Capitolo sesto
Riflessioni sul meraviglioso. Origine storica, e propagazione di esso in Europa. Cause del suo accoppiamento colla musica, e la poesia nel melodramma.
[1] Tra i fenomeni letterari che▶ si presentano avanti a chi vuol osservare le rivoluzioni del teatro italiano non è il minore a mio avviso quel maraviglioso strabocchevole, ◀che▶ accoppiandosi col melodramma fin dalla sua origine, lo seguitò passo a passo per tutto il secolo scorso e parte ancor del presente, non solo in Italia ma nelle nazioni oltramontane ov’esso fu trapiantato. Questo non poteva a meno di non dar nell’occhio agli scrittori italiani: così alcun non v’ha tra coloro ◀che▶ la storia delle lettere hanno preso a scrivere, ◀che▶ non parli delle macchine, delle decorazioni, della mitologia e delle favole, come del carattere principale del melodramma in quel secolo. Ma onde sia venuta in mente a’ poeti siffatta idea; per qual istrano cangiamento di gusto una nazione sì colta sene sia compiacciuta a tal segno, ◀che▶ abbia nel teatro antiposta la mostruosità alla decenza, il delirio alla verità, l’esclusione d’ogni buon senso alle regole inalterabili di critica lasciateci dagli antichi; se il male sia venuto dalla poesia ovver dalla musica, o se tutto debba ripetersi dalle circostanze de’ tempi, ecco ciò ◀che▶ niun autore italiano ha finora preso ad investigare, e quello ◀che▶ mi veggo in necessità di dover eseguire a continuazione del metodo intrapreso, e a maggior illustrazione del mio argomento.
[2] Sebbene sia fuor d’ogni dubbio ◀che▶ fra le potenze interne dell’uomo alcuna vene ha portata naturalmente verso il vero, e ◀che▶ in esso unicamente riposi non potendo abbracciar il falso quando è conosciuto per tale; è fuor di dubbio parimenti, ◀che▶ fra esse potenze medesime alcun’altra si ritrova, la quale senza poter fermarsi tra i cancelli del vero, si divaga pei mondi ideali da lei creati, e si compiace de’ suoi errori più forse di quello ◀che▶ farebbe della verità stessa. La prima di esse facoltà è l’intelletto, la seconda la immaginazione, e perciò in quest’ultima è riposta la sede del maraviglioso. La certezza di tal effetto può facilmente conoscersi dalla esperienza. Haccene di quelle cose, le quali avvegnaché assurde e incredibili paiano all’intelletto, nondimeno dilettano grandemente la potenza immaginativa. Leggete in presenza d’un fanciullo, e anche d’un ragazzo di dodici o quindici anni il più bello squarcio della storia di o di , fategli capire una dimostrazione di geometria, o mettetegli avanti gli occhi la più leggiadra esperienza di fisica, egli non istarà molto ◀che▶ s’annoierà, e palesaravvi colla sua inattenzione la noia. Ma se invece di tutto ciò prendete a narrargli le favole d’ , o gli strani e incredibili avvenimenti del moro Aladino, della grotta incantata di Merlino, del corno e dell’ippogrifo d’Astolfo, della rete di Caligorante o tali altre cose, ◀che▶ per folle e menzogne si tengono da tutti, e da lui medesimamente; il ragazzo tralascerà con piacere i suoi fanciulleschi trastulli solo per ascoltarvi. Interrogate un amante, addimandate ad un poeta, perché raminghi e soli inoltrandosi fra le più cupe foreste, e fra deserti inerpicati dirupi sfuggano l’uman commercio mesti in apparenza e pensosi: e’ vi risponderanno ◀che▶ ciò si fa da loro per poter liberamente badare agli amabili deliri della propria immaginazione, a quei soavi e cari prestigi, a quelle illusioni dolcissime, ◀che▶ gli ricompensano dalle torture della verità trista spesse fiate e dolorosa. Se si consulta la storia, vedrasi, ◀che▶ le bizzarre invenzioni della poesia hanno dall’India fino alla Spagna, da fino al eccitato universale diletto, e riscossa l’ammirazione de’ popoli. Lo stesso avvenne per molti secoli de’ romanzi e delle avventure degli erranti cavalieri, i quali libri, quantunque pieni fossero di menzogne assurde e ridicole, pur di sollazzo e di piacevole intertenimento servirono alla più colta e più gentil parte d’Europa a preferenza degli storici e filosofici. Le Fate, le Maghe, i Silfi, gl’incantesimi, tutti insomma gli aborti dell’umano delirio, piacquero più assai alla immaginazione attiva e vivace ◀che▶ non le severe dimostrazioni cavate da quelle facoltà ◀che▶ hanno per oggetto la ricerca del vero. E la natura per così dire, in tumulto, e la violazione delle leggi dell’universo fatte da immaginarie intelligenze le furono più a grado ◀che▶ non il costante e regolar tenore delle cose create.
[3] Posto il fatto fuor d’ogni dubbio, il filosofo ne ricercherà le cagioni. Non è proprio di questo luogo, e nemmeno del mio debole ingegno il diffondermi circa un argomento, ◀che▶ richiederebbe più tempo, e penna più maestrevole. A dir però qualche cosa non mi pare ch’errar potesse di molto chi le riducesse a’ capi seguenti.
[4] L’ignoranza delle leggi fisiche della natura dovette in primo luogo condur l’uomo a dilettarsi del maraviglioso. Vedea egli sgorgare da limpida sorgente, e scorrere mormorando fra le verdi rive un ruscello; vedeva germogliare anno per anno le piante, rifiorir gli alberi, e coprirsi di fronda; vedea la notte al giorno, e il giorno alla notte vicendevolmente succedersi, e il sole per gl’interminabili spazi del cielo con invariabil corso aggirarsi finché si nascondeva agli occhi suoi sotto l’orizzonte. E non potendo rinvenire per mancanza di quella intellettuale attività ◀che▶ fa vedere la concatenazione delle cause coi loro effetti, le occulte fisiche forze, ◀che▶ facevano scorrere quel fiume, vegetar quella piantale mover quel sole, trovarono più facile inventar certi agenti invisibili, a’ quali la cura commettessero di produrre simili effetti. Quindi s’immaginarono un Dio, il quale giacendo in umida grotta, e incoronato d’alga, e di giunchi da un’urna di cristallo versasse le acque, e una Napea ascosa dentro alla scorza degli alberi, ◀che▶ il nutritivo umor sospingendo verso l’estremità, fosse la cagion prossima della loro verzura e freschezza, e parimenti un Apollo si finsero, il quale, avendo la fronte cinta de’ raggi, guidasse colle briglie d’oro in mano il carro luminoso del giorno. Quindi, dando anima e corpo a tutti i fisici principi dell’universo, popolarono di numi gli elementi, il cielo, e l’inferno persino, ampio argomento di superstizione a’ creduli mortali, e larga messe a’ poeti, ◀che▶ s’approfittarono, affine di soggiogare l’immaginazione de’ popoli.
[5] Questa avvivata dalle due passioni più naturali all’uomo, il timore cioè e la speranza, giunse perfino a credere le sue finzioni medesime e a compiacersene. Le credette, perché un sistema, ◀che▶ spiegava materialmente i fenomeni della natura, era più adattato a quegli uomini grossolani, su i quali aveano i sensi cotanto imperio. Sen compiacque perché l’amor proprio, quel mobile supremo dell’uman cuore, vi trovava per entro il suo conto. Siccome supponevasi ◀che▶ quella folla di deità si mischiasse negli affari degli uomini, e ch’esse agevolmente divenissero amiche loro o inimiche, così nell’uomo cresceva la stima di se e la fiducia veggendosi assistito da tanti numi. Se incorreva in qualche disastro, imaginavasi di essere di tanta importanza al cielo ch’esso manderebbe all’improvviso una truppa di cotai geni per iscamparlo. Se gli andava amale qualche intrapresa, non dovea incolparsi per ciò la propria imprudenza o poca destrezza, ma bensì il maligno talento di quello invisibile spirito, ◀che▶ perseguitavalo occultamente. Non erano, secondo i Troiani, il rapimento d’Elena o gli oltraggi recati alla Grecia le cagioni delle loro disavventure ma l’odio inveterato d’alcuni Iddi contro la famiglia di Laomedonte. Non erano i Greci coloro ◀che▶ nell’orribil notte dell’incendio portavano scorrendo per ogni dove la strage: era la dea Giunone, ◀che▶ minacciosa e terribile appiccava con una fiaccola in mano il fuoco alle porte Scee; era l’implacabil Nettuno, ◀che▶ scuotendo col tridente le mura, le faceva dai fondamenti crollare. S’Enea abbandona Didone è perché un nume gliel comanda, e se i Tiri dopo sette mesi di resistenza s’arrendono ad Alessandro, non è per mancanza di coraggio, gli è perché Ercole è comparso in sogno al celebre conquistatore offerendogli le chiavi della città. Dal ◀che▶ si vede ◀che▶ gli uomini si dilettano del maraviglioso mossi dal medesimo principio, ◀che▶ gli spinge a crearsi in mente quegl’idoli imaginari chiamati fortuna e destino, per fare, cioè, maggiormente illusione a se stessi.
[6] Un altro fonte del piacere ◀che▶ recan le favole si è l’istinto ◀che▶ ci porta a cercar la nostra felicità. Dotati da una parte di facoltà moltiplici sì interne ◀che▶ esterne, e dall’altra collocati in circostanze, ove i mezzi di soddisfarle sono sì scarsi e dove i mali vengono sovente ad amareggiare i frali ed interrotti piaceri della loro vita, gli uomini non hanno altro supplemento ◀che▶ il desiderio vivo d’esser felici, e l’imaginazione ◀che▶ si finge i mezzi di divenirlo. Però, accumulando col pensiero tutti i beni ◀che▶ a ciascun senso appartengono, e il numero loro e l’intensità quanto si può amplificando, giunsero a inventare i favolosi paradisi, ovvero sia luoghi di delizie, i quali sappiamo a tutte le nazioni essere stati comuni. E gli alberi dell’Esperidi, onde poma d’oro pendevano, e gli eterni zeffiri ◀che▶ leggiermente scherzavano tra le fiondi dei mirti nelle campagne di Cipro, e i rivi di latte e miele ◀che▶ scorrevano nelle Isole fortunate, e i dilettosi boschetti d’Adoni nell’Arabia, e gli orti d’Alcinoo, e i tempi di Tessaglia, e i giardini d’Armida, e il voluttuoso cinto di Venere, e l’immortali donzelle ◀che▶ il sagace Maometto destinò ai piaceri de’ suoi fedeli musulmani dopo la morte loro, non altronde ebbero principio se non se dai voli dell’inquieta imaginazione avvivata dal desiderio di godere di tutte le delizie possibili.
[7] L’ultima causa è l’amore della novità. O perché l’essenza del nostro spirito è riposta nell’azione continua, o perché, essendo di capacità indefinita, non trova alcun oggetto individuale ◀che▶ a pieno il soddisfaccia, onde nasce il desiderio di percorrere tutti gli oggetti possibili, o perché l’ingenita tendenza al piacere lo spinge a variare le sue modificazioni per discoprire tutte le relazioni, ◀che▶ hanno le cose con esso lui, o per qualche altra causa a noi sconosciuta, certo è ◀che▶ l’uomo è naturalmente curioso. La quale facoltà diviene in lui così dominante ◀che▶ qualora gli manchino oggetti reali su cui esercitarsi, s’inoltra persin nel mondo delle astrazioni a fine di trovarvi pascolo. A soddisfare siffatta inquietezza sono conducenti la mitologia e le favole. Che le cose accaggiano secondo l’ordinario tenore, ciò non desta la maraviglia, ma il sentire avvenimenti stravaganti e impensati, il vedere una folla d’Iddi, i quali sospendono il corso regolare della natura, e intorno a cui non osiamo pensare se non se pieni di quel terrore sublime ◀che▶ ispira la divinità, ciò sorprende gli animi consapevoli a se medesimi della propria debolezza, ne risveglia la curiosità e ne riempie d’un certo sensibile affetto misto d’ammirazione, di riverenza e di timidezza. Oltredichè la fantasia s’aggrandisce, per così dire, e dilatasi per cotai mezzi. Quando l’immaginazione a scioglier il nodo altre vie non sa rinvenire ◀che▶ le ordinarie, l’invenzione non può a meno di non essere imbarazzata e ristretta, ma qualora ne abbia essa la facilità di snodar per macchina ogni evento, avendo alla mano il soccorso di codeste intelligenze invisibili, i suoi voli diventano più ardimentosi e più liberi, e l’invenzione più pellegrina. I mezzi naturali non sariano stati sufficienti a liberar Telemaco dalle perigliose dolcezze dell’isola di Calipso, vi voleva Minerva ◀che▶ dall’alto d’uno scoglio sospingendolo in mare cavasse il poeta d’impaccio, e mettesse in sicuro la troppa combattuta virtù del giovane eroe. Perciò gli antichi, i quali sapevano più oltre di noi nella cognizione dell’uomo, stimarono esser la favola tanto necessaria alla poesia quanto l’anima al corpo, all’opposito d’alcuni moderni ◀che▶, volendo tutte le belle arti al preteso vero d’una certa loro astratta filosofia ridurre, mostrano di non intendersi molto né dell’una né dell’altra65.
[8] Indicati i fonti del diletto ◀che▶ nasce dal maraviglioso, avviciniamci al nostro argomento, ricercando brevemente la sua origine storica in quanto ha relazione col melodramma. Il meraviglioso, ◀che▶ in questo s’introdusse nel secolo scorso, fu di due sorti, la mitologia degli antichi, e le fate, gl’incantesimi, i geni con tutto l’altro apparato favoloso, cui io darei il nome di mitologia moderna. Non occorre punto fermarsi intorno all’origine della prima, essendo noto ad ognuno ◀che▶ nacque dalla mal intesa imitazione de’ poeti greci e latini trasferita al teatro. Merita bensì la seconda qualche riflessione.
[9] Lo squallido aspetto della natura ne’ paesi più vicini al polo per lo più coperti di neve, ◀che▶ ora si solleva in montagne altissime, ora s’apre in abissi profondi; i frequenti impetuosi volcani, ◀che▶ fra perpetui ghiacci veggonsi con mirabil contrasto apparire; foreste immense d’alberi folti e grandissimi credute dagli abitanti antiche egualmente ◀che▶ il mondo; venti fierissimi venuti da mari sempre agghiacciati, i quali, sbuccando dalle lunghe gole delle montagne, e pei gran boschi scorrendo, sembrano cogli orrendi loro muggiti di voler ischiantare i cardini della terra; lunghe e profonde caverne e laghi vastissimi, ◀che▶ tagliano inegualmente la superficie dei campi; i brillanti fenomeni dell’aurora boreale per la maggior obliquità de’ raggi solari frequentissimi in quei climi; notti lunghissime, e quasi perpetue; tutte insomma le circostanze per un non so ◀che▶ di straordinario e di terribile ◀che▶ nell’animo imprimono, e per la maggior ottusità d’ingegno ◀che▶ suppongono negli abitanti a motivo di non potervisi applicare la coltura convenevole, richiamandoli il clima a ripararsi contro ai primi bisogni, doveano necessariamente disporre alla credulità le rozze menti de’ popoli settentrionali. Della qual disposizione approfittandosi, i pretesi saggi di quella gente chiamati nella loro lingua “Runers”, o “Rimers”, ◀che▶ riunivano i titoli di posti, d’indovini, di sacerdoti e di medici ben presto inventarono, o almea promossero, quella sorte di maraviglioso ◀che▶ parve loro più conducente ad eccitare in proprio vantaggio l’ammirazione e il terrore dei popoli.
[10] Una religione malinconica e feroce, qual si conveniva agli abitanti e al paese, prese piede fra gli idolatri della Scandinavia. La guerra posta quasi nel numero degli dei dal loro antico conquistatore Oddino avea tinto d’umano sangue le campagne e i sassi. Tutto ivi respirava la destruzione e la morte. Il legislatore deificato poi da’ suoi seguaci veniva onorato da essi col titolo di padre della strage, di nume delle battaglie, di struggitore e d’incendiario. I sagrifizi più graditi ◀che▶ gli si offerivano erano l’anime degli uomini uccisi in battaglia, come il premio ◀che▶ si riserbava nell’altra vita ai più prodi campioni era quello di bere un nettare delizioso presentato loro nel cranio de’ propri nemici dalle Ouris, ninfe di sovrumana bellezza destinate per sin nel cielo ad essere il più caro oggetto di godimento, ovunque una religione falsa e brutale consulta piuttosto i sensi dell’uomo ◀che▶ la ragione. Così nemmeno fra le delizie sapevano dimenticarsi della loro fierezza. Sembra ◀che▶ Oddino altro divisamento non avesse fuorché quello d’innalzar la gloria degli Scandinavi sull’eccidio del genere umano. Siffatte idee trasparivano eziandio nella loro mitologia ripiena di geni malefici, i quali uscivano dal grembo stesso della morte per far danno ai viventi. Quindi ebbero origine le appirazioni de’ gli spiriti aerei, gli spettri, i fantasimi, i folletti, i vampiri e tanti altri abortivi parti della timida immaginazione, e della impostura. Nicka nell’antica lingua degli Scandinavi era uno spirito, il quale si compiaceva di strangolar le persone ◀che▶ per disgrazia cadevano nell’acqua. Mara era un altro ◀che▶ gettavasi sopra coloro ◀che▶ riposavano tranquillamente sul letto, e levava loro la facoltà di parlare e di muoversi. Bo era un ardito guerriero figlio d’Oddino, il cui nome profferivano i soldati all’entrar in battaglia sicuri di riportarne vittoria. Rath era un genio sitibondo del sangue de’ fanciulli, il quale invisibilmente succhiava qualora trovati gli avesse lontani dalle braccia della nutrice. E così degli altri. Gli Scandinavi stimavano tanto necessario istillar negli animi teneri siffatte opinioni, ◀che▶ fra gl’impieghi ◀che▶ cercavano i Septi, ovvero sia i principiali tra loro per la buona educazione de’ figliuoli, uno dei primi era quello di facitore di novelle.
[11] Divenuti i numi così maligni, i popoli aveano bisogno di mediatori per placarli. Egli è ben credibile, ◀che▶ i mentovati indovini o sacerdoti non lascierebbero scappar via una così bella occasione di rendersi necessari. A questo fine era lor d’uopo farsi creder dal volgo superiori agli altri nella scienza e nella possanza, ritrovando una tal arte ◀che▶ supponesse una segreta comunicazione tra il mondo invisibile e il nostro, e della quale essi ne fossero esclusivamente i possessori. L’uno e l’altro fu fatto, ed ecco divenir familiari tra loro gli incantesimi, le malìe, i sortilegi, le stregonerie e le altre magiche operazioni, colle quali assicuravano di poter eccitare e serenar a grado loro le tempeste, sedar il mare, sparger il terrore fra gli inimici, sollevarsi nell’aria, trasportarsi improvvisamente da un luogo all’altro, scongiurare e far comparire gli spiriti, convertirsi in lupo, in cane o in altro animale, trattener il sangue delle ferite, farsi amar dalle donne all’eccesso, guarir ogni sosta di malattie e render gli uomini invulnerabili, del ◀che▶ non pochi fra loro vantavansi d’aver fatto in se medesimi lo sperimento. E ciò non solo colle parole e col tatto, ma con misteriosi caratteri ancora, i quali aveano virtù d’allontanare ogni guai da chi li portava seco: onde trassero origine i talismani, gli amuleti, e tai cose.
[12] La religione cristiana, apportando seco l’idea semplice, vera e sublime d’un unico iddio, distrusse nella Scandinavia i deliri della idolatria, e con essi la potenza dei ◀che▶ ne erano il principale sostegno. Ma siccome troppo è difficile nei popoli rozzi estirpare in picciol tratto di tempo ogni radice d’antica credulità, così gran parte di esse superstizioni divelte dal sistema religioso durò lungamente nelle menti del volgo.
,[13] Colle conquiste dei goti si sparse adunque per l’Europa la moderna mitologia abbellita di poi, e vieppiù propagata da’ poeti e de’ romanzisti. I disordini introdotti dal governo feudale, e l’impossibilità d’ogni buona politica ove le leggi deboli ed impotenti non potevano far argine ai delitti, ove altro non regnava fuorché violenze e rapine, e dove la bellezza dell’oggetto era un incitamento di più ai rapitori, aveano convertita l’Europa in un vasto teatro d’assassini e di furti, di scorrerie e di saccheggi. Tra le prede ◀che▶ più avidamente cercavansi, eran le donne, come oggetti fatti dal cielo per piacere, e ◀che▶ in tutti i secoli e dappertutto furono la cagion prossima de’ vizi dell’uomo e delle sue virtù. Quindi per la ragion de’ contrari non men valevole nelle cose morali ◀che▶ nelle fisiche, nacque la custodia più gelosa di loro, e il combatter per esse, e il ritorle dai rapitori, e il farsi molti un punto d’onore cavalleresco nel diffenderle, sì per quell’intimo sentimento ◀che▶ ci porta a proteggere la debole ed oppressa innocenza, come per acquistarsi maggiormente grazia nel cuor delle belle riconquistate: grazia ◀che▶ tanto più dovea esser cara quanto più ritrosa e difficile, e quanto più erano consapevoli a se medesimi d’aversela meritata. Di più, essendo a que’ tempi ricevuta dalle leggi l’appellazione per via di duello, le dame, ◀che▶ non potevano venir a personale tenzone, combattevano per mezzo dei lor cavalieri, ai quali veniva troncata la mano in caso di perdita. In altri paesi le donne accusate di qualche delitto non si condannavano alla pruova dell’acqua e del ferro rovente se non se allorquando niun campione prendeva la loro difesa. Era perciò ben naturale ◀che▶ queste consapevoli a se medesime della propria fievolezza pregiassero molto i cavalieri prodi e leali, dai quali oltre l’istinto naturale del sesso, attendevano aiuto e patrocinio nelle occasioni. Quindi poi gli amori vicendevoli, le corrispondenze fortissime, l’eroismo d’affetti e di pensieri, d’immaginare e d’agire, ◀che▶ noi per disonor nostro mettiamo al presente in ridicolo, ma ◀che▶ pur vedevasi allora accoppiato colla bellezza nelle donne e coll’onoratezza e il valor guerriero nei cavalieri.
[14] Dalla osservazione di siffatti avvenimenti, e dalla voga ◀che▶ avea preso nel popolo quel maraviglioso tramandato dai settentrionali, nacquero i romanzi in verso e in prosa, i quali altro non sono stati in ogni secolo se non se la pittura de’ pubblici costumi. Perciò insiem coi palazzi e le selve incantate, colle anella, le armi, e le verghe fatate, cogli endriaghi, e gl’ippogrifi dotati d’intelligenza, coi giganti, nani, damigelle, e scudieri a servigio delle belle o in loro custodia, cogl’incantatori, le fate, e i demoni or favorevoli or nemici, vi si leggono fellonie de’ malandrini severamente punite, provincie liberate dai tiranni e dai mostri, cortesie, e prodezze impareggiabili de’ paladini, pudor seducente nelle donne e costanza congiunta a dilicatezza inesprimibile, e tali altre cose, le quali schierate innanzi agli occhi d’un tranquillo filosofo, e paragonate con quelle d’altri tempi, lo conducono alla cognizione generale dell’uomo, e a disingannarsi della vana e ridicola preferenza ◀che▶ gli interessati scrittori danno ai costumi delle nazioni e de’ secoli ◀che▶ essi chiamano illuminati, sopra quei delle nazioni e de’ secoli ◀che▶ chiamano barbari66,
[15] Alle accennate cause della propagazion delle favole debbe a mio giudizio aggiugnersi un’altra. La filosofia colle premure di Europa, e col patrocinio della Casa Medici, de’ pontefici, e de’ re di Napoli, rinacque in Italia nel secolo XV principalmente la Cabbalistica e la Platonica, non quale aveala dettata in Atene il suo pittoresco e sublime autore, ma quale dai torbidi fonti della setta alessandrina a noi si derivò. E siccome trascuravasi allora lo studio pratico della natura, senza cui vana e inutil cosa fu sempre ogni filosofica speculazione, così altro non era ◀che▶ un ammasso di bizzarre cavillazioni e di fantasìe. Lasciando alle stolide menti del volgo il mondo vero e reale qual era uscito dalle mani del Creatore, comparve nei libri di que’ metafisici non diversi in ciò dai poeti un altro universo fantastico pieno di emanazioni, e d’influssi celesti, di nature intermedie, d’idoli, di demoni, di geni, di silfi e di gnomi, vocaboli inventati da loro per sostituirli nella spiegazione delle cose naturali alle qualità occulte de’ peripatetici, da cui volevano ad ogni modo scostarsi. Onde sorsero in seguito o crebbero la magia eretta in sistema, l’astrologia giudiziaria, la chiromanzia superstiziosa, la fisica inintelligibile, la chimica misteriosa, la medicina fantastica e tali altre vergogne dell’umanar ragione, ch’ebber nome di scienze nell’Europa fino a’ tempi del Galileo e del Cartesio.
e poi codici disotterrati, colla venuta dei Greci in[16] Da tai mezzi aiutata la moderna mitologia si trasfuse nella poesia italiana, e contribuì non poco ad illeggiadrirla. Testimonio fanno i poemi del ◀che▶ non piccola parte introdusse negli episodi, e il , e il con altri. Particolari cagioni fecero sì ◀che▶ tanto questa spezie di maraviglioso quanto quello della mitologia degli antichi s’unissero agli spettacoli accompagnati dalla musica. Per ispiegarle bisogna più alto risalire.
, del , del , dell’ , e dietro a loro anche il ,[17] Benché l’unione della musica e della poesia, considerata in se stessa o com’era nei primi tempi della Grecia, nulla abbia di stravagante, né di contrario, tuttavia considerandola come è nata fra noi dopo la caduta del romano impero, vi si scorge per entro un vizio radicale, di cui gli sforzi de’ più gran musici e poeti non l’hanno potuto intieramente sanare. Questo vizio consiste nella distanza ◀che▶ passa tra la favella ordinaria e la poesia, e tra la poesia comune e la musica. Io ho esaminato di sopra i caratteri musicali della lingua italiana, ed holla per questa parte commendata moltissimo: ma il lettore avrà riflettuto ◀che▶ l’esame fatto è puramente relativo allo stato attuale delle altre lingue d’Europa, e ◀che▶ molto calerebbero di pregio la poesia e la lingua italiana se invece di paragonarle colle viventi si paragonasse colla poesia e la lingua de’ Greci. So ◀che▶ alcuni eruditi non si sgomentano del confronto ad onta dell’ignoranza in cui si trovano di quella favella divina, e so ◀che▶ fra gli altri il 67 e il 68 si sono lasciati dal pedantismo e dalla farraginosa erudizione addormentar l’animo a segno d’asserire ◀che▶ l’esametro degli antichi era privo d’armonia paragonato coll’italiano d’undici sillabe. Altri disputerà quanto vuole per contrastar la loro opinione; io ◀che▶ l’attribuisco più ◀che▶ a mancanza d’ingegno al non aver gli organi ben disposti a ricever le impressioni del bello, mi contento di dire ◀che▶ siffatto giudizio non si sconverrebbe alle orecchie di Mida, il quale trovava più grati i suoni della sampogna di Pane ◀che▶ della lira d’Apollo.
[18] Chechessia di ciò, la lingua italiana, come tutte le altre, non si dispose a ricever la poesia se non molto tardi, allorché erasi di già stabilita, e col lungo uso di parlar in prosa fortificata. I poeti adunque ◀che▶ vennero dippoi, non trovando se non sintassi uniforme e difficile e frasi triviali, si videro astretti per distinguersi a inventar certe forme di dire, certi turni d’espressione e figure e inversioni inusitate, ◀che▶ allontanassero il linguaggio prosaico dal poetico. Cotal lontananza divenne maggiore allorché la lingua dovette accoppiarsi colla musica: impercioché siccome la poesia rigettava molte frasi prosaiche, così la musica non ammetteva se non poche forme di dire poeti ◀che▶, onde nacque un linguaggio musicale separato e distinto, ◀che▶ non potea trasferirsi a’ comuni parlari. Fu non per tanto giustissima l’osservazione d’un giornalista a cui né questo titolo, né lo stile impetuoso e sovente mordace debbono sminuire il pregio d’aver veduto chiaro in molte cose, ◀che▶ di quarantaquattromila e più voci radicali ◀che▶ formano la lingua italiana, solo sei o settemila in circa fossero quelle ch’entrar potessero nella musica69. Dall’altra parte questa rinata come la lingua più per caso o per usanza, ◀che▶ per meditato disegno d’unirsi alla poesia, crebbe in principio e si formò separatamente da essa. Così allorquando dovettero insieme accoppiarsi, vi si trovò un certo imbarazzo cagionato dalla mancanza di prosodia e di ritmo sensibile nelle parole, onde poco vantaggio ne traeva il movimento regolare e la misura, e dal troppo complicato giro del periodo e accozzamento duro delle voci poco favorevole alla melodia. Il qual imbarazzo tanto dovette esser più grande quanto ◀che▶ la natura di esso accoppiamento esigeva, ◀che▶. la musica e la poesia si prendessero per un unico e spio linguaggio.
[19] Cotali difficoltà fecero sì ◀che▶ il popolo, non vedendo alcuna relazione tra la favella ordinaria e la musicale, stimò ◀che▶ quest’ultima fosse un linguaggio illusorio, ◀che▶ poco avesse del naturale, destinato unicamente a piacere ai sensi. Però di nulla altro ebber pensiero i musici ◀che▶ di dilettarli, ora accumulando suoni a suoni e stromenti a stromenti affine di sorprender l’orecchio e di supplire collo strepito alla mancanza del verosimile; ora cercando nella varia unione degli accordi i mezzi di piacere anche indipendentemente della poesia, a cui non ben sapevano unire la musica, onde nacquero le sonate, le sinfonie, i concerti e gli altri rami d’armonia strumentale; ora chiamando in aiuto gli altri sensi affinchè riempissero colla loro illusione quel divario, ◀che▶ pur durava tra le due facoltà sorelle. Ed ecco il perché fin dal principio di rado o non mai venne sola la musica, ma quasi sempre accompagnossi colla pompa, colla decorazione e collo spettacolo ne’ canti carnascialeschi, nelle pubbliche feste e ne’ tornei: benché tristo compenso dovea riputarsi questo nella mancanza d’espressione e di vera melodia. E siccome per le cagioni esposte fin qui le favole e il maraviglioso erano, per così dire, l’anima di cosiffatti spettacoli a que’ tempi, perciò la musica ad essi congiunte fu creduta da tai cose esser inseparabile.
[20] Salita poi sul teatro continuò a comparire unita alle farse, agl’intermezzi ed ai cori, ◀che▶ con grande apparato esponevansi agli occhi. Noi abbiamo veduto ◀che▶ non fu se non assai tardi ◀che▶ s’incominciarono a intavolar le melodie ad una voce sola, le uniche ◀che▶ potevano contribuire a dirozzare la musica e a facilitar la sua applicazione alla poesia. E basta esaminar i pezzi di musica corica, ovvero a più voci, ◀che▶ ne rimangono de’ cinquecentisti per veder quanto allor fosse imbarazzata e difficile pei vizi mentovati di sopra nemici della energia musicale, e contrari al fine di quella facoltà divina. Per quanto adunque s’affaticassero que’ valent’uomini della non mai abbastanza lodata camerata di Firenze, non valsero a sradicare in ogni sua parte i difetti della musica, ◀che▶ troppo alte aveano gettate le radici, né poterono dar alla unione di essa colla poesia quell’aria di verosimiglianza e di naturalezza ◀che▶ avea presso a’ Greci acquistata, dove la relazione più intima fra queste due arti dopo lungo uso di molti secoli rendeva più familiare, e per ciò più naturale il costume d’udir cantar sul teatro gli eroi e l’eroine. Perciò gl’inventori s’avvisarono di slontanare il più ◀che▶ si potesse l’azione dalle circostanze dello spettatore, affinchè minor motivo vi fosse di ritrovarlo inverosimile. Non potendo far agire dignitosamente cantando gli uomini, gli trasmutarono in numi. Non trovando nella terra un paese dove ciò si rendesse probabile, trasferirono la scena al cielo, all’inferno, e a’ tempi favolosi. Non sapendo come interessar il cuore colla pittura de’ caratteri e delle passioni, cercarono d’affascinare gli occhi e gli orecchi coll’illusione, e disperando di soddisfare il buon senso, s’ingegnarono di piacere alla immaginazione. Tale fu a mio giudizio l’origine del maraviglioso nel melodramma.
[21] In appresso la musica, per le cause ◀che▶ si esporranno nel capitolo ottavo, rimase nella sua mediocrità dai tempi del Caccini e del Peri fino a più della metà del secolo decimosettimo. Crebbe all’opposto e salì alla sua perfezione l’arte della prospettiva per l’imitazione degli antichi, per l’ardore acceso negl’Italiani in coltivarla, per le scuole insigni di pittura fondate in parecchie città emule della gloria e degli avanzamenti, pel gran concorso di stranieri, e pel favore de’ principi. L’architettura si lasciò parimenti vedere in tutto il suo lume ne’ sontuosi portici e ne’ vasti teatri degni della romana grandezza, per riempire i quali vi voleva tutto lo sfoggio delle arti congiunte. Gl’Italiani adunque, attendendo procacciarsi diletto, fecero uso di queste in mancanza di buona musica, allorché essendo conducente il sistema del maraviglioso, e trovandolo di già stabilito a preferenza degli argomenti storici, fu maggiormente promosso nel melodramma, e vi si stabilì come legge propria di tai componimenti.