FUGGIA veloce il Toro da la vista Del possente Leon, ch’era lontano : E ’l vil Montone, che da lunge il vide Venir correndo e di paura pieno, Credendo fargli ancor maggior paura, In mezo de la via tosto fermossi Chinando il fronte, e le ritorte corna Per cozzar seco. […] O pazzo e vil che sei, Poi che tanta folia tu meco ardisci, Che con un piede sol franger potrei L’ossa tue tutte, e far tue forze vane, S’io mi degnassi di contender teco, Né da cura maggior cacciato io fussi Al corso, che vietarmi indarno tenti. […] Così talhora un huom, che poco vaglia, Battaglia move a l’huom di lui più forte, E prende ardir da le miserie note Di far ingiuria al misero, che oppresso È da cura maggiore, onde si vanta Poi vanamente de le proprie forze, Mentre colui, che a maggior cose attende, Senza difesa far nol cura, o stima.
Il che veduto allhor l’afflitta madre Restò del caso rio trista e dolente ; Et non potendo farne altra vendetta, Quando per esser animal terrestre, Et senza penne da levarsi a volo, Non può gir dietro a sì veloce augello ; Di cor la maledice, et la bestemmia, Sì come fanno i miseri impotenti, C’han per solo rimedio in mezo a i guai Lo sfogar in tal guisa il giusto sdegno Contra chi loro a torto ingiuria move : In tanto odio e veleno si converte De le grate amicitie la dolcezza Quando da gli empi simulati amici Indegnamente violate sono. […] Tal ch’uscita la fiamma, e circondando Tutto del vampo suo già intorno il nido, De l’Aquila i figliuoli per la tema D’arder, c’havean de l’importuno caldo, Abbandonando il nido, e non havendo Valore ancor da sostenersi a volo, Si lasciaro cader sopra il terreno. […] Così fra noi mortali avenir suole, Che chi de l’amicitia i sacri patti Per non degna cagion profano rompe, Quantunque de gli offesi amici al tutto Possa schivarsi da l’ultrice mano ; Non è però che col girar de gli anni Schivar possa di Dio la giusta spada. Et colui, ch’una volta, o più da tale Riceve a torto in alcun modo offesa Quando gli è data occasion sovente Fa de le havute ingiurie aspra vendetta. Però devrebbe inviolabilmente Ognun servar de l’amicitia vera Le ragion sante, e con l’honesto il dritto : Né per cagion benché importante assai, Che dal giusto si trovi esser lontana, Offesa far al suo fedele amico ; Non havendo a piacer l’esser da quello, O da Dio stesso egli medesmo colto In qualche occasion tardi o per tempo.
VIDE la Volpe da lontano il Gallo Posarsi d’una Quercia in cima un ramo, E per farlo da quel scender al piano, Onde potesse poi di lui cibarsi, Trovò un’astutia : et là correndo in fretta Così si diede a ragionar con lui, Buon dì, fratello ; O che felice nova Ho da contarti. […] Però scendi anchor tu da questi rami, E là ten vola immantinente poi Ch’abbracciato io mi t’habbia, e dato il bacio De la novella pace, e de l’amore, C’habbi a durar tra noi, fratello, sempre, Tutte obliando le passate gare. […] Udito ciò la Volpe, che credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più non dimorar con suo gran danno Oltra lo scorno, ch’avanzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece. […] Che con le burle a la nemica ordite Da le burle di lei medesma, allhora Salvo si rese et da gli inganni suoi. Così l’huom savio, che burlato viene Da chi profession d’accorto face, Sovente suol da l’accortezze altrui Trovar difesa, e trar con doppio scorno, Chi coglierlo volea nel proprio inganno.
SENTÌ ’l Leon gridar verso la sera Dentro un fosso lontan da la sua tana Immensa copia di loquaci Rane Con tal romor, che rimbombava intorno Il vicin bosco, e le campagne tutte, E stimando che qualche horribil mostro, Che novo habitator di quelle selve Fatto si fosse, disfidar volesse Le paesane belve a cruda guerra Per farsi ei sol Signor di quei confini, Uscì de la spelonca immantenente Cercando al suon, che gli feria l’orecchie, Con generoso core e d’ardir pieno Del suo sospetto la cagion fallace. Ma poi ch’ei fu da quel condotto in parte, Ove scoperse l’importuna schiera De i piccioli animai, che ’l gran romore Formar potean con l’insolente grido, Stupido tutto alfin ritenne il passo : E del suo proprio error tra sé si rise : E fatto accorto da l’inteso effetto Dal suo sospetto van, disse in suo core. Stolto ch’io non credea, ch’un tanto grido Di così picciol corpo uscir potesse : Hor qual faria quest’importuno stuolo D’animali ad ogni opra inetti e vili Strepito horrendo, se a la mia conforme In sé la forma e la possanza havesse, Quando da sì vil cor manda tal suono ? […] Dunque stimar non dee l’huom saggio e forte L’inutil suon de le parole vane ; Ma il cor, che tace ; e da gli effetti solo Donar fomento a le sue imprese suole.
Dicendo che ferita era da lui, A cui ricorse ne i bisogni sui. Ma rispose lo spin, che non deveva Ella cercar d’haver da lui soccorso, Che dar per uso natural soleva A chi s’appressa a lui sempre di morso. Che ricorrer altrove essa poteva, E per altro sentier prender il corso : E non salvarsi da importante affanno In man di chi non sa se non far danno.
VIDE la Capra da una rupe al basso Il Leone impazzito e furioso Scorrer con atti strani, e torto passo Hor su, hor giù di campi un largo piano : Et da stupore, et gran cordoglio mossa, Né senza grave horror del suo periglio Tra sé medesma fé cotai parole. O de le fiere miserabil sorte, Infelice sciagura, empio destino : Ché, se quando il Leon di sana mente Scorgeva intorno, alcuna atta non era A sostener il suo possente orgoglio ; Che far potrà quand’ei di mente è fuori, E da discorso san tutto lontano ?
UN bel podere un Contadin da Giove Tolse in governo con espresso patto Che Giove a sua richiesta ogni stagione De l’anno a regger solamente havesse Mandando hor vento, hor pioggia, hor caldo, hor gelo, Secondo ch’ei da lui chieder saprebbe. […] Or su fratel poi c’hai veduto Qual utile t’ha dato il tuo consiglio In farmi governar l’anno a tuo modo, Ara, e semina anchor a modo tuo Quest’anno quel poder, c’hai da me preso E lascia a me la cura del governo De le stagioni del futuro tempo ; Che t’avvedrai qual sia ’l tuo senno e ’l mio. […] Così devrebbe ognun fidarsi in Dio, Né chieder più da lui quello, che questo : Ch’ei, cui nostro bisogno è manifesto, Quel, che convien, ci dà benigno e pio.
TRA i folti rami d’una ombrosa quercia Sedea il Cucuglio nell’eccelsa parte, Et d’altri varii augelli in su la sera Ivi adunati da diversi luochi Era anchor grande et abondante copia : Così tra lor la Gazza entrata anch’essa Volgendo a caso gli occhi in ver le cime Di quell’antica pianta a scorger venne Il Cucuglio, ch’in alto havea ’l suo nido : E da certo mal d’occhi oppressa allhora Mal discernendo quello in cambio il tolse De lo Sparviero, et lui temendo tosto, Ecco lo Sparvier, dice : e via sen vola Senza fermarsi in quel medesmo punto. […] Più tosto voglio esser da voi schernita, Temendo in van del mal falsa cagione, Che stando in gran pericol de la vita Dar di piangermi a’ miei vera ragione.
Ma partito colui, che fu cagione De la paura, e del disturbo loro, Tornar di novo a l’assaggiato cibo, E ne satiaro a pien l’ingorda fame, Benché tremanti, e di sospetto pieni : Né però si sapean levar da mensa Dal gusto presi del soave pasto, Se un’altra volta l’importuno hostiero, Che per altro bisogno ivi tornava, A disturbarli non venia di novo. […] A tal sermon colui, ch’era dal sonno, Ma molto più da la paura stanco, In cotal modo a l’hoste suo rispose. Gratie ti rendo del cortese accetto Che fatto m’hai nel tuo nobil convito Degno del gusto de’ celesti Heroi ; Perché il favor (e sia qual ei si voglia) Che fatto vien da volontate amica, Deve esser sempre in tutti i modi caro, E di grata mercè premio s’acquista. […] Se del savio di Frigia entro a lo specchio, In cui l’huom savio sé medesmo intende E riconosce il pazzo i proprii errori ; Mirate un poco, haver chiara potrete L’oscurità de le miserie vostre : Quinci del vero alfin fatti più accorti, E scorto di Virtute il bel camino, Fuor vi trarrete de l’error comune, Nel quale ognun precipitoso corre : Né stimarete l’oro, o ’l lucid’ostro, O le delicatissime vivande, Le feste, i giuochi, o i trionfali honori Contrapesati da continue cure, E da mille sospetti indegni et vili, Più, che la dolce amata libertade, Più, che l’almo riposo, e l’otio honesto Accompagnato da la gioia immensa D’una tranquillità grata e sicura, Che rende l’huomo in povertà beato. […] Un ben, ch’è mal sicuro, è da sprezzarsi.
L’ANGUILLA un giorno domandò al Serpente, Con cui spesso in amor giacer soleva Dentro a l’humor d’un paludoso stagno ; Da qual cagione derivar potesse, Ch’egli da tutti gli huomini fuggito, Ella a studio cercata era da ognuno, Ambi due sendo d’una stessa forma : E mille sue compagne prese e morte Havea veduto, ond’egli sempre in pace Vivea felice aventurosa vita, Come ella ognihor viveva in pena e in doglia Con continuo timor d’acerba morte. […] Ond’io chi cerca di turbar mia pace Così combatto, o me gli mostro fiero, Che raro avien, ch’egli da me si parta Senza paura, e manifesto segno Del temerario ardir mostrato indarno Per farmi oltraggio : e con orgoglio crudo Non lascio ingiuria mai senza vendetta.
Io ben m’accorgo haver armi e valore Figlio da contrastar co ’l cane, e forse Con più d’un’altra più feroce belva : Ma non ti so già dir perch’io nol faccia. Questo ben ti dirò : Che solo al suono De la sua voce, anchor che da lontano Molto da me talhora udita sia, Tosto mi sento non so che timore, Che mi fa forza contra ogni ragione A fuggir presto dal latrar maligno, Che tremar mi fa tutto il cor nel petto.
D’UN gran vaso di mel, ch’a un pellegrino Si ruppe, era una via sparsa nel mezo Con largo giro : ond’una copia grande Di Mosche in quello da la gola tratte Dolcemente pascean l’amato humore. Ma quando fur ben satie e di mel piene Volendosi da quello alzar a volo Parte da la gravezza del pasciuto Ventre, parte dal mel tenace fatto Dal Sole ardente de l’estivo giorno Ritenute di là mover il piede Mai non potero, e faticarsi indarno.
Tal che più d’un, che la fatica vana Scorgea di lui da carità commosso Gli ricordava con parlar cortese, Che per trovarla a la seconda andasse Del corrente liquor, che in giù trahea. Ma quel, che poco tal pensier curava Così rispose : Io non farò già questo : Perché mentre mia Donna in vita resse Fu da l’altrui parer così diversa, Così di voglia sua, così lontana Dal comune voler, così contraria A qual si voglia altrui genio e costume, Che di ragion non è da creder mai, Che natura cangiando hora ch’è morta, Deggia corso tener se non diverso Tutto, o contrario a quel, che l’onda tiene.
Così devrebbe farsi ad ogni huom rio, Che senza haver cagione offende altrui, Da quelli anchor, che mai da quello offesa Non han sentito, perché ogni altro poi Da sua malvagità viva sicuro : Perché è giustitia il vendicar il torto, Che l’innocenza da l’huom empio sente ; Né merita da gli altri haver perdono Chi fa senza ragione ad altri offesa.
Dunque ubidillo il Corvo, e sparse intorno Tosto di ciò l’ingannatrice fama Tal che di giorno in giorno andava a quello Alcun de gli animai da quel confino Come inteso l’havea tardi o per tempo Per visitarlo : ma quando a lui presso Se lo vedea il Leon, che ’l mezo morto Fingea, l’unghiava con le zampe adunche, E lo sbranava, e ne ’l rendea suo pasto. Così più giorni fece insin che venne L’astuta Volpe, che da un poco sangue, Che vedea presso a lui, sospetto prese, E più oltre passar non volse prima Che ’l salutasse, e da la sua risposta Meglio congietturar potesse il fatto : E tosto accorta a salutarlo prese Lontana un poco per mostrar gran doglia Del suo languire sospirando alquanto ; E a dirle del suo stato lo pregava. […] Rispose ella : Signor mi doglio assai De le vostre sciagure, et lo sa Dio : Ma di venir più avanti ho gran sospetto, Vedendo tutte le vestigie altrui De la spelonca incontra l’uscio volte, E nessuna guardar verso l’uscita : Ond’io fo stima molti esservi entrati, Né fatto haver alcuno indi partita : Però lasciovi in pace ; e se mai posso Farvi servigio, che in piacer vi sia, Farollo volontier, ma da lontano. Così da picciol segno alcuna volta L’huom savio impara con sua gran ventura A scoprir de’ malvaggi il rio secreto : De’ quai bisogna sol creder a l’opre, E non a quel, che in lor la lingua suona.
Il Cigno allhor per naturale istinto Mosso a cantar co’ più soavi accenti, Che possa di sua vita a l’ultime hore, Visto già il ferro de la morte autore, Et esser preso da l’infesta mano Di quell’huom rozo e di pietate ignudo, Nel cor piangendo a cominciar si diede Così leggiadro e dilettoso canto, Ch’a quello il Cuoco del suo errore avvisto Il riconobbe al primo suono, e tosto Lasciollo in pace, e diè di mano a l’Occa. Et via portolla : e quel sciolto rimase Per sua virtù da l’accidente strano. Così l’huomo eloquente ha spesso forza Di lontanarsi da malvagia sorte : E fugge il mal di violente morte Col suo sermone, ond’ei gli animi sforza.
UN ASINEL, che sopra il tergo vile Havea di Giove un simolacro d’oro, Ch’al Tempio il suo padron seco trahea, Mentre passava per diverse vie Era inchinato da la gente tutta, Che con divotion s’humiliava Del nume vano a quella ricca imago. Ma credendo il meschin, che quell’honore Venisse fatto al suo nobile aspetto, Del suo stolto parer tanto gonfiossi, Che preso allhor da quella gloria vana, E tosto in mezo del camin fermato Levando per superbia in alto il capo Tutto si vagheggiava ; et non volea Mirando hor qua hor là mover un passo : E d’esser nato un Asino del tutto Già si scordava, se non era allhora Il suo padron, che con un grosso fusto Percotendo le natiche asinine Gli fece di sé stesso entrar in mente Con molte busse, et con simil parole. Segui pur pazzo il tuo preso camino, Che non sei tu, ma quel, che porti, è ’l Dio, Che da ciascun, che vedi, è riverito.
Onde il Pavone gran broglio facea D’esser quel desso, confidando assai Nella bellezza de le varie penne D’aureo color, e mille gemme tinte : E di questo facendo altera mostra Con lunga oratione in quel senato, Sì che piegavan già le voci tutte Ne i suoi suffragii, contentando ognuno Ch’ei fosse quel, che in loro imperio havesse, Quando tra gli altri se gli offerse innante Il picciol Merlo da le nere piume, E se gli oppose con simil parole. Pensi tu forse, che del regno il peso, Che tanto importa, sostener si possa Da la vaghezza esterior del manto Più, che da la virtù d’un saggio core, E da le forze d’un ardito petto ? […] Così far si devria da quei, che danno Altrui la cura de l’human governo, La salute de’ popoli, e de’ regni Sol commettendo in man di quei, che sanno E posson con valor regger altrui, E sostener di tanta impresa il pondo : Lasciando lo splendor de le ricchezze, E tutte l’altre esterior grandezze, Che siano in quei, che senza ingegno od arte Mal pon regger sé stessi, e peggio altrui.
Onde tornando i cacciatori allhora Per quel confine, e non essendo ascosa La Cervia più da la spogliata vite, La vider tosto : et mentre ella seguiva Senza sospetto in ben satiarne il ventre La saettar con un pungente strale, Che da l’un fianco a l’altro la trafisse. […] Ahi quanto di ragion mi vien la Morte Spogliando del vigor, che mi reggea, Poi ch’io medesma la cagion ne fui, Offendendo con mio non picciol danno Colei, ch’a l’ombra de le foglie sue La cara vita mi salvò pur dianzi : Ond’hebbe poi da me sì ingiusto merto.
E domandato dal compagno allhora De la cagion, perch’ei così facesse, Rispose, che col caldo, che gli usciva Nel fiato fuor da la virtù del core, Dava ristoro a l’agghiacciate mani. […] Allhor colui da meraviglia preso, E da un suo certo a lui sano rispetto In cotal modo a l’huom sdegnoso disse. Frate dapoi, che da tua bocca io veggio Il caldo, e ’l freddo uscir con egual modo, Non vo’ più consentir d’esserti amico ; E dal tuo conversar tosto mi toglio.
E mentre dubbio con tremante core Tentava in ciò la più sicura via, Ecco lontan da mezo il largo humore A lui tosto gridar con rauca voce, Ch’ei l’aspettasse, una loquace Rana : Che allhor mirando gli atti, ch’ei facea, Haveva il fin del suo pensiero inteso : Et aprendosi il calle innanzi ognihora Con le man pronte, e rispingendo a dietro Spesso con ambo i piè la torbid’onda, A quello si condusse in un momento. […] Ma quando al mezo del camin fur giunti L’iniqua Rana a far si diede il tratto, Che fin da prima disegnato havea. […] Or mentre quella al fondo, al sommo questo Si ritraheva con egual valore, Nessun cedendo a le contrarie forze, Un nibio, che di là passava a caso Da l’appetito de la fame tratto Ambo li prese ; et per satiar di loro L’avido ventre, da la rana in prima, Che più molle che ’l topo havea la pelle, Tosto si cominciò render satollo. Così talhor avien, che l’huomo iniquo, Ch’a far altrui si move a torto offesa, A la vita, o a l’honor tramando inganno, Primo nel fil del proprio laccio cade, E da la forte man giusta di Dio Colto con egual sorte insieme resta.
L’ASINO d’un Signor nodrito in corte Vide un nobil corsier ; che d’orzo e grano Era pasciuto, e ben membruto, e grasso ; Passeggiar su e giù dentro il cortile Di seta, e d’or superbamente adorno, Mentre aspettava il suo Signor, ch’armato Montasse in sella, e ’l conducesse dove Marte feroce insanguinava il piano : E felice chiamava ognihor sua sorte, Ch’ei fosse tanto dal Signore amato, Che seco il volea sempre, e gli facea Mille carezze, et ocioso, e lieto Il tenne un tempo con solazzi e feste : Ond’esso mal pasciuto a le fatiche Sempre era posto, né mai conoscea Il giorno da lavor da quel di festa, Continuando un duro ufficio sempre Senza giamai provar ocio, o riposo. Ma quando poscia dopo alquanti giorni Da la battaglia ria tornar il vide Di sudor carco, afflitto, polveroso, E tutto homai del proprio sangue molle Per le ferite, ch’egli havuto havea, Tutto allegrossi de la propria sorte ; Che, se ben il tenea poveramente, L’assicurava da miseria tale : E compensando il duol de le fatiche Con la dolcezza del viver in pace ; E del Cavallo ogni trionfo e pompa Con l’infelicità del mal presente, Racconsolato e di sua sorte lieto Menò contento di sua vita il resto.
UN Vecchio contadino ito a far legna Nel bosco assai da sua stanza lontano Tornava a dietro d’un gran fascio carco : E stanco homai dal troppo grave peso, Da la lunga fatica, e dal camino, Ma molto più da i molti giorni et anni, Che gli premean di doppia soma il fianco, Al mezo de la via su la campagna La sarcina lasciò cadersi a terra Per riposar l’affaticate membra Sotto l’ardor del caldo estivo Sole. […] Et non sapendo qual risposta darle, Disse : Io ti chiamo acciò mi presti aiuto In caricarmi del caduto peso, Che, come vedi, ancora in terra giace : Né da te cerco verun’altra cosa.
STUPIDO il Porco disse un giorno al Cane : Non so, caro fratel, perché tu stai Vicin sempre al patron, che spesso spesso Ti batte, e più tu l’accarezzi ognihora : Tal ch’io, che mai da lui non sento offesa, Anzi nutrito son due volte il giorno, Non me ’l posso giamai veder da presso Con cor sicuro, pur temendo quello, Che tu provato ognihor par che non temi. […] Quinci avien poi, che seco andando a caccia Mi rendo pronto a mille belle imprese : E mi pasco di starne, e di fagiani, E di mille altri cibi ottimi e rari : Tal che dolce mi sembra ogni percossa, Ch’io da lui sento a mia dottrina darmi ; Perch’utile et honore alfin m’apporta, Ond’ho cagion di starmi a lui vicino : Ma tu bene a ragion fuggirlo dei, Et più quando egli ti nudrisce et pasce Di miglior cibo ; perché allhor s’appressa (Né vorrei dirlo) di tua vita il fine ; Quando egli ha gran piacer, che tu t’ingrassi, Stando in quiete, e in dolce almo riposo Per goder poi de le tue carni un giorno.
Ma il Contadin, cui strana cosa parve, Che d’una fiera divenisse moglie La giovinetta sua figliuola, prese Partito di sbrigarsi da tai nozze In questo modo : et tosto gli rispose. Se vuoi per moglie haver la mia figliuola, Che cotanto ami, et mio genero farti, Ti convien prima assicurarmi ch’io Non sia mai per haver da tua fierezza Oltraggio alcuno, et così la fanciulla, Che forte teme il tuo superbo aspetto. […] Ma il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leone, Che non haveva più l’ugne, né i denti, Non solo di negargli hebbe ardimento La figlia, ch’egli li chiedea per moglie ; Ma con un grosso fusto lo percosse Si fieramente nel superbo capo, Ch’a terra lo mandò stordito, e poi In pochi colpi gli levò la vita : E sciolto andò da tal impaccio e briga. La favola in virtù saggia ammonisce L’huom forte, che con altri accordo brama, A non lasciarsi tor l’armi di mano, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel, che contra lui possente il rese, Cangi pensiero di fermar la pace ; E con guerra mortal gli mova assalto, E lo conduca a l’ultima ruina, Senza poter haver da lui contrasto.
Questo veduto allhor Pallade saggia Restò sospesa di stupore alquanto, Che tale elettion fosse caduta Sovra di piante infruttuose e vane, Poi che ciascun sapea, che immensa copia Di fruttifere pur ne havea la Terra, Da farne agevolmente utile eletta : Et domandando al sommo padre Giove Modestamente la cagion di questo, Alfine hebbe da lui cotal risposta. […] Però sarai da i secoli futuri Meritamente ognihor saggia chiamata : Che veramente quella gloria è vana, Che da l’util si vede ognihor lontana.
DA capo a un fiumicel beveva il Lupo, E l’Agnello da lui poco lontano Vide inchinato far simil effetto : E come quel, che di natura è rio, Né havea cagion, e pur volea trovarla Di venir seco a lite, e fargli offesa, Cominciò tosto con parlar altero Dirgli, che mal faceva, e da insolente A turbar l’acque col suo bere a lui, Ch’era persona di gran pregio e stima, Esso vil animal di vita indegno.
IN mezo d’una via stava il Serpente, Né però ad altri facea danno alcuno, Anzi sempre calcato era da ognuno, E tolto a scherno da l’humana gente : E con Giove si dolse, che innocente Essendo, gli era ogni huom sempre importuno.
Ma poi da quel non ricevendo oltraggio, Incontratolo ancor sentì minore La paura, che d’esso hebbe pur dianzi. […] Dunque da tal effetto ogni huom comprende Che l’uso lungo, e ’l pratticar frequente Ogni difficultà facile rende ; Et fa parer domestiche e sicure Le cose horrende, e di perigli piene.
Ahi di natura ugual disugual sorte, Che non so qual destin da cielo piove : Costui si pasce, e riso avien ch’apporte Al padron, cui tal danno appar che giove : Io fin lontan perseguitato a morte Vengo, se ’l guardo pur pensando altrove : Tal il favore ottien da molti spesso, Che in altri appar minore un fallo stesso.
GIUNSE la Volpe da la fame scorta Ove una Vite co i pendenti rami Facea d’uve mature allegra vista : E cominciò con appetito immenso Far ogni prova, onde potesse haverne. […] Tal l’huomo astuto suol quel, ch’ei più brama, Spesso sprezzar, se da accidente strano Reso gli vien dal suo pensier lontano Quel, che più d’acquistar s’industria, et ama.
Quindi l’Aquila un giorno andando a spasso Per l’ampio spatio d’una ombrosa valle Da la fame assalita astretta venne Di pasturarsi : e come quella, a cui Stavan sempre nel cor gl’intesi patti Di mai non far al suo compagno offesa ; Da molti augelli per gran spatio astenne L’adunco artiglio : e tuttavia cercava Di prender quelli di più brutto aspetto, Quando dal giogo d’una eccelsa rupe Sentì ullular del suo novo compagno I non mai più da lei veduti figli Nell’aspro nido quasi anchora impiumi. […] Quinci l’Aquila inteso esser incorsa Nell’odioso errore a punto allhora Che più da quel credeasi esser lontana, Et sol per colpa del giudicio torto Del Guffo tratto dal paterno affetto A darle de’ suoi figli il falso segno ; Forte sen dolse : e si scusò con seco1 Del torto a lui contra sua voglia fatto. […] Ond’ei dolente e pien d’amaro scorno Soffrir convenne alfin l’aspro accidente Partendosi da lei tristo e confuso. Così talhora l’huom, che da l’amore Di sé medesmo fatto in tutto cieco Stima le cose sue più, che non deve, Resta schernito quando più si crede Esser per quelle rispettato al mondo : E duolsi a torto del giudicio altrui, Che drittamente a sé contrario vede.
Tu la notte qual pazzo e canti e gridi Sì che si desta ognun da l’importuno Suon de la voce tua rauca e noiosa, E perde il soavissimo riposo Del dolce sonno, ch’ogni male oblia. Ond’ei rispose : anzi ’l mio canto è quello, Che invita a l’opre ogni mortal, che brama Menar sua vita da l’ocio lontana, Che d’ogni mal è padre ; e gli ricorda A non marcirsi nelle pigre piume ; Né per ciò canto fuor di tempo mai. […] E che dirai profano, scelerato, Incontinente, e di lussuria pieno, S’io ti ricordo che tanto empio sei, E da rispetto di virtù lontano, Che in tutti i tempi con lascivia immensa Con le sorelle, con le figlie, e insino Con la tua madre carnalmente giaci ?
Hor questo tanto parmi empio e superbo, Che non sì tosto da lontan mi scorse, Che con orgoglio, qual non posso dirti, Due ali aprendo con acuto strido, Mi si fé incontra sì crudele e fiero, Che tutto allhor m’empì d’alto spavento. […] Allhor la madre, che ben chiaro intese Quai fusser gli animai da lui descritti, In modo tale al suo figliuol rispose. […] Però temi lui sempre, e non fidarti Del suo falso sembiante in vista pio : E tienti ben lontan da l’ugne sue, Se non vuoi darti in man d’acerba morte. […] Tal si deve temer l’huomo empio e falso, Che fuor di santitate il volto veste, E di lupo rapace ha dentro il core ; E tacer suole, o con parole pie Adombrar de la sua perfida mente L’iniqua voglia d’ingiustitia piena : Ma non colui, che favellando altero Talhor si mostra, e per costume vano Superbo in vista : che da l’opre poi, Se con modo prudente hai da far seco, Tutto te ’l troverai benigno e pio.
Ma quando al suon de la sua rauca voce Riconosciuto fu da gli altri, ognuno De le piume non sue tosto spogliollo, E con gran scorno fu da lor scacciato.
Il generoso augel, che non volea Al suo sciocco pensier dar argomento Di sua ruina, con parlar benigno Cercò ritrarla da quel van disio Mostrandole il pericolo imminente, Che deveva sortir sì vana impresa. Ma non valse ragion, che s’adducesse, Per torla giù di quel cieco desio, Che ’l lume di ragion cacciava al fondo ; Sì che costretta da un pregar noioso L’Aquila alfin per contentarla prese Quella su ’l dorso fra gli adunchi artigli ; E quanto pote alto levossi a volo. […] Visto alfin l’ostinato suo pensiero L’Aquila, e vana ogni ragion con lei, Disse : dunque, se pur cotanto brami L’opra tentar, ch’a te natura vieta, Adopra quanto puoi le mani e i piedi, Poi che penne non hai per tal mestiero ; Che ben ti converrà destra mostrarti, Se da periglio tal salvar ti dei.
Così spesso l’huom vil privo di forza E d’ardimento al forte ingiuria move Assicurato da persona, o loco, Che lo difende da l’altrui valore.
DUE vasi, ch’adoprar soglion le genti Da cuocer le vivande in su la fiamma, Di terra l’uno, et l’altro di metallo, Scorrean nel mezo a la seconda un fiume Portati a galla da le rapide onde. […] Guardisi ognun per tal esempio dunque Di star vicino a chi è maggior di forze, Se brama da perigli esser lontano, Et nel suo stato ognihor viver sicuro.
TROVÒ Il Drago una lima in mezo un campo ; E stretto da la fame allhor la prese Per divorarla non sapendo quale Cosa ella fosse : e mentre la stringea Tra duri denti indarno ritentando Di spezzarla sovente, e non potea Modo trovar, che quella a lui cedesse ; Dice ella : o sciocco, di te stesso fuori Ben sei, se stimi di poter far danno, Pur picciol danno, a la durezza estrema De’ miei ferrigni e ben temprati denti, A cui cede l’acciar più saldo e forte. Tal che prima i tuoi denti a pezzo a pezzo Si lascieranno, et da la mia durezza Consumati saranno a poco a poco, Che segno mostrin pur d’havermi offesa.
L’AQUILA stanca dal continuo volo Per posar sopra un sasso al pian discese : D’onde un uccellator, ch’ivi la vide, E la prese di mira, alfin la colse Con un pungente stral da l’arco spinto Mentre ella stava per gettarsi intenta Dietro a una lepre, e farne alta rapina. […] Così colui, ch’è da l’amico offeso, Sente più grave assai di ciò l’affanno, Che non il duol de la medesma offesa : Che quando l’huom d’altrui favore aspetta, Se ’l contrario n’avien, tanto maggiore Di quell’ingiuria ogn’hor sente la doglia, Quanto minor di lei fu la speranza.
Tal che, sì come haver da te potrei Aiuto in divorar quel, ch’io prendessi Vittorioso co i compagni miei ; Così, s’io vinto, et morto al pian giacessi, Tu delle carni mie quello faresti, Che far a gli altri io te veduto havessi. Ciò detto verso lui con passi presti Tosto si mosse, e lo scacciò da loro, Perch’eran suoi costumi a tutti infesti.
VESTISSI il Lupo i panni d’un pastore Per ingannar le semplicette agnelle Con l’apparenza de l’altrui sembiante, Celando il troppo conosciuto pelo : E col bastone in man, co ’l fiasco al tergo, E con la Tibia pastorale al fianco, Verso il gregge vicin ratto inviossi, Sperando di condurlo entro un ovile Fatto da lui d’una spelonca oscura, E prepararsi per un anno il cibo, Che senza faticar potria godersi. […] Tal l’huom bugiardo e di malitia pieno Rimaner suole a lungo andar, né puote Sempre venir al fin del suo pensiero Con la bugia del suo fallace inganno, Ché finalmente il ver da sé si scopre ; E l’istessa bugia ne ’l fa palese.
Oh là tu, che dal ciel chiamato m’hai In tuo soccorso, hor da’ principio tosto Ad aiutarti per te stesso, et opra Quanto è in te di valor per tragger fuori Di questo loto il già fermato carro : Stimola i buoi ; metti le spalle sotto Le gravi sponde, et sollevando alquanto Le lente ruote invita al moto il plaustro : Ch’allhor, se da persona di valore Facendo sforzo a la tua debil possa Mi chiamerai in soccorso al tuo bisogno, Sarò presente ; e col divin potere In te raddoppierò l’humane forze. Ci dà questo a veder, che Dio non suole Porger soccorso a l’huom, ch’è neghitoso, S’ei da sé stesso del suo ben bramoso Ad aiutarsi cominciar non vuole.
L’AQUILA un giorno da una eccelsa rupe Ratto calossi da la fame spinta Di grasse agnelle in mezo un ampio gregge ; E rapito un agnel ne i curvi artigli Levossi, e via portollo, onde si tolse.
L’ORSO del bosco fuor da fame tratto Trovò due case d’Api, e intorno a quelle Incominciò lecar il mel, che in terra Gocciolando cadea del buco fuori, Del buco, che per tutto era già pieno. […] Tal ch’ei trafitto da gli aculei strani De l’infinito stuol, che lo feriva, Senza rimedio di poter salvarsi, Ceder convenne in tutto al primo assalto E partendosi quindi si doleva Amaramente non haver sofferto Di quella in pace la primiera offesa, Che sola un poco gli ferio l’orecchia, Godendo lieto il ritrovato cibo.
Talché come al partir da l’acque chiare PACELe gambe lo salvar da dura sorte, Queste cagion li fur di pene amare.
Allhor il figlio, che veduto havea Il padre e tutti i genitori suoi2 Far sempre quello, ond’esso era ripreso, Disse : Padre, se vuoi, ch’io cangi stile, Mostrami prima tu di ciò la via ; Ch’io seguirotti, poi che quella norma Del vero caminar, che più t’aggrada, Appreso havrò dal tuo medesmo esempio : Perch’io non ho veduto, che giamai Habbi tu seguitato altra maniera ; Ond’io mi diedi a far quel, ch’imparai Da te, da gli avi, e da’ fratelli tuoi. Così devrebbe ogni buon padre sempre Mostrarsi a i figli di virtute esempio, Se vuol, che ’l suo parlar, che li riprende Del vitio appreso, habbia valore e forza Da ritrarli da quello a miglior uso : Ch’è d’autorità spogliato e privo, In mover altri a seguitar virtute Colui, che sta nel vitio immerso sempre.
Che i Serpi n’usciran, la cui natura Sempre è di mal oprar ; e ti faranno Le prime ingiurie, e da tua ria ventura Ad ingiuriar gli altri impareranno : E, se non ti trarranno a morte oscura Il primo dì, che de l’uova usciranno, Faran col tempo eterna ingiuria poi Con tua gran pena a’ proprii figli tuoi. […] Chi l’empio esalta, è da lui posto al basso.
Io canto di mia vita il giusto fine, Che di necessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E del ben e del mal, come la sorte Di ciascun brama, e con ragion richiede : Io canto le miserie mie passate : Io canto appresso la futura pace, E l’eterno riposo, onde la vita È priva sempre, e da continue cure Di procacciarsi con fatica il vitto Sempre si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro, che, giungendo al fine Di questo viver, giungo al fine anchora Di tanti affanni, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose, Che sono al mondo in qual si voglia o forma O stato variate dal primiero Sembiante, in ch’elle havean sostanza e vita, Quiete dolce e sempiterna pace. Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine.
Corre lor dietro, e in gran timor le adduce, Sì che come da lui lontana e presta Di lor ciascuna a l’alto si conduce. E si salvan così da l’ugna infesta Del fier nimico, che vuol divorarle, Sopra un gran pin, ch’al ciel alza la testa.
Che colui, che tornando a me con prova Maggior de le sue forze e del suo grado, Men darà indicio con più degno effetto, Colui da mia sentenza havrà la lode E de la maggioranza, e del valore. Così da lei partiti, ognun si mosse A quel tentar, che più potea sua forza : E dopo breve spatio a lei tornaro Ciascun mostrando a lei la preda fatta.
Questi dunque giacendo in terra steso Fu preso da la Donnola rapace, Che volea divorarlo allhora allhora, Sotto pretesto di ragione alcuna, Che la movesse giustamente a questo. […] Ma sendo un’altra volta a caso incorso Nel pericolo stesso in man d’un’altra Donnola, che mangiarselo volea ; E supplicando a lei, che de la vita Don gli facesse ; udì da quella, ch’essa Non potea farlo con ragione alcuna, Sendo egli un Topo, la cui specie sempre De la sua propria fu crudel nimica : Onde rispose il Vespertiglio allhora, Ch’ella prendea di ciò non lieve errore : E l’ale a lei mostrando aperte e larghe, Con cui per l’aria si levava a volo Specie d’augello esser provava, e mai Non essersi alcun Topo in parte alcuna Trovato adorno di sì nobil dono.
Finalmente la sua Mercurio trasse De l’onda fuor, ch’era di ferro vile : E ’l Contadino allhor tutto gioioso Affermò, ch’era sua quella di ferro ; E la prese da lui, con lieto viso Rendendogli con dir pien di bontade Immense gratie di cotal favore. […] Compresa allhor Mercurio la bugiarda Mente di quel Villano empio e sfacciato, Quella d’oro non sol dar non gli volle, Ma non essergli pur anchor cortese De la sua, che di ferro era nel fiume ; E da sé lo scacciò con brutti scherni.
Misera a che la tua beltà deveasi Tanto prezzar, se nell’estate sola Esser a pena tal da te vedeasi ?
Così da lui partendo senza frutto Gli arbori colmi di soverchio affanno Del trovar chi di ciò togliesse il carco Deliberossi di pregar la Vite, Che ’l Dominio di lor prender volesse. […] Certo io sarei da chi più mi conosce Tenuta pazza, se ciò far volessi, E lasciar le mie cose irsene a male, Attendendo a l’altrui con tanta noia.
Ma richiedendol poi di sua mercede N’hebbe in premio da lui cotal risposta.
GIÀ dentro un’olla, che di carne piena Era d’alesso nel tepido humore Bolliva al foco, nell’humor fervente Entrò la Mosca da la gola tratta Del grasso cibo, che nuotar vedea : Del qual dapoi, c’hebbe satiato a pieno L’ingorda brama, e ’l temerario ardire, Venne sì gonfia del mangiato pasto, E di quella bevanda a lei soave, Che non potea levarsene, e cadendo Anzi più in mezo del liquor profondo De la vicina morte in mano andava ; Onde vedendo non poter fuggire L’odiato fin de la penosa vita, Cominciò confortarsi in cotal guisa.
Ma trovatolo a sorte uno a cavallo, Che gli venia da la cittade incontra, Di volerlo comprar sembianza fece : E prendendolo in mano, e ponderandol Per farne stima, lo chiedea del prezzo, Quando l’astuto in un medesmo punto Toccò di sprone il suo destrier veloce, E a sciolta briglia in fuga il corso prese.
Ond’ei, che disegnato Gran tempo haveva di soggetto farsi Quell’animal per li servigi suoi, Tosto pronto s’offerse in sua difesa : Ma disse ; che, se ben d’ingegno e forza Era bastante a superar il Cervo Quando quel si fermasse a la battaglia : Pur, quando ei si fuggisse, esso non era Possente di seguir sì lieve corso : Però mistier facea, ch’egli in sul dorso Là nel portasse, ove trovando il Cervo Non li giovasse la veloce fuga : Et ch’a bisogno tal egli devea Lasciarsi por da lui la sella, e ’l freno, D’accomodarsi seco, e dargli il modo D’intender la sua voglia ove il bisogno Cercasse, ch’ei per lui volgesse il piede. Il Cavallo ciò inteso, e dal desio Di vincer l’inimico in ogni modo Già cieco fatto a scorger più lontano Di queste conditioni il dubbio fine, Fé ciò, che volse l’huom : lasciossi porre E sella e briglia ; e nel condusse in parte, Ove fra poco spatio il Cervo altiero Da le fort’armi, e da l’ingegno humano Alfin restò miseramente ucciso.
IL Corvo spinto da la fame il volo Torse verso un Serpente, che tra certi Sassi del mezo giorno al sol dormiva : E fra l’ugne ne ’l prese, e volea trarsi De le sue carni l’importuna fame : Ma quel presto destossi, e raggirando L’ardito capo, che tre lingue vibra, Lo strinse sì col velenoso morso, Che lo traffisse di mortal ferita.
Questo è finto, ch’io vero esser credea, Mosso da openion sciocca et fallace.
Così fa l’huom, che da troppo desio Di cose nove la sua patria lassa, E temerario arditamente passa Ove misero cade in stato rio.
Ma non sì tosto tal risposta fece, Ch’allhora sovragiunta a l’improviso Da un carro tratto da due gran corsieri, Che passavan correndo a sciolta briglia, Sotto una ruota miserabilmente Restò schiacciata, e di sua vita al fine.
Così nell’acque entrati ambo di pari, Quel, che di sale havea grave la soma, A sorte in certi sassi urtando cadde Oppresso anchor da quel soverchio peso, Sì che riverso andò del fiume al fondo.
Scielte, & trattate in varie maniere di versi volgari da M. […] Scielte, & trattate in varie maniere di versi volgari da M. […] Scielte, & trattate in varie maniere di versi volgari da M. […] Scielte, & trattate in varie maniere di versi volgari da M. […] Scielte da M.
Avenne poi che bisognò correndo Un certo spatio di lungo camino Viaggio far a suo malgrado in fretta : E da principio cominciò superbo Correr veloce come havesse l’ali : Ma non finì sì tosto a un tratto d’arco, O poco più lontan batter il corso, Che stanco si sentì con tanto affanno, Che bisognò fermarsi, e prender lena.
SERVIA l’Asino insieme col Cavallo Un sol padrone ; et ugualmente carco Era ciascun da lui del proprio peso.
Così spesso patir suol chi benigno È de’ favori suoi largo e cortese Ad huomo avaro e di nequitia pieno : Che con le forze stesse, ond’ei l’accrebbe Riman da quello alfin posto in ruina.
SOTTO l’ardor del caldo estivo Sole Già si seccar molte paludi e stagni Sì, che penuria d’acque havea la terra : Allhor due Rane da gran sete spinte Andaro insieme lungamente errando Per le campagne, e per le basse valli Per veder se potean trovar ventura D’alcun riposto humore al lor bisogno.
Onde da un altro Can, ch’era già stato Nel comun tetto a lui compagno antico, De la cagione un dì fu domandato.
PUR dianzi havea ’l Leon de gli animali Tutti per forza conquistato il Regno, E come Re de gli altri un bando fece Gridar, ch’ogni animal, che senza coda Fusse dal suo tener gisse lontano, E in esiglio da lui lontan vivesse Essendo privo de l’honor, che seco Porta la coda, che vergogna asconde.
Onde gli fu da l’Asino risposo : Togliti pur di qua tu, che in periglio Ti trovi ; ch’io di ciò non son pensoso.
Ma poi ch’a l’opra insidiosa diede Debito fin, da lei poco lontano Fra certe ombrose vepri si nascose.
Tosto approvossi tal parer da ognuno.
Chi vuol da savio oprar pensi al suo fine.
Già senton dir da ognun per quel confino, O che discretion d’huomo saputo, Ch’a piedi lascia quel garzon mischino. […] S’aduna intorno da tutti i confini La turba immensa de le genti sparse Sì de la Terra, come pellegrini A lo spettacol novo, che comparse Non senza riso universal di tutti, Che lo mirar tosto che prima apparse.
Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del suo mal forte si duole : Et poi le dice con parole humane : Ch’egli si trova in punto, s’ella vuole, Di scacciarle le mosche allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado facea, non potea trarla Se ben s’affaticasse più d’un giorno.
Ond’ella accorta da l’altrui ruina Quasi tutta la preda in un raccolse, Per farla del Leon debita parte ; E presentolla a la superba fiera ; E poco più di nulla a sé ritenne.
La Donnola, che spesso i suoi lamenti Sentito haveva, da pietà si mosse A consigliar così quella meschina.
Anzi da questo puoi sciocca avvederti Qual conto faccia questa santa Dea Di me, che tien per sua divota ancella, Et qual mi porti amore, e gran rispetto : Poscia che chi giamai si mostra ardito D’offender la mia specie in prender cibo Da carne tale, come empio e profano Da sé discaccia, e sempre l’odia a morte.
E credendo poter giunger a questo Se forte si gonfiava il picciol ventre, Subito cominciò gonfiarsi tanto, Che ’l suo figliuol, che la mirava in questo, De la sua morte assai temendo disse : Deh cessa madre, da la folle impresa, Ché se più segui torneratti in danno E de l’honore, e de la vita insieme.
La Rondinella allhor con cor sicuro De l’huom si fece molto stretta amica, Per liberarsi da periglio oscuro.
Così d’accordo cominciò calarsi Verso quel pellegrin soffiando forte Quanto potea da mille parti intorno Per levargli il mantel, che indosso havea.
Così d’una gran noce in cima un ramo S’assise il Gallo, e ’l Can di quella al piede Ch’era cavato, e da cento anni e cento Roso, e reso per lui capace albergo, S’accommodò passando quella notte In dolce sonno con tranquilla pace.
Il che sentito i pargoletti figli Consapevole poi ne fer la madre, Che con gran tema tal novella intese : E disse lor, adesso è ’l tempo, figli, Di dubitar qualche futuro oltraggio, Poi che ’l padron di ciò la cura prende : Però stanotte ce n’andrem pian piano A trovar novo albergo in altra parte, Che quando l’huom far vuol cosa da vero, Non aspetta gli amici, o i suoi parenti : Ma pon sé stesso con le voglie ardenti A dar debito effetto al suo pensiero.
. — Parafrasi in vario metro Italiano delle nuove favole di Fedro | trovate da Gio : Ant. Cassitto | da lui stesso eseguita.