E ’l Gallo accorto Fatto a sue spese de gli inganni suoi, Fingendo creder quanto ella tramava, Dal medesmo suo dir trovò soggetto Di levarsela allhor tosto dinanzi : E mostrando allegrarsene di botto Con varii segni, così prese a dire. […] Udito ciò la Volpe, che credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più non dimorar con suo gran danno Oltra lo scorno, ch’avanzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece. E prendendo licenza al suo partire Con parlar dolce la pregava il Gallo Ch’ella aspettasse i suoi novelli amici, Ch’erano del suo ufficio a lei compagni : Perché con essi poi partendo insieme Daria maggior certezza a chi l’udisse Del grato annuncio di sì buon effetto : Perché fra poco a lei sarian presenti. Ond’ella prese anchor maggior sospetto, E senz’altro a fuggir tosto si diede Con sua vergogna e gran piacer del Gallo. Che con le burle a la nemica ordite Da le burle di lei medesma, allhora Salvo si rese et da gli inganni suoi.
E mentre dubbio con tremante core Tentava in ciò la più sicura via, Ecco lontan da mezo il largo humore A lui tosto gridar con rauca voce, Ch’ei l’aspettasse, una loquace Rana : Che allhor mirando gli atti, ch’ei facea, Haveva il fin del suo pensiero inteso : Et aprendosi il calle innanzi ognihora Con le man pronte, e rispingendo a dietro Spesso con ambo i piè la torbid’onda, A quello si condusse in un momento. E promettendo di prestarli aiuto, Come colei, che ben nuotar sapea, Lo persuase di legarsi seco Ne i piè di dietro a i suoi con certo filo, Che per tal opra a lui recato havea. […] Ma quel, che dal timor e dal bisogno Prendeva di valor doppio argomento, Tardi avveduto del nimico inganno, Arditamente e con possente lena Si sostentava ; e risurgeva in modo, Che rendea vano il suo malvagio intento. Or mentre quella al fondo, al sommo questo Si ritraheva con egual valore, Nessun cedendo a le contrarie forze, Un nibio, che di là passava a caso Da l’appetito de la fame tratto Ambo li prese ; et per satiar di loro L’avido ventre, da la rana in prima, Che più molle che ’l topo havea la pelle, Tosto si cominciò render satollo. Così talhor avien, che l’huomo iniquo, Ch’a far altrui si move a torto offesa, A la vita, o a l’honor tramando inganno, Primo nel fil del proprio laccio cade, E da la forte man giusta di Dio Colto con egual sorte insieme resta.
IL Cigno giunto homai vicino al fine De la sua vita con soavi accenti Facea l’esequie a le sue proprie membra In breve per restar di spirto prive. […] Io canto di mia vita il giusto fine, Che di necessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E del ben e del mal, come la sorte Di ciascun brama, e con ragion richiede : Io canto le miserie mie passate : Io canto appresso la futura pace, E l’eterno riposo, onde la vita È priva sempre, e da continue cure Di procacciarsi con fatica il vitto Sempre si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro, che, giungendo al fine Di questo viver, giungo al fine anchora Di tanti affanni, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose, Che sono al mondo in qual si voglia o forma O stato variate dal primiero Sembiante, in ch’elle havean sostanza e vita, Quiete dolce e sempiterna pace. Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine. […] Così devrebbe contentarsi ognuno De la sua sorte, e de la legge eterna, Che Natura, e di Dio la voglia impone Con egual peso a gli animali tutti : E la morte abbracciar con lieto volto Come la vita si tien dolce e cara, Essendo il fin d’ogni miseria humana La morte, e questa vita un rio viaggio ; Dal qual l’huom dee bramar ridursi al porto De la tranquillità de l’altra vita Qual si voglia, che sia per esser poi, Poi che nulla di noi perder si puote, Che non vivi nel sen de la Natura Come a Dio piace ; al cui voler ognuno Dee star contento, e far legge a sé stesso De la ragion, che dal suo santo senno Con dotto mezzo a noi discende e piove. Che chi tal vive e more, eterno vive Dopo la morte de l’humana vita ; E muor vivendo dolcemente in Dio, Con cui s’unisce con mirabil modo, Quando lascia la terra, e un Dio si rende.
Così d’una gran noce in cima un ramo S’assise il Gallo, e ’l Can di quella al piede Ch’era cavato, e da cento anni e cento Roso, e reso per lui capace albergo, S’accommodò passando quella notte In dolce sonno con tranquilla pace. Ma poi ch’apparve in Oriente il raggio Del matutino Sol con lieta voce Diede il Gallo principio al canto usato : E replicando diè di sé novella A la Volpe, che poco indi lontana Havea ’l suo albergo : et tosto al canto corse Dove era il Gallo ; et con parole amiche Salutollo ridendo, e supplicollo Con sermon efficace, ch’ei volesse Scender del tronco, ov’egli alto sedea, E benigno di sé copia facesse A lei, che forte del suo amor accesa Già si sentia del suo leggiadro aspetto, E de l’alta virtù del suo bel canto : Onde abbracciarlo come caro amico Ella voleva, et nel suo albergo trarlo Per fargli a suo poter cortese accetto. […] Allhor la Volpe con un grido strano Mettendo il capo dentro a quel forame Il can destò, ch’anchor forte dormiva, Non sapendo però ch’ei fosse il cane. Tal ch’egli desto a l’improviso suono Tosto uscì fuor de la sentita voce, E veduta la Volpe immantinente Le corse adosso, et atterrolla in breve, Facendo a lei quel, ch’essa haveva al Gallo Di far pensato con l’astutie sue, Senza che pur la ria se n’avvedesse. […] Chi con fraude camina in fraude intoppa.
Onde esponendo sua ragion ciascuno Dinanzi a lei, che decidesse il punto De la difficultà fra loro nata, L’Aquila disse : Orsù fratelli andate A mostrarmi di ciò ragion più chiara Con l’opra del valor, che regna in voi. Che colui, che tornando a me con prova Maggior de le sue forze e del suo grado, Men darà indicio con più degno effetto, Colui da mia sentenza havrà la lode E de la maggioranza, e del valore. […] Onde mostrando il Nibio con gran suono D’altera voce un topo, c’havea preso In mezo un campo di tagliate biade ; E lo Sparvier mostrando una Colomba, Che per lo ciel volando a forza ottenne, L’Aquila disse. Poi che con l’effetto Chiara ciascun di voi fatto m’havete Del valor dubbio, onde pendea la lite, Mia sentenza sarà, che quanto meno De l’altera Colomba il Topo vale, Tanto di nobiltate e di virtute Nibio vagli tu men de lo Sparviero. […] Così il giusto Signor, che tien in corte Diversa gente al suo servitio ; deve Sol prezzar più colui, che maggior segno Di valor mostra de gli effetti a prova : E non colui, che con sembianze vane Di cose esterior, che ingombran gli occhi, Cerca preporsi alla virtute altrui.
E rivolgendo con la mente spesso L’aspra calamità, che ognihor l’afflisse, Con la memoria de i passati guai Cresceva il duol del suo presente affanno. […] Tal ch’ella alfin dal suo parlar commossa Con faccia horrenda, e minaccioso aspetto In habito lugubre inanzi a lui Con ricercar ciò, ch’ei volea, comparse. […] Così molti lontan chiaman la Morte, Che quando se la senton poi vicina Fuggon tremando con la faccia china Per non provar di lei la dura sorte.
Così rodendo insino a meza notte Il duro cibo con tranquilla mente A un dolce sonno alfin si diero in preda. […] Ma non sì tosto prima gli assaggiaro, Che con romor, che gli rendeo sospesi, Ecco scuotendo mille chiavi, e l’uscio Subito aprendo con un lume in mano Il maestro venir de la cucina Per porre in salvo certe altre vivande, Che pur dianzi levate havea di mensa. A l’apparir de l’inimico lume Il Topo Cittadin ratto fuggissi L’altro invitando con tremante core A far l’istesso per fuggir da’ guai, E dietro a l’uscio tosto si nascose. […] Del qual poi che appagato hebbe ciascuno Più che a bastanza la golosa sete, Quivi posar le ben pasciute membra Con gran temenza, il resto de la notte Tutto passando con disagio e pena Senza mai chiuder occhio, o mover piede, Tanto sospetto havean d’ogni periglio. Poi quando Febo con l’aurato carro Portò di novo in Oriente il giorno, L’hospite cittadino al suo compagno Con festevol parlar gioioso disse.
VIDE l’Agnello in cima al tetto stando Da la finestra di lontano il Lupo ; E cominciò con orgogliosa voce A provocarlo, e fargli ingiuria et onta Con dirgli tutto quel, che dir si puote D’una bestia crudel, vorace, e ria. Allhor fermato il Lupo, e nulla mosso A sdegno del parlar suo dispettoso, Ma con la mente tutta cheta a quello Con un basso parlar così rispose.
IL Pardo, che a le Simie è per natura Fiero nimico, e si pasce di loro, Havea gran fame, e di cibarsi cura : E scorrendo con rabbia il terren Moro Ove Natura in copia le produce, Trovonne alfine, e fé cotal lavoro. […] Il Pardo, che non può là su arrivarle, Fatto ogni prova, alfin partito prende, Onde possa di là con arte trarle. […] Allhor ciascuna Simia a lui s’abbassa, Ché morto il crede, e d’allegrezza piena Con festa intorno a lui saltella e passa. […] Così con arte mena a fiero stratio Le sue nimiche, e se ne trahe la fame Ad un sol tratto per ben lungo spatio. Tal l’huom, che studia al fin de le sue brame Venir un dì, né haverne il modo sente, Dee con prudenza usar di simil trame : Ch’ogni difficultà vince il prudente.
Ecco il Lin nasce, et ella, che pur serba Nel cor del suo presagio il gran timore, Disse di novo con rampogna acerba. […] Ella pur dice, e ognun le crede meno Quanto più con ragioni aperte e vive Mostra il lor viver di periglio pieno. […] La Rondinella allhor con cor sicuro De l’huom si fece molto stretta amica, Per liberarsi da periglio oscuro. Vive con l’huomo, e sempre si nutrica D’ogni altra cosa, che d’esca o di grano, Cibo de l’huomo per usanza antica : Così perché nell’opre di sua mano Non gli suol mai far detrimento alcuno Depredando le biade in mezo il piano, A quello è cara ; et ei sempre digiuno Vive di farle offesa, e la ricetta Dentro a’ suoi tetti, onde l’osserva ognuno. […] E con lacci e con reti ognihor gl’infesta, Facendone di lor stratio crudele : Et così merta chi a noia molesta Prende il consiglio altrui sano e fedele.
UN ASINEL, che sopra il tergo vile Havea di Giove un simolacro d’oro, Ch’al Tempio il suo padron seco trahea, Mentre passava per diverse vie Era inchinato da la gente tutta, Che con divotion s’humiliava Del nume vano a quella ricca imago. Ma credendo il meschin, che quell’honore Venisse fatto al suo nobile aspetto, Del suo stolto parer tanto gonfiossi, Che preso allhor da quella gloria vana, E tosto in mezo del camin fermato Levando per superbia in alto il capo Tutto si vagheggiava ; et non volea Mirando hor qua hor là mover un passo : E d’esser nato un Asino del tutto Già si scordava, se non era allhora Il suo padron, che con un grosso fusto Percotendo le natiche asinine Gli fece di sé stesso entrar in mente Con molte busse, et con simil parole.
Borea sdegnoso contentossi al patto Di cotal prova : et fé d’esser il primo, Che mostrasse con lui l’alte sue forze. […] Allhora il Sole incomminciò scaldarlo A poco a poco con l’ardente raggio Sì, che ’l buon pellegrino anch’esso venne A poco a poco a lasciar giù le parti Del mantello, onde pria tutto era chiuso : Indi sentito assai maggior l’affanno Del caldo lume tutto si scoperse De la veste : et così del tutto poi Spogliossene, ch’alfin se la raccolse Sopra le spalle ; e così via n’andava. Ma dopo breve spatio assai più fiero Mostrando seco il Sol l’intenso ardore, Tutto di sudor carco, e vuoto quasi Di spirto, et di vigor di mover passo, Stanco depose la noiosa veste, Lasciandola tra via fra certe vepri Per non lasciar in quel camin la vita : Così di voler proprio abbandonolla Con speme di poter forse trovarla Al suo ritorno nel riposto loco : E ’l Sol di quella impresa hebbe l’honore. Tal suole spesso l’huom prudente e saggio Giunger con la destrezza al fin, ch’ei brama, Assai più presto, e con minore affanno, Che colui, che con impeto si move In discoperta forza a le sue voglie.
VIDE la Lepre un dì con lento passo La Testuggine andar per suo camino, E cominciò sprezzarla sorridendo, E mordendo con motti acerbi e gravi La gran tardezza del suo pigro piede. […] In questo la Testuggine, che ’l corso Con solecito passo affrettò tanto, Che giunse alfine al terminato segno, Di tutto quell’honor prendea la palma, Quando la Lepre desta alfin s’accorse Del preso error de la sua confidenza, E colei riportarne il pregio tutto Di quella impresa, si pentì, ma in vano De l’arrogante negligenza sua. […] Quinci con gran suo scorno intende e vede Il suo rival, che debole seguendo Con un continuar facile il passo Nel camin di virtù, ch’a honor conduce, A sé stesso precorso, e tor di mano De la vittoria la felice palma Da le fatiche de’ suoi lunghi studi A poco a poco assai più forte reso : Ond’ei quasi perduto haver si sente Quell’antico vigor, ch’ardeva in lui Per colpa sol de la pigritia nata Da la sua negligenza infame e stolta, Che pieno il fa d’un pentimento vile, E d’una doglia sì malvagia e poltra, Che non sa cominciar cosa che voglia, Vedendo sé di sotto di gran lunga A molti e molti, ch’ei nulla prezzava : E tutto il resto di sua vita vive Con tedio estremo assai peggio, che morto, Senza speranza haver d’honore alcuno.
Soggiunse il Gatto allhor : bench’io potrei Gettar a terra con ragion possente Queste tue scuse vane, inutilmente Non voglio perder la fatica e ’l tempo : Ma passerò più avanti rimembrando L’altre tue colpe di castigo degne. E che dirai profano, scelerato, Incontinente, e di lussuria pieno, S’io ti ricordo che tanto empio sei, E da rispetto di virtù lontano, Che in tutti i tempi con lascivia immensa Con le sorelle, con le figlie, e insino Con la tua madre carnalmente giaci ?
Finalmente la sua Mercurio trasse De l’onda fuor, ch’era di ferro vile : E ’l Contadino allhor tutto gioioso Affermò, ch’era sua quella di ferro ; E la prese da lui, con lieto viso Rendendogli con dir pien di bontade Immense gratie di cotal favore. […] Ma raccontando un giorno il pover huomo A molti amici suoi di quella Villa La gran ventura, ch’avenuta gli era, Uno di lor, ch’astuto era e sagace, Tentò con fraude, s’egli anchor potesse Divenir ricco, come quel divenne. E già venuto nel medesmo loco Per tagliar legna, quel, che il suo compagno A caso fece, fece egli con arte Di lasciarsi cader allhor la scure In mezzo il corso de le rapide onde : E finse lagrimar con gran sospiri, E gran querele la sua dura sorte. […] Compresa allhor Mercurio la bugiarda Mente di quel Villano empio e sfacciato, Quella d’oro non sol dar non gli volle, Ma non essergli pur anchor cortese De la sua, che di ferro era nel fiume ; E da sé lo scacciò con brutti scherni.
Il qual mentr’ella al sacrificio intenta Stava divotamente inanzi a l’ara, Le disse : con qual cor cara sorella Puoi sacrificio far a quella Dea, Che t’è tanto nimica, e t’odia tanto, Ch’ognihor ti sprezza, e prohibisce a tutti, Qual di nessun valor, gli augurii tuoi ? […] Io so, fratello, e ben mi tengo a mente Quel, che tu detto m’hai de l’odio antico, In cui sempre mi tien l’irata Dea ; Ma non voglio però darle risposta D’affetto tale : anzi con cor humile Pregarla sempre, e con giusta pietade Renderle honor quant’io posso maggiore, Per veder se placar posso lo sdegno Del suo superbo cor sì in me crudele : E con carezze mitigar l’offesa, Ch’ella m’ha fatto, e può farmi maggiore.
LA Gallina trovò del Serpe l’uova, Et a covarle incominciò cortese ; Perché n’uscisse la progenie nova Con desio di ben far, ch’a ciò l’accese. Ma mentre ch’ella con amor le cova, La Rondinella, che tal opra intese, Come colei, che saggia era, et accorta, La semplicetta in cotal modo esorta. Vana è, misera, l’opra e a te mortale, A cui con tanto amor e studio attendi : Che tu prepari a te medesma il male, Ch’anzi fuggir devresti hor che l’intendi : Che quando al fin d’una fatica tale Giunta sarai, se accorta il ver comprendi, E spererai qualche mercede a tanto Affanno, il frutto fia sol doglia e pianto. Che i Serpi n’usciran, la cui natura Sempre è di mal oprar ; e ti faranno Le prime ingiurie, e da tua ria ventura Ad ingiuriar gli altri impareranno : E, se non ti trarranno a morte oscura Il primo dì, che de l’uova usciranno, Faran col tempo eterna ingiuria poi Con tua gran pena a’ proprii figli tuoi.
E via cercando, onde scacciar la fame Potesse, e prolungar sua vita quanto Gli concedesse la natura e ’l cielo ; Tentò con l’arte far quel, che vietato Era a sue forze indebolite e vane, Nova astutia trovando a sua salute. L’astutia fu, ch’un dì passando il Corvo Vicino a la sua grotta, a sé chiamollo Con debil voce, e con sermone humile Il mosse a gran pietà de la sua sorte : Et lo pregò, ch’ei divulgasse tosto De la sua morte già vicina il nome, Per cortesia fra gli animali tutti, Che facevan soggiorno in quel paese : Che, essendo esso lor Re, debito loro Era di visitarlo, e ritrovarsi Ciascun l’ultimo dì de la sua vita Per honorarlo de l’esequie estreme ; E ch’ei gran voglia havea di rivederli, E dir a chi l’amò l’ultimo vale : E testamento far per far herede Alcun di lor del destinato scetro. Dunque ubidillo il Corvo, e sparse intorno Tosto di ciò l’ingannatrice fama Tal che di giorno in giorno andava a quello Alcun de gli animai da quel confino Come inteso l’havea tardi o per tempo Per visitarlo : ma quando a lui presso Se lo vedea il Leon, che ’l mezo morto Fingea, l’unghiava con le zampe adunche, E lo sbranava, e ne ’l rendea suo pasto. […] Le rispose il Leon con voce grave, E ch’a pena parea che suono havesse ; E l’invitava ad accostarsi a lui, Che meglio intenderia de la sua sorte, Senza dargli fatica in parlar forte. […] Così da picciol segno alcuna volta L’huom savio impara con sua gran ventura A scoprir de’ malvaggi il rio secreto : De’ quai bisogna sol creder a l’opre, E non a quel, che in lor la lingua suona.
IL Lupo devorato havea un agnello ; Et per la fretta, del mangiar c’havea, Un osso rotto con l’acuta punta Gli restò in gola attraversato in modo, Che sentiva di morte estrema pena. E per medico suo la Grue richiese Con assai largo premio pattuito Tra lor d’accordo per cotal fatica. Ond’ella con l’acuto e lungo rostro In breve alfin di tanto affanno il trasse.
Diceva il Pardo Vedi la pelle mia di varie macchie Con ordine e misura al par del cielo, Ch’è di stelle dipinto, adorna tutta Con tal vaghezza, che stupore apporta A qualunque la vede : e tal è ’l pregio Suo, che Baccho figliuol del sommo Giove Non si sdegna coprir le belle membra D’altra mai per lo più, che di tal pelle, Che tutta la mia specie adorna e veste. […] Però di questa a me ceder tu dei, Se non sei folle in tutto, ognihor la palma ; A me ; che quanto hai tu vario d’aspetto Il dorso tutto, ho vario e di colori Mille dipinto l’animo e l’ingegno Atto a fornir mille lodate imprese : E per ciò bella sono in quel, ch’importa Più, che la pelle facile a smarrire L’apparente beltà, ch’offender puossi : Onde la mia non può sentir offesa Mentre con essa mi riserbo in vita. Da questo impari ognun prezzar quel bene, Che l’alma apportar suol, non la fortuna C’hor chiara sembra, hor con la faccia bruna, E sempre forma variar conviene.
Et così fece con parlar cortese. […] Sì che tratti di bocca i fieri denti, E l’ugne delle zampe acute e forti, Perché sicuri siam per sempre poi, Che tu non voglia, o possa farne oltraggio : E vivrem teco poi lieti e sicuri, E tu ti goderai con dolce pace L’amata sposa a le tue voglie pronta. […] Ma il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leone, Che non haveva più l’ugne, né i denti, Non solo di negargli hebbe ardimento La figlia, ch’egli li chiedea per moglie ; Ma con un grosso fusto lo percosse Si fieramente nel superbo capo, Ch’a terra lo mandò stordito, e poi In pochi colpi gli levò la vita : E sciolto andò da tal impaccio e briga. La favola in virtù saggia ammonisce L’huom forte, che con altri accordo brama, A non lasciarsi tor l’armi di mano, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel, che contra lui possente il rese, Cangi pensiero di fermar la pace ; E con guerra mortal gli mova assalto, E lo conduca a l’ultima ruina, Senza poter haver da lui contrasto.
L’ANGUILLA un giorno domandò al Serpente, Con cui spesso in amor giacer soleva Dentro a l’humor d’un paludoso stagno ; Da qual cagione derivar potesse, Ch’egli da tutti gli huomini fuggito, Ella a studio cercata era da ognuno, Ambi due sendo d’una stessa forma : E mille sue compagne prese e morte Havea veduto, ond’egli sempre in pace Vivea felice aventurosa vita, Come ella ognihor viveva in pena e in doglia Con continuo timor d’acerba morte. […] Ond’io chi cerca di turbar mia pace Così combatto, o me gli mostro fiero, Che raro avien, ch’egli da me si parta Senza paura, e manifesto segno Del temerario ardir mostrato indarno Per farmi oltraggio : e con orgoglio crudo Non lascio ingiuria mai senza vendetta.
IL Cerbiato chiedeva un giorno al padre Da qual cagione proceder potesse, Ch’ogni volta, ch’a guerra il can lo sfida, Egli sì facilmente in fuga volto Di lui solo al latrar desse le spalle, Essendo egli di corpo e di valore Maggior del cane, e con la fronte armata Di dure corna a contrastar possenti Con qual si voglia più forte animale. […] Io ben m’accorgo haver armi e valore Figlio da contrastar co ’l cane, e forse Con più d’un’altra più feroce belva : Ma non ti so già dir perch’io nol faccia.
E cedendo al voler de la natura Vivi de la tua sorte ognihor contenta : Né tentar con pericol manifesto De le tue forze l’impossibil opra. […] Così spesso interviene al vecchio insano Di mente, che dal tempo misurando Il senno, sprezza del giovine saggio Il buon consiglio di ragion matura : E seguitando il suo pazzo discorso Si mette a far con cor superbo e vano Quel, ch’a ragion tentar non può, né deve. Dunque ascolti ciascun l’altrui consiglio Benignamente, e non si sdegni alcuno, Per esser padre ad altri, o maggior d’anni In altra guisa, al giovine dar fede, Che con ragione la sua lingua mova ; Ché non sta con l’età sempre il sapere : Né sempre è gioventù mendace e vana.
S’UNIRON già d’alta amistade insieme L’Aquila e ’l Guffo : e si giuraron fede Di non mai farsi in alcun modo oltraggio : E tra i più forti inviolabil patti, Che d’osservarsi il Guffo proponesse, Con supplichevol prego aggiunse questo, Ch’a l’ Aquila piacesse haver riguardo A i figli suoi se gl’incontrasse a sorte : Onde perch’ella non prendesse errore Le diede il segno di conoscer quelli Fra l’altre specie de i diversi augelli. […] Onde dal cantar loro horrido tratta Tosto vi corse : e giudicando quelli I più deformi che vedesse mai, Di lor satiossi alfin l’avido ventre Non senza doglia della sozza madre, Che di lontan con gran timor la scorse Devorar tutto il suo infelice parto : Tal che fuggendo poi colma d’affanno Al marito narrò l’horribil caso. Egli, che con gran pena intese questo, Tornò fra poco al mal guardato nido Forte piangendo il ricevuto torto : E trovando per via l’altero augello Compagno, e del suo mal cagion novella, Che di ritorno sen veniva altero Battendo il vento co i possenti vanni, Con aspra insopportabile rampogna Cominciò del suo mal seco a lagnarsi. Quinci l’Aquila inteso esser incorsa Nell’odioso errore a punto allhora Che più da quel credeasi esser lontana, Et sol per colpa del giudicio torto Del Guffo tratto dal paterno affetto A darle de’ suoi figli il falso segno ; Forte sen dolse : e si scusò con seco1 Del torto a lui contra sua voglia fatto.
io già fui figlio D’un possente corsier, che con la sella D’argento, e con le briglie ornate d’oro Vinceva ogn’altro più veloce al corso, E gli huomini atterrava armati in guerra : E però tal esser convegno anch’io. Avenne poi che bisognò correndo Un certo spatio di lungo camino Viaggio far a suo malgrado in fretta : E da principio cominciò superbo Correr veloce come havesse l’ali : Ma non finì sì tosto a un tratto d’arco, O poco più lontan batter il corso, Che stanco si sentì con tanto affanno, Che bisognò fermarsi, e prender lena.
VESTISSI il Lupo i panni d’un pastore Per ingannar le semplicette agnelle Con l’apparenza de l’altrui sembiante, Celando il troppo conosciuto pelo : E col bastone in man, co ’l fiasco al tergo, E con la Tibia pastorale al fianco, Verso il gregge vicin ratto inviossi, Sperando di condurlo entro un ovile Fatto da lui d’una spelonca oscura, E prepararsi per un anno il cibo, Che senza faticar potria godersi. […] Tal l’huom bugiardo e di malitia pieno Rimaner suole a lungo andar, né puote Sempre venir al fin del suo pensiero Con la bugia del suo fallace inganno, Ché finalmente il ver da sé si scopre ; E l’istessa bugia ne ’l fa palese.
ANDÒ un Villan dentro una Selva antica Di quercie ombrose largamente adorna, E la pregò con mansueta voce, E parole efficaci a sua richiesta, Che di prestargli ella contenta fosse Un picciol tronco de le piante sue, Ch’eran d’immensa, et infinita copia : Perch’un manico farne esso volea A la sua scure, onde tornato a casa Fornir potesse alcuni suoi lavori. […] Ond’ei ne fece il manico ; e dapoi A spogliar cominciò di parte in parte La Selva tutta con la parte stessa, Ch’era già membro di lei stessa uscito : Sì che ’l Villano iniquo e discortese Tutta la pose in picciol tempo a terra. Così spesso patir suol chi benigno È de’ favori suoi largo e cortese Ad huomo avaro e di nequitia pieno : Che con le forze stesse, ond’ei l’accrebbe Riman da quello alfin posto in ruina.
L’ASINO d’un Leon trovò la pelle, E tutto si coprì di quella il dorso, E gia scorrendo le campagne e i boschi Con gran paura de gli altri animali, Che in cambio lo togliean d’un fier Leone. […] Così l’huom sciocco e d’ignoranza pieno Che il savio fa tra gli ignoranti, quando Avien, che con saggio huom faccia l’istesso, Dal suono sol di sua propria favella Si scopre quel, che sua natura il fece, Con gran suo scorno, e riso di chi ’l vede.
Onde il Pavone gran broglio facea D’esser quel desso, confidando assai Nella bellezza de le varie penne D’aureo color, e mille gemme tinte : E di questo facendo altera mostra Con lunga oratione in quel senato, Sì che piegavan già le voci tutte Ne i suoi suffragii, contentando ognuno Ch’ei fosse quel, che in loro imperio havesse, Quando tra gli altri se gli offerse innante Il picciol Merlo da le nere piume, E se gli oppose con simil parole. […] Cedi, misero, cedi a un altro il peso Di tanto grado, che di te più forte Possa più degnamente in sorte haverlo, Con sicurezza di noi tutti insieme, E de la vita, e del tuo proprio honore. […] Così far si devria da quei, che danno Altrui la cura de l’human governo, La salute de’ popoli, e de’ regni Sol commettendo in man di quei, che sanno E posson con valor regger altrui, E sostener di tanta impresa il pondo : Lasciando lo splendor de le ricchezze, E tutte l’altre esterior grandezze, Che siano in quei, che senza ingegno od arte Mal pon regger sé stessi, e peggio altrui.
Allhora il Vespertiglio le rispose Ch’augel non era ; et ciò provava a i segni Del proprio corpo senza piume tutto, E che del pel del Topo era vestito, Con cui conformità per specie havea. […] Ma sendo un’altra volta a caso incorso Nel pericolo stesso in man d’un’altra Donnola, che mangiarselo volea ; E supplicando a lei, che de la vita Don gli facesse ; udì da quella, ch’essa Non potea farlo con ragione alcuna, Sendo egli un Topo, la cui specie sempre De la sua propria fu crudel nimica : Onde rispose il Vespertiglio allhora, Ch’ella prendea di ciò non lieve errore : E l’ale a lei mostrando aperte e larghe, Con cui per l’aria si levava a volo Specie d’augello esser provava, e mai Non essersi alcun Topo in parte alcuna Trovato adorno di sì nobil dono. […] Così due volte d’un periglio stesso Egli si tolse con ragion diversa Ogni volta salvandosi la vita.
L’ASINO d’un Signor nodrito in corte Vide un nobil corsier ; che d’orzo e grano Era pasciuto, e ben membruto, e grasso ; Passeggiar su e giù dentro il cortile Di seta, e d’or superbamente adorno, Mentre aspettava il suo Signor, ch’armato Montasse in sella, e ’l conducesse dove Marte feroce insanguinava il piano : E felice chiamava ognihor sua sorte, Ch’ei fosse tanto dal Signore amato, Che seco il volea sempre, e gli facea Mille carezze, et ocioso, e lieto Il tenne un tempo con solazzi e feste : Ond’esso mal pasciuto a le fatiche Sempre era posto, né mai conoscea Il giorno da lavor da quel di festa, Continuando un duro ufficio sempre Senza giamai provar ocio, o riposo. Ma quando poscia dopo alquanti giorni Da la battaglia ria tornar il vide Di sudor carco, afflitto, polveroso, E tutto homai del proprio sangue molle Per le ferite, ch’egli havuto havea, Tutto allegrossi de la propria sorte ; Che, se ben il tenea poveramente, L’assicurava da miseria tale : E compensando il duol de le fatiche Con la dolcezza del viver in pace ; E del Cavallo ogni trionfo e pompa Con l’infelicità del mal presente, Racconsolato e di sua sorte lieto Menò contento di sua vita il resto.
Però devria colui, ch’altri riprende, Esser con l’opre ognihor norma a sé stesso Et con l’essempio de la buona vita Mover in prima, e poi con le parole Gli altri chiamar di quella al bel camino : Ch’a quel si ridurrian più facilmente, Persuadendo più l’opra, che ’l dire.
ET la Canna, et l’Oliva un giorno insieme Vengono di valore a gran contesa : Ciascuna l’altra vilipende e preme Con parlar, ch’a l’honor contraria, e pesa. […] Io, che con forze estreme Sostener soglio ogni importante offesa, Sarò minor di te, putrida e vile, Che non hai pianta a tua viltà simile ? […] Allhor la Canna la vittoria in mano Si vede, e dice a lei con lieta faccia : Ecco, mischina, il tuo voler insano Come par ch’a te giovi, et honor faccia ?
MENTRE che al Sol nella più algente bruma Givan molte formiche in lunga schiera Portando ad asciugar l’humido grano Fuor de la buca, ove l’havean riposto ; La misera Cicala, che di fame Già si moriva, con preghiere humili Cominciò loro a supplicar soccorso. […] Allhor colei, che tal risposta intese, Con accorto parlar disse ridendo. […] Giovani, voi che de’ vostri anni il fiore Dietro a le vanità perdendo andate, Senza pensar di vostra vita il fine, Aprite a questo esempio, aprite gli occhi : Et imparate con più san discorso, Che v’è mestiero in su la primavera Di vostra età pensar di quella al verno : Se non volete a l’ultima vecchiezza Giunger infermi, e di miseria pieni ; Che l’antico proverbio è cosa vera, La vita il fine, il dì loda la sera.
Ma il superbo Leon questo vedendo Arse nel cor tutto di rabbia e sdegno : E ’l miser divisor tosto accusando D’iniquità, d’inganno, e di malitia, Lacerò tutto ; e con vorace brama Ne satiò la scelerata fame. Poi volto in atto furibondo e fiero A la Volpe, che attonita mirava Quel caso strano, e di nequitia pieno, Con parlar orgoglioso le commesse, Che in giuste parti dividesse il tutto. […] Allhor l’altiero d’allegrezza pieno Le disse. ove sorella, hai così bene Appresa del divider la ragione, Che con tanta dottrina hor m’hai dimostro ?
SENTÌ ’l Leon gridar verso la sera Dentro un fosso lontan da la sua tana Immensa copia di loquaci Rane Con tal romor, che rimbombava intorno Il vicin bosco, e le campagne tutte, E stimando che qualche horribil mostro, Che novo habitator di quelle selve Fatto si fosse, disfidar volesse Le paesane belve a cruda guerra Per farsi ei sol Signor di quei confini, Uscì de la spelonca immantenente Cercando al suon, che gli feria l’orecchie, Con generoso core e d’ardir pieno Del suo sospetto la cagion fallace. Ma poi ch’ei fu da quel condotto in parte, Ove scoperse l’importuna schiera De i piccioli animai, che ’l gran romore Formar potean con l’insolente grido, Stupido tutto alfin ritenne il passo : E del suo proprio error tra sé si rise : E fatto accorto da l’inteso effetto Dal suo sospetto van, disse in suo core. […] Così spesso l’huom vil la lingua move Con gran bravura, e porge altrui spavento Senza vera cagion ; ché tanto offende, Quanto ferisce de la voce il suono : Né più oltra può far di quel, che ’l vento Opra, che le parole in aria sparge.
Ma ecco tosto motteggiarli ognuno, Che con l’Asino scarco issero a piedi, Con un parlar inutile importuno. […] E con cor pien d’amor e caritade Dice : deh non vi move a compassione Questo Asinel, ch’ad ogni passo cade ? […] E scendendo col figlio, anch’ei smarrito, Da le riprension, c’havea lor fatto Il popol vario al dar sentenze ardito, Legò con una fune affatto affatto I piedi a due a due de l’Asinello, E tra lor fecer di portarlo patto. […] Veduto il vecchio del rimedio i frutti Esser sol burle e scherni al pensier novo, E i suoi disegni ognihor restar distrutti, Tosto disse tra sé : poi che non trovo Modo, ond’io possa ognun render contento, Con giusta causa a far questo mi movo.
Ma quando al suon de la sua rauca voce Riconosciuto fu da gli altri, ognuno De le piume non sue tosto spogliollo, E con gran scorno fu da lor scacciato. […] Perché col tempo l’ignoranza folle, E la sua ambition si fa palese ; Onde additato è con vergogna e scorno.
Dunque ciò noti ognun, ch’esser si sente Di cor gentile, e di virtute adorno : E freni l’ira con la bassa gente, Che talhora gli mova ingiuria, e scorno : Perché chi di valore è più possente, E di fregi d’honor cinto d’intorno Spendendo le sue forze in vil figura, La sua virtute, e la sua gloria oscura. Non mostrar tuo valor con gente vile.
Or sendo giunta la stagione estiva, Ch’ardendo secca d’ogni humor la terra, Quella che nel vicin stagno albergava, Invitò l’altra con benigno affetto A lasciar quel sì periglioso albergo Esposto a gli occhi d’ogni passaggiero, Et abondante d’ogni altro disagio, Per albergar con lei dentro a l’humore, Ch’ella eterno godea lieta e sicura.
Onde per visitarlo allhor si mosse Con cor maligno, e simulato volto Il Lupo ; e fatto già vicino a l’uscio, Che la stalla chiudea, per certo foro Dentro guardava ; e l’Asinel vedendo Giacersi a lato del suo infermo padre, Chiamollo a sé, pregandol ch’ei l’aprisse, Ché visitar il genitor volea. […] Tal ti dee del nimico esser sospetto Il volto, che d’amor ti mostra segno ; Se con l’occhio miglior del sano ingegno Non vedi qual gli giace il cor nel petto.
GIVANO molti Lupi in compagnia Per poter meglio far preda sicura, E ’l Corvo astuto gl’incontrò per via : E disse : Il ciel vi dia buona ventura, Fratelli cari : se ’l vi piace, anch’io Compagno vi sarò con dolce cura. […] Ciò detto verso lui con passi presti Tosto si mosse, e lo scacciò da loro, Perch’eran suoi costumi a tutti infesti.
E quel veduto una di loro allegra Invitò l’altra con parole pronte A saltar seco nel bramato humore. […] Saggio è dunque colui, ch’a l’appetito Proprio pon freno, e l’opre sue misura Con la prudenza ogni hor pensando il fine.
CON solecita cura il fier Cinghiale Attorno il duro piè d’un’alta quercia Rendeva i denti suoi più acuti e lisci, Per oprarli per arme a’ suoi bisogni : Onde la Volpe ivi passando a sorte Lo domandò per qual cagion prendesse Cotal fatica poi ch’ei non si vede Haver di guerra occasion presente. […] Ch’aspettar non bisogna che ’l periglio Ti stia sopra del capo in trovar l’armi, Che pon salvarti da nimica mano : Che quando sei con l’avversario a fronte Non è allhor da cercar, ma da oprar l’arme, Che ti difendan da gli assalti suoi.
PASCEANO insieme l’Asino e ’l Vitello L’herba novella in un medesmo prato Tutto di varii fiori ornato e bello : E sentito lontan più d’un soldato Avicinarsi con feroce suono Disse il Vitello : Or vedi un campo armato ; E però parmi, che sarebbe buono Torci di questo loco periglioso, Né il fulmine aspettar udito il tuono. […] Nulla è il loco cangiar con sorte eguale.
Però qualunque volta iva per cibo Da lor lontana la provida madre Lor avvertiva con pietoso affetto, Che se cosa occorresse a lor d’udire, Ch’a l’orecchie di lor nova paresse, Se la tenesser con gran cura a mente Per riferirla al suo ritorno a lei. […] Il che sentito i pargoletti figli Consapevole poi ne fer la madre, Che con gran tema tal novella intese : E disse lor, adesso è ’l tempo, figli, Di dubitar qualche futuro oltraggio, Poi che ’l padron di ciò la cura prende : Però stanotte ce n’andrem pian piano A trovar novo albergo in altra parte, Che quando l’huom far vuol cosa da vero, Non aspetta gli amici, o i suoi parenti : Ma pon sé stesso con le voglie ardenti A dar debito effetto al suo pensiero.
Quinci esso ancor per far prova maggiore Con strepito et stridor ratto si cala Sopra un grosso monton ; nel folto velo Di cui poscia il meschin l’ugne intricando, L’ugne mal atte a così gran rapina, Per prender altri alfin preso trovossi. […] Questo non altro al savio inferir puote, Se non ch’ognun, che temerario ardisce Quella impresa tentar, ch’a la bassezza Del suo grado e valor mal si conviene, Sovente va d’ogni miseria al fondo : E divenuto favola del volgo Con suo danno e dolor schernito giace.
Onde tornando i cacciatori allhora Per quel confine, e non essendo ascosa La Cervia più da la spogliata vite, La vider tosto : et mentre ella seguiva Senza sospetto in ben satiarne il ventre La saettar con un pungente strale, Che da l’un fianco a l’altro la trafisse. […] Ahi quanto di ragion mi vien la Morte Spogliando del vigor, che mi reggea, Poi ch’io medesma la cagion ne fui, Offendendo con mio non picciol danno Colei, ch’a l’ombra de le foglie sue La cara vita mi salvò pur dianzi : Ond’hebbe poi da me sì ingiusto merto.
Hor questo tanto parmi empio e superbo, Che non sì tosto da lontan mi scorse, Che con orgoglio, qual non posso dirti, Due ali aprendo con acuto strido, Mi si fé incontra sì crudele e fiero, Che tutto allhor m’empì d’alto spavento. […] Tal si deve temer l’huomo empio e falso, Che fuor di santitate il volto veste, E di lupo rapace ha dentro il core ; E tacer suole, o con parole pie Adombrar de la sua perfida mente L’iniqua voglia d’ingiustitia piena : Ma non colui, che favellando altero Talhor si mostra, e per costume vano Superbo in vista : che da l’opre poi, Se con modo prudente hai da far seco, Tutto te ’l troverai benigno e pio.
PASCEANO il Cervo, et il Cavallo insieme Dentro un bel prato di novella herbetta Per lunga usanza, e con invidia ognuno, Che ’l compagno godesse un tanto bene, E consumasse quella parte, ch’esso, Se l’altro non ci fusse, havria per sua. E tanto un giorno in lor crebbe il dispetto, L’odio e la rabbia, che con pugna horrenda Vennero insieme a discoperta guerra. […] Così il Caval perdendo ognihor la pugna Partì dolente a viva forza spinto Da la pastura di quel sito ameno : E cercando d’aiuto in quella guerra Alcun, che soccorresse al suo bisogno, Incontrò l’huomo ; a cui con prece humile L’opra sua chiese.
Il generoso augel, che non volea Al suo sciocco pensier dar argomento Di sua ruina, con parlar benigno Cercò ritrarla da quel van disio Mostrandole il pericolo imminente, Che deveva sortir sì vana impresa. […] Visto alfin l’ostinato suo pensiero L’Aquila, e vana ogni ragion con lei, Disse : dunque, se pur cotanto brami L’opra tentar, ch’a te natura vieta, Adopra quanto puoi le mani e i piedi, Poi che penne non hai per tal mestiero ; Che ben ti converrà destra mostrarti, Se da periglio tal salvar ti dei.
E già sul colmo de l’accuse egli era Quando la Volpe già di questo accorta S’appresentò dinanzi al fier Leone, Che era dal ragionar1, che fatto il Lupo Havea contra di lei, con lei sì forte Sdegnato, che volea mangiarla viva. […] Che così avenir possa a ogni altro tale, Che iniquo e discortese accusar tenta Con falsitate, e non inteso inganno L’innocente in assentia al suo Signore.
Tot enim loca pro te liberando hactenus peragraui, ut hos omnes calceos con[t]riuerim.
IN mezo d’una via stava il Serpente, Né però ad altri facea danno alcuno, Anzi sempre calcato era da ognuno, E tolto a scherno da l’humana gente : E con Giove si dolse, che innocente Essendo, gli era ogni huom sempre importuno.
GIUNSE la Volpe da la fame scorta Ove una Vite co i pendenti rami Facea d’uve mature allegra vista : E cominciò con appetito immenso Far ogni prova, onde potesse haverne.
Non molto dopo avenne, ch’ivi presso Havendo alcuni habitator del loco Immolato una Capra al sacrificio, Del nido la rapace Aquila scese, E preso havendo ne gli adunchi artigli Certe reliquie de l’adusta carne Con alquanti carboni accesi intorno Rapida salse al suo superbo nido. […] Però devrebbe inviolabilmente Ognun servar de l’amicitia vera Le ragion sante, e con l’honesto il dritto : Né per cagion benché importante assai, Che dal giusto si trovi esser lontana, Offesa far al suo fedele amico ; Non havendo a piacer l’esser da quello, O da Dio stesso egli medesmo colto In qualche occasion tardi o per tempo.
Ma quella, che già tutta era d’intorno Coperta d’uva ben matura e bella, Lor disse : dunque vi credete ch’io, Che di tanta ricchezza allegra vivo De’ frutti miei con mio grande ornamento, Onde il cielo e la terra in pregio m’have, Possa sì facilmente al suon piegarmi De’ preghi vostri, benché d’honor pieni, Ch’io lasci di Natura un tanto dono, Che felice mi rende in ogni tempo ; Per prender poi così noiosa cura, Che non mi lasci un dì viver contenta ? Certo io sarei da chi più mi conosce Tenuta pazza, se ciò far volessi, E lasciar le mie cose irsene a male, Attendendo a l’altrui con tanta noia.
IL Corvo infermo, e già vicino a morte Senza speranza di terreno aiuto Con prolisso parlar pregò la madre, Che facesse per lui preghi a gli Dei Ch’ei ricovrasse il suo vigor primiero.
VIDE la Capra da una rupe al basso Il Leone impazzito e furioso Scorrer con atti strani, e torto passo Hor su, hor giù di campi un largo piano : Et da stupore, et gran cordoglio mossa, Né senza grave horror del suo periglio Tra sé medesma fé cotai parole.
Ben io sollo ancora, E ben conosco ciò ch’io faccio, e a cui : Però non temo di darmi solazzo Con teco sciocca, e fa’ pur ciò che puoi.
Così talhor altrui l’huom donar suole Quel, che per modo alcun vender non puote, Celando il suo pensier con finte note Mentre non ne può far ciò, ch’egli vuole.
PASSANDO un’acqua il Cane con un pezzo Di carne in bocca, che trovò per via, Vide nell’onda, ch’era posta al rezzo, L’ombra maggior di quella, ch’egli havia : Et disse.
Ma perché quel di terra assai più lieve Scorrea sicuro ; l’altro, che temea Per la gravezza sua girsene al fondo, Cominciò con parole affettuose A pregar l’altro in lusinghevol modo, Che d’aspettarlo non gli fusse grave : Et legatosi seco in compagnia Volesse far quel periglioso corso : Onde l’altro gli diè simil risposta.
Dunque chiamando tutte l’altre Volpi, Si fé di lor nel mezo, e con prolisso Sermon persuader questo sforzossi.
Così devria colui lasciar le imprese, Che impossibili sono alle sue forze, Né contrastar con quel, ch’è più possente Di virtute e valor : che nulla acquista Chi l’huom combatte, ch’è di lui più forte.
D’UN gran vaso di mel, ch’a un pellegrino Si ruppe, era una via sparsa nel mezo Con largo giro : ond’una copia grande Di Mosche in quello da la gola tratte Dolcemente pascean l’amato humore.
Tal che più d’un, che la fatica vana Scorgea di lui da carità commosso Gli ricordava con parlar cortese, Che per trovarla a la seconda andasse Del corrente liquor, che in giù trahea.
Onde a pregar si diè con humil voce Colui, che preso in man stretto il tenea Per dargli morte, acciò sicuro fosse De gli altri augelli, ch’ei prendea, lo stuolo, Che lo lasciasse, perché esso giamai Non gli havea fatto ingiuria, o danno alcuno.
L’AQUILA stanca dal continuo volo Per posar sopra un sasso al pian discese : D’onde un uccellator, ch’ivi la vide, E la prese di mira, alfin la colse Con un pungente stral da l’arco spinto Mentre ella stava per gettarsi intenta Dietro a una lepre, e farne alta rapina.
Così spesso intervien, che dove alcuno Dovrebbe oprar la man tosto e l’ingegno Per condur l’opre d’importanza a fine, Sta vaneggiando a consumar il tempo Dietro a parole, e quel, che meno importa, Al vero fin de la bramata impresa Con danno de gli amici et sua vergogna.
O pazzo e vil che sei, Poi che tanta folia tu meco ardisci, Che con un piede sol franger potrei L’ossa tue tutte, e far tue forze vane, S’io mi degnassi di contender teco, Né da cura maggior cacciato io fussi Al corso, che vietarmi indarno tenti.
E così non prendendo alcun partito Con gran sospiri e gemiti pregava Ercole invitto, che dal ciel scendesse Per sovvenirlo in così gran bisogno.
Allhor quel sciocco, che sentiva quali Eran le lodi, che colei gli dava, Entrato in speme di quel vano honore, Che gli augurava il suo finto sermone, Per mostrarle c’haveva e voce e canto, Incominciò gracchiar con rauco strido Sì, che dal rostro il cibo in terra cadde.
Egli, ch’ad ogni modo havea desire Di far vendetta de l’havuto oltraggio, La casa fracassando a terra trasse Con fiero sdegno ; e l’altre tutte quante Destò ad un tratto, che col morso acuto, E col pungente stral de la lor coda Gli furo intorno generosamente Quello assalendo per salvar la vita A i proprii figli, e vendicar in parte De i loro alberghi la total ruina.
Che giunta in breve per le vie più corte De i can la torma a lui, ch’era intricato, Con fiero stratio ne ’l condusse a morte.
STUPIDO il Porco disse un giorno al Cane : Non so, caro fratel, perché tu stai Vicin sempre al patron, che spesso spesso Ti batte, e più tu l’accarezzi ognihora : Tal ch’io, che mai da lui non sento offesa, Anzi nutrito son due volte il giorno, Non me ’l posso giamai veder da presso Con cor sicuro, pur temendo quello, Che tu provato ognihor par che non temi.
Ognuno dunque accortamente impari L’arte seguir, a cui sua stella il chiama : Et lasci quell’ufficio, in cui Natura, O giudicio, o favor non gli consente, Da riuscir con utile et honore, Se gir non vuol d’ogni miseria al fondo.
Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del suo mal forte si duole : Et poi le dice con parole humane : Ch’egli si trova in punto, s’ella vuole, Di scacciarle le mosche allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado facea, non potea trarla Se ben s’affaticasse più d’un giorno.
Prendasi pur ognuno, o sommo Padre, De gl’immortali Dei qual più gli aggrada Inutil pianta del suo pregio insegna, Ch’io quanto a me, cui sempre giova e piace L’honor goder con l’utile congiunto, M’eleggerò la pretiosa oliva, Di cui voglio esser protettrice amica.
UN bel podere un Contadin da Giove Tolse in governo con espresso patto Che Giove a sua richiesta ogni stagione De l’anno a regger solamente havesse Mandando hor vento, hor pioggia, hor caldo, hor gelo, Secondo ch’ei da lui chieder saprebbe.
Frate dapoi, che da tua bocca io veggio Il caldo, e ’l freddo uscir con egual modo, Non vo’ più consentir d’esserti amico ; E dal tuo conversar tosto mi toglio.
Préface de la première édition Je me propose de publier, en faisant précéder les textes de leur histoire et de leur critique, tout ce qui reste des œuvres des fabulistes latins antérieurs à la Renaissance. C’est une vaste tâche que personne encore ne s’est imposée, et qui, je le crains du moins, m’expose à être un peu soupçonné de présomption. Pour me prémunir contre un pareil soupçon, je désire expliquer comment j’ai été conduit à l’assumer. De tous les auteurs anciens qui guident les premiers pas de l’enfant dans l’étude de la langue latine, Phèdre est celui qui lui laisse les plus agréables souvenirs. Ses fables sont courtes, faciles à comprendre et intéressantes par l’action qui en quelques vers s’y déroule.