana, la quale per mezzo di Dante che è stato nella moderna Italia quello che furono Omero in Grecia ed Ennio nel Lazio, giva sublimandosi e perfezionandosi, e conscia delle proprie forze cercava ognora nuovo campo per esercitarle. Era questo il grato frutto della libertà, e de’ governi moderati che ritornarono in Europa per mezzo degli stessi Italiani. E ciò fra noi venne a produrre nel XIV secolo poesie teatrali latine ad esempio delle antiche, le quali precedettero quelle che nel XV si scrissero in volgare.

I teatri d’Italia risonarono di versi. latini cantati sin dal secolo precedente. Albertino Mussato Padovano, nato nel 1261, e morto nel 1330, ci fa sapere che già nel 1300 scriveansi comunemente tra noi in versi volgari (cioè facili ad esser compresi da’ volgari, benchè latini) le imprese de’ re, e si cantavano ne’ teatria. In una cronaca manoscritta di autore anonimo che può credersi compilata nel XII secolo da cronache anteriori, si descrive l’antico teatro della città di Milano, e di esso si dice: super quo histriones cantabant, sicut modo cantantur de Rolando et Oliverio, finito cantu bufoni et mimi in citharis pulsabant, et decenti motu corporis se volvebant b .

Se però verso l’anno 1300 erano comuni in Italia tali divertimenti ne’ teatri di qualunque specie si fossero, non dee dirsi che essi cominciassero nel 1304 allorchè nella Toscana fecesi la festa, in cui s’imitava l’inferno co’ demoni e dannati che gridavanoc. Il Crescimbeni giudicò tal rappresentazione di argomento profano; ma noi accordandoci di buon grado col cavaliere Tiraboschi, lungi dal crederla cosa teatrale sacra o profana, la reputiamo semplice spettacolo popolare senza verun dialogoa. Nel Friuli ancora nello stesso anno 1304 si rappresentarono dal Clero e dal Capitolo la Creazione di Adamo ed Eva, l’Annunziazione, ed il Parto di Maria Vergineb.

Ma dobbiamo al prelodato Mussato, promotore dell’erudizione e dello studio della lingua latina, l’aver richiamata in Europa la drammatica giusta la forma degli antichi. Egli compose due tragedie latine, cioè l’Achilleis detta così da Achille che n’era il personaggio principale, e l’Eccerinis, in cui introdusse il famoso Ezzelino da Romano tiranno di Padova. Quest’ultima piacque talmente a’ suoi compatriotti, che ne fu solennemente coronato della laurea poeticaa. I curiosi delle prime orme delle arti ne vedranno volentieri un succinto estratto.

Atto I. Adeleita madre di Ezzelino e di Alberico palesa a’ figli di esser essi nati dal demonìo, e nell’accingersi a scoprire questo gran secreto perde i sensi, indi rivenuta racconta l’avventura. Ezzelino le ha domandato, qualis is adulter, mater ? Ella così lo descrive:

Haud tauro minor Hirsuta aduncis cornibus cervix riget,
Setis coronant hispidis illum jubae,
Sanguinea binis orbibus manat lues,
Ignemque nares flatibus crebris vomunt.
Favilla patulis auribus surgens salit
Ab ore spirans. Os quoque eructat levem
Flammam, perennis lambit et barbam focus etc,

Di tale origine soprannaturale rallegrasi col fratello Ezzelino, indi si rivolge a fare una preghiera al padre novellamente scoperto. Leggonsi però prima cinque versi narrativi, cioè detti dal poeta, e non da qualche attore, per li quali l’azione si vede trasportata ad un luogo diverso:

Sic fatus imâ parte recessit domus
Petens latebras, luce et exclusa caput
Tellure pronum sternit in faciem cadens:
Tunditque solidam dentibus frendens humum,
Patremque saevâ voce Luciferum ciet.

L’atto termina col coro che si dimostra timido e dolente per li pubblici disastri.

Atto II. Un Messo racconta le disgrazie della patria e la prosperità di Ezzelino, il quale con insidie e crudeltà già regna in Verona ed in Padova. Tutto ciò si finge avvenuto nell’intervallo degli atti, ed è affare di non pochi giorni. Il coro deplora la publica miseria, ed implora la vendetta celeste contro lo spietato oppressore.

Atto III. Parlano i due fratelli de’ dominii acquistati e di quello a cui aspirano. Ziramonte enuncia la morte di Monaldo, piacevole novella pel tiranno. Ma un Messo il conturba coll’avviso di essersi presa Padova da’ fuorusciti entrativi col favore de’ Veneziani, de’ Ferraresi e del Legato del Papa. I suoi commilitoni l’esortano a marciar subito contro di loro:

Invade trepidos, tolle pendentes moras….
Fortuna vires ausibus nostris dabit.

Il coro chiude l’atto raccontando in pochi versi tutta la spedizione di Ezzelino contra Padova, il suo ritorno in Verona e la barbara vendetta da lui presa contro de’ prigionieri. Ma qual tempo è corso dal consiglio di marciare al racconto del coro? E come ha egli saputo ciò che è passato fuor di Verona? Le irregolarità sono manifeste, ancor quando voglia supporvisi qualche lacuna.

Atto IV. Narransi brevemente da un Messo gli eventi della guerra fatta in Lombardia a tempo di Ezzelino, ed al fine la morte di lui. Con un’ ode saffica il coro chiude l’atto, dando grazie al cielo per la morte del tiranno e per la ricuperata pace.

Atto V. Si racconta la strage della famiglia di Ezzelino, e la morte di Alberico. Qual fu il di lui fine, domanda il coro; ed il Messo così lo racconta:

Tum plura stantem tela certatim virum
Petiere, pressit unus in dextrum latus
Gladium, sinistrâ parte qui fixus patet.
Per utrumque vulnus largus effluxit cruor.
Effulminat spatulis alius ense tenus,
Cervice caesâ murmurat labens caput,
Stetitque titubans truncus ad casum diu,
Donec minutim membra dispersit frequens
Vulgus per avidos illa distribuens canes.

Il coro moralizzando conchiude:

Petit illecebras virtus supernas,
Crimen tenebras expetit imas.
Dum licet ergo moniti stabilem
                      Discite legem.

Si vede non esser questo un componimento senza difetti. L’azione non è una; il tempo basterebbe per un lungo poema epico; ed il protagonista Ezzelino pare che abbia un compagno in Alberico. Lo stile è facile; gli eventi dipingonsi con evidenza, benchè vi si desideri maggiore eleganza e purezza, ed oggi più, leggendosi molto scorretto. Ma vi si trovano le passioni ritratte con robustezza, e un interesse nazionale ravviva tutte le parti del dramma. Non è in somma una tragedia lavorata da un discepolo di Sofocle; ma se si riguardi ai tempi, alla barbarie e allo stato delle lettere nel rimanente dell’Europa, recherà meraviglia e diletto. In certi paesi a’ nostri giorni ancora contansene pochissime di questa più regolari. Per mezzo adunque del Mussato ebbe l’Italia sin da’ primi lustri del XIV secolo tragedie fatte ad imitazione degli antichi.

Reca diletto il poter vantare un Petrarca tra’ primi coltivatori della drammatica, benchè non ci sia rimasta la sua Filologia commedia da lui scritta in assai tenera età ch’egli volle involare agli occhi de’ posteria. Delle altre due composizioni drammatiche registrate in un codice della Laurenziana, che a lui si attribuiscono, non è da favellare. Lasciando da parte il non rinvenirsi di esse indizio veruno nelle di lui opere, i critici più accurati sospettano fortemente che esse sieno opere supposte al Petrarca, come fece prima di ogni altro l’abate Mehus, il quale recò un saggio dello stile di esse molto lontano da quello del Petrarcaa. Furono esse però scritte nel XIV secolo, e si aggirano l’una sulle vicende di Medea, l’altra sull’espugnazione di Cesena fatta dal Cardinale Albornoz nel 1357, la quale viene puittosto attribuita al dotto amico del Petrarca Coluccio Salutato eloquente segretario di tre pontefici morto in Firenze sua patria l’anno 1406. Troviamo ancora nell’opere del Petrarca mentovato onoratamente un erudito attore de’ suoi giorni chiamato Tommaso Bambasio da Ferrara, della cui amicizia gloriavasi il principe de’ Lirici Italiani, come il principe degli Oratori Latini di quella di Roscio, a cui lo comparava per la dottrina e per l’eccellenza nel rappresentarea. Basta questo racconto de’ pregi del Bambasio a provare la frequenza delle rappresentazioni sceniche di quel secolo. Se non avesse questo Ferrarese dati in Italia continui saggi della sua eccellenza in tale esercizio, l’avrebbe il Petrarca paragonato a Roscio? E che mai avrebbe egli rappresentato? Forse i muti misteri, o le buffonerie de’ cantimbanchi? Ma con simili cose avrebbe meritati e gli elogii che sogliono darsi a’ dotti artefici e l’amicizia di un Petrarca? Dovettero dunque in quell’età esservi favole sceniche in copia maggiore di quello che oggi possa riferirsi.

Conservasi nell’Ambrosiana di Milanoa in un codice a penna una commedia di Pier Paolo Vergerio il vecchio, uno degli accreditati filosofi, giureconsulti, oratori ed istorici del suo tempo, nato in Capo d’Istria circa il 1349 e morto nel 1431 in Ungheria presso l’imperador Sigismondo. La scrisse nella sua età giovanile, e l’intitolo Paulus comoedia ad juvenum mores corrigendos.

Giovanni Manzini della Motta, nato nella Lunigiana, scrisse verso la fine del secolo alcune lettere latine, ed in una parla di una sua tragedia sulle sventure di Antonio della Scala signore di Verona, e ne reca egli medesimo (dice il celebre Tiraboschi) alcuni versi che non ci fanno desiderar molto il rimanente. Non per tanto egli è degno di lode, si per essere stato uno de’ primi a tentar questo guado, si per avere dopo del Mussato preso a trattare un argomento nazionale veramente tragico.

Luigi Riccoboni nella storia del teatro Italiano vorrebbe riferire alla fine di questo secolo la Floriana commedia scritta in terzarima mista ad altre maniere di versi, stampata nel 1523; ma non apparisce su qual fondamento l’asserisca. Il marchese Scipione Maffei nell’Esame dell’Eloquenza Italiana del Fontanini afferma che nella seconda edizione della Floriana del 1526 vien chiamata commedia antica, e cosi leggesi nella Drammaturgia dell’Allacci; ma ciò non basta per farla risalire sino al secolo XIV.