Introduzione
La fama che Francesco Algarotti raggiunse ai suoi tempi ha un testimone d’eccezione, seppure in chiave antifrastica. Ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis, Ugo Foscolo scrive senza giri di parole che Algarotti ha «scroccato fama di savant
1»
. In termini simili si erano espressi anche Giuseppe Baretti e altri letterati fino a Ottocento inoltrato, come Niccolò Tommaseo e Cesare Cantù2.
L’estensione degli interessi di Algarotti, che scrisse su argomenti disparati, può spiegare il giudizio negativo espresso da Foscolo, in parte ripreso dai letterati del Sette e dell’Ottocento, polemico nei confronti di una comunicazione letteraria che sacrificava l’eloquenza all’intento divulgativo.
Nonostante le censure, Algarotti fu però un esponente d’eccezione della cultura dei lumi, della quale ripercorre tutte le tappe consuete; interprete dello spirito cosmopolita settecentesco, in contatto con membri di primo piano dell’europea Repubblica delle lettere, Algarotti considera la cultura un ampio campo aperto all’interno del quale i saperi dialogano tra di loro e sono componenti di un unico grande sistema.
I suoi molteplici interessi, che lo spinsero a scrivere di arte, scienze, musica, letteratura, traduzione, mostrano l’estensione di un sapere disponibile ed eclettico, che qualifica l’uomo di lettere del XVIII secolo, volto a perseguire uno dei fondamenti della cultura umanistica settecentesca, quello di una letteratura intesa come percorso conoscitivo, strumento comunicativo, veicolo di circolazione delle idee3.
Nato a Venezia nel 1712 da una famiglia di ricchi mercanti, Algarotti fu educato nell’ambiente bolognese dei primi decenni del secolo XVIII in cui la divulgazione scientifica era argomento centrale nell’ambiente letterario4, dominato da personalità come il matematico Francesco Maria Zanotti e il poeta e astronomo Eustachio Manfredi. A queste esperienze, rafforzate da soggiorni di studio a Firenze e a Padova, si unì presto la passione per i viaggi che portò Algarotti in Francia, dove frequentò Voltaire, e in Inghilterra. Il Newtonianismo per le dame, l’opera che consolidò la fama europea di Algarotti, fu concepito e redatto a Parigi e vide la luce a Milano (con la falsa indicazione di Napoli) nel 1737; messo all’indice, fu ripubblicato con il titolo Dialoghi sopra l’ottica newtoniana nel 1752. La fisica e l’ottica di Newton erano spiegate in tono discorsivo a una marchesa per convertirla dalla filosofia cartesiana alle verità scientifiche newtoniane. Nel 1739 Algarotti, al seguito di una spedizione inglese, si imbarcò per Pietroburgo, toccando Olanda, Danimarca e Svezia: i Viaggi di Russia scritti in forma odeporica, sono una relazione geografica, politica e di costume dell’esperienza del viaggio. Di ritorno dalla Russia, Algarotti conobbe Federico II e si fermò prima a Berlino, dal 1740 al 1742, e poi a Dresda presso Augusto III elettore di Sassonia dal 1742 al 1746; da lì ritornò a Berlino, dove rimase fino al 1753. Tornato in Italia per curare la salute malferma, visse tra Venezia e Bologna e morì a Pisa nel 1764.
Gli anni che seguirono il ritorno in Italia furono dedicati alla stesura di scritti di varia natura che da un lato proseguivano il filone divulgativo già sperimentato con il Newtonianesimo e dall’altro erano l’esito delle molteplici attività cui si era dedicato Algarotti nel corso dei suoi soggiorni all’estero. Vedono la luce in questi anni: Saggio sopra la giornata di Zama (1749), Saggio sopra l’Imperio degl’Incas (1753), Saggio sopra il Gentilesimo (1754), Saggio sopra quella quistione perché i grandi ingegni a certi tempi sorgano tutti ad un tratto e fioriscano insieme (1754), Saggio sopra Orazio (1760), Saggio sopra la quistione se le qualità varie de’ popoli originate siano dallo influsso del clima, ovveramente dalle virtù della legislazione (1762), Saggio sopra il commercio (1763), Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma (1763).
Il Saggio sopra l’opera in musica è dunque frutto di questo periodo di fervore intellettuale e nasce da una conoscenza diretta della messinscena operistica legata alla collaborazione con i teatri delle corti europee dove Algarotti aveva soggiornato. Federico II aveva inaugurato, il 7 dicembre 1742, un teatro destinato alla rappresentazione di spettacoli operistici, lo Hofoper, noto anche come Lindenoper, che doveva essere parte integrante di un ideato e mai completato Forum Fridericianum, comprendente anche una biblioteca. Algarotti aveva soggiornato a lungo a Berlino come consigliere e dal 1746 ciambellano di Federico II, per il quale svolgeva anche incarichi diplomatici; anche negli anni tra il 1742 e il 1746, passati in parte alla corte di Augusto III di Sassonia, egli si occupò delle rappresentazioni nel locale teatro d’opera.
Le prime due edizioni del libro sono dedicate al barone di Svertz, «Direttore de’ divertimenti teatrali nella corte di Berlino», a sottolineare la natura militante dello scritto che affrontava problematiche legate alla prassi concreta della rappresentazione operistica. Fin dalla prima redazione tuttavia Algarotti, nonostante il carattere apparentemente discorsivo dello scritto, è ben consapevole di intervenire in un dibattito che attraversa tutto il XVIII secolo, sullo statuto dello spettacolo operistico e sulla sua collocazione nella gerarchia dei generi letterari. Alla fine della prima redazione, egli cita direttamente gli autori che avevano segnato il dibattito all’inizio del Settecento e che, come scrive alla fine del suo discorso, apprezzerebbero un teatro che applicasse le indicazioni da lui suggerite, tanto che, in questo teatro riformato «I Muratori, i Gravina, gli Addisoni, i Marcelli, i S. Evremondi, e i Dacier non isdegnerebbero essi medesimi d’avervi un palchetto5»
. E aggiunge: «poiché allora non si potrebbe dire che il dramma per musica è un grottesco della poesia; anzi l’età nostra potrebbe darsi vanto di avere in grandissima parte rinovato, dove la poesia, la musica, il ballo e l’apparato della scena faranno insieme un’amica congiura, e la cosa sarà risolta a decoro e verità»
. Da un lato quindi Algarotti guarda alle discussioni italiane del primo Settecento, dall’altro egli pubblica il suo scritto in un momento in cui il discorso sul dramma per musica era al centro di un dibattito europeo6, nel quale erano coinvolti in Francia esponenti di primo piano della philosophie; un dibattito che, se riguardava apparentemente il confronto tra i modelli opposti dell’opera francese e dell’opera italiana, segnava una trasformazione radicale del gusto, in nome di una maggiore aderenza della poesia alla natura e all’uomo, in termini laici e illuministici. L’intervento di Algarotti è dunque quanto mai tempestivo.
La prima redazione, conclusa nell’ottobre del 17547, non ha un’impronta saggistica; rientra piuttosto, come nota Annalisa Bini8, nel genere del pamphlet, cui è riconducibile, anche se con qualche maggiore concessione a un registro saggistico, anche la seconda edizione del 1755; le questioni sono affrontate in modo discorsivo, con l’intento di mettere a fuoco alcuni punti essenziali per rilanciare il discorso sullo spettacolo operistico. La priorità del testo su tutte le altre componenti è la base di partenza del discorso di Algarotti che punta a riformare il teatro per musica in funzione di una disciplina interna dello spettacolo che può essere garantita solo da una regia complessiva che deve organizzarsi proprio attorno al testo. Già in questa prima redazione, a supporto della sua tesi, Algarotti compone una sintetica ricognizione sulla storia dell’opera a partire dalle origini, che intreccia considerazioni più pertinenti relative ad esempio alle scelte tematiche, con valutazioni sull’organizzazione dello spettacolo teatrale e sui condizionamenti imposti dal sistema impresariale rispetto al teatro di corte. Algarotti riprende una delle argomentazioni ampiamente utilizzate da Metastasio nell’Estratto dell’arte poetica (inedito all’epoca, ma di un trattato sulla poetica di Aristotele Metastasio comincia a parlare proprio in una lettera ad Algarotti del 17479), dove il poeta cesareo sosteneva la derivazione dell’opera in musica dalla tragedia. Lo spirito riformista che anima lo scritto di Algarotti converge verso posizioni comuni ai teorici del teatro del tempo, a partire da Ranieri Calzabigi che nell’edizione pubblicata proprio a Parigi nel 1755 delle opere di Metastasio10 elogiava l’autore cesareo, pur indicando anche delle strade alternative rispetto alla drammaturgia metastasiana che avrebbe messo in pratica attraverso la collaborazione con il compositore Cristoph Willibald Gluck.
L’intervento di Algarotti d’altronde, se anticipa alcuni dei temi al centro della riflessione dei decenni successivi, rappresenta anche un momento di rilancio della discussione che parte dalla constatazione della diffusione europea dell’opera italiana e da un’accettazione del genere nel sistema complessivo della cultura letteraria. Il dibattito sul teatro musicale che aveva animato le discussioni dell’inizio del secolo si collocava all’interno della riflessione sulla tradizione nazionale ed era strettamente connesso con le questioni che dominano il quadro culturale primo settecentesco: la riforma dei generi letterari, il confronto con la cultura francese, l’eredità della poesia secentista11. Proprio nel 1700 il secolo esordiva con la decisa censura di Giovan Mario Crescimbeni12 che aveva negato legittimità letteraria al dramma per musica, al quale attribuiva la corruzione di ogni regola poetica e la negazione di ogni intento educativo della poesia. Anche Lodovico Antonio Muratori nel Della perfetta poesia italiana (1706) affrontava la questione e non solo deprecava gli esiti di inverosimiglianza e di incongruenza insiti nella struttura stessa del dramma per musica, ma polemizzava contro l’assenza di ogni vocazione educativa che il classicismo primosettecentesco attribuiva al teatro; gli faceva eco nel condannare l’opera nel Della tragedia (1715) Gianvincenzo Gravina che non contestava tanto l’unione di poesia e musica quanto gli esiti del teatro contemporaneo che amplificavano la corruzione di entrambe le componenti del dramma per musica. Il tentativo di mediazione di Pier Jacopo Martello era rimasto un caso isolato; in Della tragedia antica e moderna (1714), lo scrittore, con fare un po’ provocatorio, sosteneva che era la musica a ispirare la poesia e prendeva le distanze dal logocentrismo primosettecentesco in nome di un riconoscimento del piacere suscitato dalla musica. La posizione di Algarotti, a qualche decennio dal dibattito ora evocato, mostra che il successo europeo del dramma metastasiano aveva di fatto legittimato la poesia per musica, di cui, proprio con riferimento al dibattito primosettecentesco, si sottolinea la derivazione dalla tragedia classica; una volta liberato il campo dalla necessità di giustificare l’esistenza stessa della poesia per musica, nello scritto di Algarotti il discorso si sposta su questioni più tecniche e sulla natura del rapporto tra tutte le componenti del teatro musicale.
È in questo contesto e con questi presupposti che va considerata la difesa della centralità della poesia con cui Algarotti esordisce nel suo Discorso, facendone l’argomento perno attorno al quale egli organizza tutto il suo testo che nella prima redazione è ancora privo della divisione in paragrafi. Le argomentazioni di Algarotti, se da un lato riprendono i termini del dibattito primo-settecentesco, dall’altro però si avvalgono della conoscenza diretta del mondo teatrale contemporaneo, che ha un ruolo centrale non solo in questa, ma anche nelle redazioni successive. La prospettiva di Algarotti rispetto ai letterati che lo hanno preceduto è quindi sostanzialmente diversa nonostante l’apparente convergenza teorica: il suo intento non è quello di trovare una collocazione alla poesia per musica nel sistema dei generi letterari, ma di riformare dall’interno il dramma per musica rivalutando la componente letteraria nel confronto con le altre parti dello spettacolo operistico.
Stabilito dunque il principio essenziale della superiorità della poesia, Algarotti affronta in successione le questioni centrali del dramma per musica: la scelta degli argomenti, il rapporto tra recitativo e aria che va armonizzato per superare ogni troppo artificiale contrapposizione, la necessità di una maggiore semplicità e naturalezza nell’orchestrazione delle arie, la recitazione dei cantanti, il rapporto tra i balli e l’opera che deve essere regolato in base a una più stretta coerenza, gli scenari. Concludono il discorso, come in tutte le versioni, lo schizzo di Enea in Troja e il quadro di Ifigenia in Aulide, scritto in prosa francese, due argomenti destinati all’intonazione, scelti per la loro efficacia scenica. Algarotti dialoga con d’Alembert, autore del Discours préliminaire de l’Encyclopédie, fin da questa prima redazione nella parte relativa alla trattazione della musica13, ma cita, tra i contemporanei, anche Metastasio, Leibnitz, Antonio Maria Salvini, Voltaire, di cui sono riportati dei versi tratti dal poema Le Mondain 14 del 1736 che scompaiono nella seconda redazione del 1755 e sono invece ripresi nella redazione livornese del 1763.
Le opzioni tematiche sono uno degli argomenti centrali del discorso, perché da esse derivano le scelte drammaturgiche e lo sviluppo dell’azione; il tema non deve essere né troppo attinente alla storia per l’eccessiva severità di alcuni soggetti e per l’incongruenza legata all’accostamento tra soggetti storici, cori e balli e nemmeno essere troppo debitore a un meraviglioso mitologico che richiederebbe, come nel Seicento, troppo dispendio di macchinari e suggerirebbe un’inclinazione eccessiva verso la spettacolarità e l’artificio come avviene nelle opere francesi, dalle quali Algarotti, rifacendosi ad argomentazioni diffuse nella trattatistica di questi anni, prende la distanza. L’argomento deve sottostare ad alcune condizioni, permettere la delineazione dei caratteri dei personaggi e delle loro passioni e legarsi in modo organico alle altre componenti, musica, cori, balli, necessarie per la buona riuscita dell’opera. Il favoloso e l’invenzione hanno un ruolo importante proprio come mezzi per sedurre e rapire lo spettatore, in una ideale concordia tra tutte le parti del dramma.
D’altronde anche qui l’impianto teorico è sostenuto dal confronto con la pratica diretta di gestione teatrale acquisita da Algarotti nel corso del soggiorno prussiano e infatti gli esempi evocati di drammi richiamano intonazioni rappresentate alla corte di Federico II15: è apprezzato ad esempio Montezuma, scritto dallo stesso Federico II, per il fantastico evocato dallo scenario esotico; sono citati come temi Armida e Orlando, così come Enea in Troja e Ifigenia in Aulide, argomenti scelti per le due proposte esemplari di drammi pubblicati alla fine del testo.
Algarotti entra anche nel dettaglio della composizione musicale e arriva a sostenere una tesi, che è debitrice agli esiti della parigina querelle des bouffons del 1752-54: «Una qualche immagine della vera musica da Teatro ci è restata solamente, sia detto con pace de’ Virtuosi, nelle nostre Opere buffe16.»
La vivacità del discorso fin dalla prima redazione è data anche dalla prassi di Algarotti di fare sfoggio dei suoi molteplici saperi e interessi e di operare continui parallelismi tra l’opera in musica, la pittura, la scultura, l’architettura, chiamate in causa in varie parti del Discorso e soprattutto in quelle dedicate alla scenografia.
La seconda versione del 1755, pubblicata sempre dall’editore veneziano Pasquali e intitolata Saggio sopra l’opera in musica, riprende la redazione precedente ampliata con esempi che approfondiscono le questioni e con una struttura più articolata nell’esposizione degli argomenti. La divisione in paragrafi, introdotta a partire da questa edizione, rimane in tutte le edizioni successive e comprende le seguenti sezioni: Del libretto, Della musica, Della maniera del cantare e del recitare, Dei balli, Delle scene.
Il tono pamphlettistico in questa seconda redazione è ridotto a vantaggio di un’orchestrazione più controllata del discorso; ad esempio è espunta una critica agli impresari che nella prima redazione precedeva le osservazioni relative al libretto, evidentemente considerata troppo contingente e non adatta all’andamento più formale che Algarotti vuole dare al Saggio: «Ma questa così solenne riforma in vano noi l’attenderemmo dalle nostre tumultuarie compagnie di teatro e da’ nostri impresari che ne sono alla testa; i quali o non sanno ciò che fare si convenga, o pure, atteso i mille rispetti che sono forzati di avere, nol possono mandare a esecuzione17.»
Sono inoltre ridotti i riferimenti a esperienze specifiche e cronachistiche come quelle relative al teatro di Berlino; la digressione18 sull’opera Montezuma, attribuita a Federico II, è omessa nella seconda redazione dove mancano tutti i suggerimenti relativi alla intonazione e rappresentazione dell’opera.
La sezione Della musica si apre con un’ampia digressione assente nella prima redazione in cui si ribadisce la natura ausiliaria della musica rispetto alla poesia. La necessità di confermare e rafforzare ulteriormente l’approccio letterario nasce dal più pronunciato intento teorico che anima maggiormente questa seconda redazione rispetto alla prima. Verso la fine del paragrafo, un altro grande inserto assente nella prima redazione riprende argomentazioni classiciste arcadiche per promuovere armonia e semplicità come linee guida alle quali anche il discorso musicale si deve attenere in una visione organica dello spettacolo operistico, il cui fine deve essere quello di unire armoniosamente poesia e musica per muovere le passioni: «Talché un direbbe che a’ secoli nostri è tornato il secolo del secento per la musica. La bella semplicità che sola può imitar la natura, fu sempre preferita da chi ha fior di gusto a tutti i raffinamenti dell’arte19.»
La conclusione si distanzita decisamente da quella della prima redazione; proprio in virtù di una ricomposizione del discorso in termini meno militanti e immanenti, sono espunti i toni anche polemici che avevano caratterizzato la prima redazione, laddove Algarotti prendeva le distanze dal dibattito e dalle censure primosettecentesche, criticava il costume corrotto del teatro contemporaneo20 e citava i versi provocatori di Voltaire tratti da Le Mondain. La conclusione di questa seconda redazione ha un tono decisamente più sobrio e si concentra sulle questioni più tecniche: anche l’esclusione del riferimento ai protagonisti del dibattito primisettecentesco («I Muratori, i Gravina, gli Addisoni, i Marcelli, i S. Evremondi, e i Dacier ecc.21»
) mostra la volontà di un discorso più pacato, concentrato sulle soluzioni tecniche e sulla ricerca di un compromesso in grado di valorizzare la tradizione italiana pur nella consapevolezza della necessità di una riforma radicale dello spettacolo.
Questa seconda redazione del Saggio fu inviata a Metastasio, che ebbe una reazione emblematica, nel rilevare e commentare esplicitamente soltanto la pars destruens del discorso di Algarotti; il lamento verso il teatro impresariale, lo strapotere dei cantanti, le imposizioni della musica. Il poeta cesareo sorvola invece su tutti gli aspetti tecnici che evidenziano anche una presa di distanza di Algarotti dalle soluzioni del teatro metastasiano, soprattutto per quanto riguarda la scelta degli argomenti, la concessione al meraviglioso come componente necessaria, l’alternanza più organica tra recitativo e aria.
Nella lettera inviata da Vienna il 9 febbraio 1756 ad Algarotti, Metastasio converge così sul degrado dei gusti del pubblico senza addentrarsi nello specifico delle argomentazioni dell’amico veneziano, che pur riconoscendo la qualità dei testi metastasiani e l’eccellenza dei suoi drammi, delineava un modello di teatro per musica più adatto ai tempi e al costume europeo e che quindi, per questioni organizzative e soluzioni teoriche, andava oltre il modello metastasiano:
Ho letto il vostro Saggio; vi ci ho trovato dentro, l’ho tornato a leggere, per essere di nuovo con esso voi; da cui non vorrei mai separarmi. Io che mi risento più d’ogni altro degli abusi del nostro teatro di musica, più d’ogni altro vi son tenuto del coraggio col quale ne intraprendete la cura. Ma, amico soavissimo, la provincia è assai dura. Queste parti dell’opera, che non abbisognano che d’occhi e d’orecchi negli spettatori per farne proseliti, raccorran sempre maggior numero di voti che le altre, delle quali non può misurare il merito che l’intelligenza e il raziocinio. Tutti vedono, tutti odono, ma non tutti intendono, e non tutti ragionano. E’ vero che quando le prime e le seconde parti coniurant amice, anche lo spettatore grossolano sente senza intendere un maggiore piacere: ma è vero altresì che la difficoltà e la rarità di tale accordo obbliga, per così dire, i teatri da guadagno a fidarsi più di quelle arti delle quali son giudici tutti, e queste poi sciolte da ceppi d’ogni relazione e convenienza, ostentano in piena libertà senza cura di luogo o di tempo tutte le loro meraviglie, e seducono il popolo col piacere che prestano dal desiderio del maggiore, di cui lo defraudano. Ma questa lettera diverrebbe facilmente una cicalata, per poco ch’io secondassi la mia propensione22.
La terza edizione, pubblicata nel 1757 sempre dall’editore Pasquali di Venezia23, riporta la stessa intestazione e dedica delle precedenti, ma rielabora e amplia i paragrafi centrali dedicati alla musica, al canto e alle scene, anticipando alcune delle integrazioni e modifiche che appariranno in modo più cospicuo nella redazione successiva. Poche sono dunque le modifiche rispetto alla seconda redazione del 1755; anche la conclusione che è profondamente cambiata nel passaggio dalla prima alla seconda redazione rimane qui sostanzialmente invariata.
La quarta redazione, pubblicata nel 1763, segue anni molto intensi per il dibattito sull’opera, che annovera, tra il 1755 e il 1763, alcuni interventi che ripropongono il problema della collocazione del teatro per musica nella cultura letteraria del tempo e della sua riforma. I vari tentativi e la pluralità di voci, l’intensificarsi di interventi mostrano la grande diffusione e centralità del dramma per musica, ma anche la difficoltà, da parte dei letterati e degli addetti ai lavori, di dominare e classificare un genere che non poteva essere codificato e riformato secondo dei parametri esclusivamente letterari, estremamente permeabile inoltre a suggestioni tematiche, espressive e strutturali provenienti da fonti diverse e fortemente debitore ai gusti di un pubblico italiano e straniero, popolare e cortigiano. Così mentre Metastasio rappresentava il paradosso del massimo scrittore melodrammatico, destinatario di un successo ineguagliabile, che si considera postumo a se stesso e testimone di cambiamenti che lo rendono marginale mentre è ancora lo scrittore più rappresentato d’Europa, i letterati e la gente del mestiere si interrogano sulla struttura del dramma per musica e sul rapporto con il pubblico e propongono istanze di riforma, che in questa fase del dibattito e ancora per alcuni decenni, cercano una mediazione tra il modello logocentrico metastasiano ancora di grande successo, quello dell’opera francese, alla base di un grande teatro nazionale dal quale era impossibile prescindere, e le singole sperimentazioni legate a luoghi e figure come la Berlino di Federico II, la Vienna di Metastasio ma anche di Gluck, Calzabigi e Durazzo, l’Inghilterra.
Il contributo più vicino a quello di Algarotti è sicuramente la Dissertazione 24 che Calzabigi pubblicò come premessa dell’edizione parigina delle Opere di Metastasio, uscite nello stesso anno del Saggio. Calzabigi concordava nel considerare i drammi di Metastasio delle «perfette e preziose tragedie»; la sintonia con la drammaturgia metastasiana si ha anche per quanto riguarda il rapporto tra le arie e i cori e il rifiuto dell’unità di luogo. Deciso nel contrastare l’opera francese, nel clima della querelle des bouffons, per l’eccesso di artificio e spettacolarità, Calzabigi loda il modello metastasiano25, ma di fatto già lo supera nella direzione di una maggiore coerenza nella definizione dei personaggi, di una più organica tessitura tra aria e recitativo, di uno sviluppo complessivo più aderente a un ideale di naturalezza che la querelle des bouffons aveva attribuito come tratto distintivo al teatro musicale italiano; egli delinea insomma quello che sarà il tentativo di riforma realizzato qualche anno dopo a Vienna con Cristoph Willibald Gluck, a partire da Orfeo e Euridice del 1762. I temi in comune con Algarotti sono molteplici; inoltre la Dissertazione di Calzabigi dà alla questione un ulteriore respiro europeo e approfondisce l’approccio già sperimentato da Algarotti: la poesia è considerata il cuore della drammaturgia operistica, responsabile dell’organicità del tutto, ma è anche vista come parte di un prodotto dal funzionamento complesso, al successo del quale concorrono tutte le componenti del dramma per musica. L’interesse si è decisamente spostato da una considerazione del quadro complessivo della gerarchia dei generi letterari all’interno della tradizione poetica italiana all’analisi di uno spettacolo in sintonia con i gusti del pubblico, in grado di cogliere le sollecitazioni provenienti dall’esterno e atto a rispondere alla richiesta di una poesia allo stesso tempo formativa e consona a intercettare le passioni umane e ad accompagnare lo sviluppo verso un nuovo umanesimo che pone la sensibilità e lo sviluppo intellettivo dell’uomo reale al centro del discorso.
Sono strettamente connesse al Saggio di Algarotti anche le Riflessioni sopra i drammi per musica, di Giammaria Ortes, apparse anonime a Venezia nel 1757 presso lo stesso editore Pasquali che26 aveva stampato, due anni prima, le prime due redazioni del Saggio di Algarotti e che nel 1757 pubblica la terza redazione del Saggio. Ortes è legato da una profonda e duratura amicizia ad Algarotti, con il quale scambia commenti sulle stagioni teatrali e soprattutto operistiche; il rapporto è favorito anche dal fatto che entrambi gli scrittori si muovono su uno scacchiere europeo, al cui centro ancora una volta si collocano Venezia e Vienna. Le lettere che Ortes27 inviava ad Algarotti contengono diversi riferimenti non solo alle stagioni teatrali, ma anche alla scrittura di testi per musica, nella quale Ortes si cimenta costantemente attorno agli anni 40-50. Ortes condivide anche alcune esperienze europee di Algarotti come la frequentazione dei teatri di Vienna e Berlino e la conoscenza del repertorio veneziano.
Nelle Riflessioni lo scrittore rivaluta l’opera buffa come genere che permetteva una più armonica integrazione tra musica e azione e limitava il rischio presente nei drammi seri di una musica artificiale dissociata dalle parole. Il testo parte dall’esperienza concreta dello stato dell’opera italiana in Europa e considera le articolazioni e specificità nazionali, la subalternità della poesia alla recitazione e al canto, la necessità di movimento per contrastare la noia, il piacere sensoriale dello spettatore come strumento di giudizio del successo di un dramma. Ortes distingue inoltre tra musica espressiva che rafforza la poesia e musica artificiale, aliena dal contesto, ricca di ornamenti fini a se stessi. L’intento dell’opuscolo è operativo, coniuga la conoscenza dello stato dell’arte con la pratica scrittoria e si avvale di un approccio pragmatico, che nasce dalla conoscenza della situazione reale dei teatri per musica e dalla necessità di soddisfare i gusti del pubblico più che da astratti disegni riformistici. Come avviene anche nel saggio di Algarotti, anche qui Ortes unisce discorso teorico e applicazione pratica e propone, alla fine dell’opuscolo, l’azione drammatica a quattro voci Calisso Spergiura; il tema fantastico mitologico rientra nella casistica contemplata anche da Algarotti, ostile all’utilizzo di temi storici per l’inverosimiglianza e la monotonia e incline a una maggiore concessione al favoloso.
Altri due testi, sempre di portata europea, intervengono nel dibattito negli anni successivi. Il primo è la Lettre sur le méchanisme de l’opéra italien, pubblicata con l’indicazione di Napoli, ma in realtà uscita a Parigi28; il problema della paternità della lettera, attribuita al diplomatico Josse de Villeneuve o a Giacomo Durazzo o addirittura in tempi recenti a Calzabigi non è mai stato del tutto risolto29. La lettera prende spunto proprio dalla Dissertazione di Calzabigi, pubblicata anche a puntate nel «Journal étranger»30, e riconosce la necessità di una riforma dell’opera che agisca nel concreto, nelle scelte tematiche (con risultati affini a quelli di Algarotti), nella revisione del rapporto tra aria e recitativo, nella drammaturgia tratta anche dai modelli francesi.
Un altro contributo che risale a questi anni sono i saggi scritti in forma di lettera inviata dal cantante e letterato Vincenzo Martinelli Al Signor conte di Buckinghamshire, in particolare Sulla origine delle opere in musica e Sopra la ragione del canto e sua composizione
31. Martinelli interviene nel dibattito sostenendo che «ove non è poesia non può essere musica, o almeno buona musica32»
e auspica una formazione letteraria per compositori e cantanti, non semplici esecutori, ma interpreti consapevoli di un’arte che deve avere «piena cognizione» e «entrare nel midollo33»
delle passioni.
La ricchezza di pubblicazioni sull’opera in musica in questi anni e l’urgenza di dare risposte alla crisi del genere e al superamento del modello metastasiano può spiegare il fatto che Algarotti, dopo le prime tre edizioni del suo saggio, senta la necessità di intervenire ulteriormente e di apportare integrazioni e ampliamenti alle prime redazioni del testo. I contenuti non sono sostanzialmente modificati, ma è chiaro che l’autore, infittendo la presenza di fonti e citazioni, soprattutto francesi e inglesi, intende dare maggiore respiro e prestigio al suo testo e collocarlo nel dibattito europeo.
La nuova edizione del Saggio, la quarta tra quelle curate dall’autore, fu pubblicata da Marco Coltellini a Livorno nel 1763. Coltellini è a sua volta un librettista e quindi particolarmente motivato nella pubblicazione dello scritto algarottiano, questa volta non più dedicato al sovrintendente del teatro di Berlino, ma all’uomo politico inglese William Pitt, italianizzato in Guglielmo Pitt. Algarotti rende conto della scelta, che potrebbe essere considerata singolare, di rivolgersi con un trattato teatrale a un uomo di stato e replica difendendo «l’ozio erudito34»
e l’utilità delle lettere per sostenere l’eloquenza prodotta nelle sedi istituzionali dallo statista inglese. Nella dedica si intravede già una dichiarazione programmatica: facendo anche riferimento al «gran Federigo», amico di Pitt, Algarotti sottolinea il ruolo che le lettere hanno nella gestione degli stati in linea con una prassi di collaborazione con i sovrani ampliamente messa in pratica nel Settecento anche da Voltaire e Diderot.
La dedica quindi è già un segnale di una diversa destinazione e orchestrazione dello scritto, che si colloca all’interno di un dibattito più ampio sull’organizzazione degli spettacoli teatrali, sul loro ruolo e responsabilità nella società contemporanea, un tema presente fin dalla Introduzione che precede il primo paragrafo dedicato come sempre al Libretto. La corruzione dello spettacolo operistico è paragonata a «uno stato sconvolto35»
, che necessita di una guida che riconduca il teatro allo scopo di educare il popolo alla virtù, come avveniva nel teatro antico. Le riserve nei confronti del teatro impresariale, che domina il quadro italiano in misura maggiore rispetto a quanto avviene in Europa dove il teatro musicale è sostanzialmente spettacolo cortigiano, sono presenti in misura maggiore in questo Saggio scritto anni dopo il ritorno in Italia dell’autore. Centrale appare dunque subito il motivo dell’organizzazione e gestione dello spettacolo, le cui componenti devono essere armonicamente legate tra di loro e sottoposte a una guida, una regia, cui tutto deve essere ricondotto; prospettiva molto più realizzabile nel teatro di corte piuttosto che nel teatro impresariale secondo Algarotti. Il tema del rapporto tra testo e musica, centrale nelle redazioni precedenti, diventa una delle problematiche del teatro per musica che deve essere considerata in relazione al sistema complessivo. Il Saggio, da discorso in parte tecnico relativo agli equilibri tra le arti, diventa molto di più un trattato sull’organizzazione teatrale e sulla funzione del teatro nella società contemporanea. Per ottenere questo scopo Algarotti raffina la sua scrittura, inserisce esempi e dettagli e nella redazione ulteriore del 1764, quasi uguale a quella precedente, correda il testo con un apparato di note d’autore più sviluppato. Non viene meno la volontà di riflettere sulla funzione catalizzatrice della poesia ma ogni aspetto è visto sullo sfondo del sistema complessivo di organizzazione degli spettacoli. Anche l’aggiunta, alla fine del trattato, di un paragrafo dedicato alla costruzione dei teatri e a problemi logistici, mostra la volontà di riformare nella sua interezza il mondo dello spettacolo operistico, a partire dal rapporto tra testo, musica, canto, ballo cui è dedicato un ampio spazio, fino alla soluzione dei problemi logistici e organizzativi.
Ma è soprattutto il registro del discorso che cambia in modo sostanziale; abbandonati i toni discorsivi delle redazioni precedenti, Algarotti si affida a un registro più argomentativo dal quale a tratti riaffiora la retorica colloquiale, da conversazione salottiera e mondana che aveva caratterizzato le altre redazioni; il discorso è però molto più disteso e ricercato, sicuramente più erudito ed elaborato nella costruzione sintattica; una certa enfasi retorica sottolinea la volontà dell’autore di incidere effettivamente nella questione e di attribuirsi un ruolo di rilievo nel contesto del dibattito internazionale. A questo scopo Algarotti utilizza due strategie; da un lato considera nel dettaglio le singole problematiche articolate nei diversi paragrafi e dall’altro cerca di approdare a dei quadri teorici riassuntivi che funzionino da linee guida per costruire l’opera riformata del futuro. Così nella Conclusione egli ricorda «non altro essendo stato l’intendimento mio, che di mostrar la relazione, che hanno da avere tra loro, le varie parti constitutive dell’opera in musica, perché ne riesca un tutto regolare, ed armonico». Sono anche ripresi, sempre in conclusione, i riferimenti al dibattito primosettecentesco, presenti nella prima redazione ed espunti dal Saggio del 1755 e dall’edizione del 1757, quasi che alla nuova ampliata versione sia affidato il compito di riassumere i termini della questione e di legittimare anche attraverso il riferimento ai teorici della tradizione le soluzioni da lui prospettate che rendono piena dignità letteraria al genere operistico.
L’ultima redazione è inserita nell’edizione complessiva, in nove tomi, delle Opere di Algarotti curata dall’editore Coltellini36 e pubblicata a Livorno; Algarotti seguì personalmente la pubblicazione dei primi tre tomi, prima di morire, e poté apportare ulteriori integrazioni al Saggio che risulta corredato di alcune note d’autore assenti nella precedente edizione del 1763.
La storia interna del libro, legata alle diverse circostanze di stesura e di pubblicazione, rileva la centralità attribuita alla questione dall’autore che non solo rivide più volte il testo, ma cercò anche di integrarlo in relazione ai possibili destinatari e in funzione del dibattito complessivo che in questi anni si aggiorna costantemente, in tutta Europa. Algarotti interpreta una risposta italiana alla querelle des bouffons e nonostante le critiche e la consapevolezza dell’esistenza dei consueti problemi della rappresentazione operistica, promuove un genere al quale nel Settecento è affidata la fortuna europea della lingua e della letteratura italiane e spende quindi la sua esperienza cosmopolita al servizio di una causa volta a valorizzare non solo la tradizione letteraria italiana, ma anche la creazione, attraverso il dramma per musica, di un linguaggio poetico universale, di grande diffusione, capace di parlare alle corti e al popolo e in grado di esprimere le passioni dell’uomo moderno.
Nota al testo
La storia redazionale del Saggio sopra l’opera in musica è stata ricostruita da Giovanni da Pozzo37 prima e da Annalisa Bini in anni più recenti38.
Algarotti pubblicò cinque edizioni del Saggio, dalla prima, uscita a Venezia nel 1755, fino alla quinta pubblicata a Livorno nel 1764. Il testo risulta, dalla prima alla quinta edizione, rivisto e progressivamente ampliato e arricchito di note.
Di seguito le cinque edizioni curate dall’autore:
Discorso sopra l’opera in musica, in Discorsi sopra differenti soggetti, Venezia, Giambattista Pasquali, 1755, pp. 1-112.
Saggio sopra l’opera in musica, Venezia, Giambattista Pasquali, 1755.
Saggio sopra l’opera in musica, in Opere varie del Conte Algarotti Ciamberlano di S. M. il Re di Prussia e Cavaliere dell’Ordine del Merito, Venezia, Giambattista Pasquali, 1757, vol. II, pp. 277-365.
Saggio sopra l’opera in musica, Livorno, Marco Coltellini, 1763.
Saggio sopra l’opera in musica, in Opere del Conte Algarotti Cavaliere dell’Ordine del Merito e Ciamberlano di S. M. il Re di Prussia, Livorno, Marco Coltellini, 1764, vol. II, pp. 251-390.
L’edizione qui riprodotta è l’ultima curata da Algarotti per il tomo II dell’edizione completa delle sue opere approntata dal libraio livornese Marco Coltellini, alla quale Algarotti collaborò solo per i primi tre tomi prima di morire.
Il testo delle edizioni del 1763 e del 1764 è profondamente ampliato rispetto a entrambe le prime due edizioni veneziane del 1755, che presentano già tra di loro delle profonde differenze, nonostante le date ravvicinate di pubblicazione.
La prima delle due edizioni del 1755, conclusa nel 1754, fu pubblicata all’inizio di una raccolta che comprendeva i seguenti discorsi: Sopra la durata de’ regni de’ re di Roma; Sopra la giornata di Zama; Sopra il Cartesio; Sopra la pittura; Sopra la rima e le Epistole in versi. I due testi teatrali Enea in Troja e Iphigénie en Aulide accompagnano il testo fin da questa edizione.
La seconda redazione, pubblicata sempre nel 1755, è riprodotta in fac simile nel volume curato da Annalisa Bini e presentata come una versione più nota rispetto alla precedente verso la quale riporterebbe «differenze piuttosto formali che sostanziali39»
. Questa versione è decisamente ampliata rispetto alla precedente, della quale riporta la stessa epigrafe tratta da Ovidio «Sed quid tentare nocebit?»
(Ovidio, Metam., lib. I) e la stessa dedica rivolta al Barone di Svertz, Direttore de’ divertimenti teatrali nella corte di Berlino.
I due testi hanno molte differenze dal punto di vista della destinazione e della costruzione del testo stesso. Il Discorso appare infatti come un testo più pragmatico, una bozza poco elaborata; ha una struttura più colloquiale e si presenta effettivamente come una serie di suggerimenti e riflessioni rivolte al dedicatario e legate alla pratica teatrale acquisita da Algarotti presso le corti di Berlino e di Dresda. Il Saggio del 1755, ancora dedicato al barone di Svertz, mantiene la natura discorsiva, integra alcuni passaggi e ne elimina altri, come i riferimenti legati in modo specifico all’esperienza berlinese; il tono nel complesso è più curato, meno colloquiale, ma nella sostanza le due prime redazioni risentono dello stesso clima culturale e di una destinazione più circoscritta.
La terza edizione veneziana del 1757 riporta la stessa intestazione e dedica delle precedenti, ma rielabora e amplia i paragrafi centrali dedicati alla musica, al canto e alle scene, anticipando alcune delle integrazioni e modifiche che appariranno in modo più cospicuo nella redazione successiva.
Cambiamenti sostanziali sono infatti presenti nella prima delle due edizioni livornesi, quella del 1763. Il testo è notevolmente ampliato, gli argomenti sono corredati da un maggior numero di esempi e approfondimenti e il discorso è più curato e controllato; Algarotti scrive dopo che sono stati pubblicati diversi interventi sul melodramma e intende collocarsi nel dibattito contemporaneo, rivolgendosi a un pubblico più ampio rispetto ai destinatari di ambito più specificatamente veneziano e mitteleuropeo delle redazioni precedenti. La dedica è datata Pisa, 18 dicembre 1762 ed è rivolta allo statista inglese William Pitt. Un intero paragrafo, Del teatro, assente nelle redazioni precedenti, è aggiunto alla fine, prima della conclusione; tratta dell’architettura e della costruzione dei teatri d’opera.
L’ultima edizione, qui trascritta in quanto corrisponde all’ultimo testo rivisto dall’autore, è integrata sostanzialmente, rispetto alla precedente del 1763, con ulteriori note e citazioni, anche in inglese e francese, che spiegano e approfondiscono alcuni riferimenti presenti nel testo.