Marie de France, n° 91 La biche qui instruisait son faon Une bisse chastiot ja un suen fëon que ele mena cum il se deust par tut guarder e des veneürs desturner e del lu* qu’il ne l’encuntrast qu’il ne l’ocesist e mangast. […] Il ne nus veut fere nul mal ; de l’autre part del cheval est descenduz, si est mucez : de nus veer est esmaiez. » — « Nenil, beu fiz, de ceo n’i ad nïent ; einz esgarde hardiement, si vait sun fust aparaillant, u ad grant mal el chef devant : s[i]’il le fet vers nus venir, bien en purrum le mal sentir.
Marie de France, n° 87 Les deux loups Deus lus hors [del] bois s’encuntrerent ; la se resturent, si parlerent que nul hum nes osot atendre, tut ne vousissent il rien prendre. […] Ceo veit hum suvent del felun, ki a mut petit d’acheisun laisse le bien qu[e]’il comence ; s[i]’il ne veit en sa presence le lüer quë en veut aver, a mal en turne sun esper.
GIACEA ’L Leon nella spelonca homai Da gli anni reso debile, et infermo, Et inetto del tutto a procacciarsi, Come quando era giovine solea, Andando a caccia francamente il vitto. […] L’astutia fu, ch’un dì passando il Corvo Vicino a la sua grotta, a sé chiamollo Con debil voce, e con sermone humile Il mosse a gran pietà de la sua sorte : Et lo pregò, ch’ei divulgasse tosto De la sua morte già vicina il nome, Per cortesia fra gli animali tutti, Che facevan soggiorno in quel paese : Che, essendo esso lor Re, debito loro Era di visitarlo, e ritrovarsi Ciascun l’ultimo dì de la sua vita Per honorarlo de l’esequie estreme ; E ch’ei gran voglia havea di rivederli, E dir a chi l’amò l’ultimo vale : E testamento far per far herede Alcun di lor del destinato scetro. […] Così più giorni fece insin che venne L’astuta Volpe, che da un poco sangue, Che vedea presso a lui, sospetto prese, E più oltre passar non volse prima Che ’l salutasse, e da la sua risposta Meglio congietturar potesse il fatto : E tosto accorta a salutarlo prese Lontana un poco per mostrar gran doglia Del suo languire sospirando alquanto ; E a dirle del suo stato lo pregava.
Marie de France, n° 71 Le loup et le hérisson Del lu dit e del heriçun, que jadis furent cumpainun. […] Sul me eüssez ore einz lessé, mes jo t’ai bien suzveizïé. » Ceo peot hum veer del felun, ke veut trahir sun cumpainun : il me[is]mes est encumbrez la u li autre est deliverez.
Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del suo mal forte si duole : Et poi le dice con parole humane : Ch’egli si trova in punto, s’ella vuole, Di scacciarle le mosche allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado facea, non potea trarla Se ben s’affaticasse più d’un giorno.
Se n’escusava il mansueto Agnello Con voce humile e con tremante core Dicendo, Che sendo ei di sotto a lui A la seconda del corrente humore Non potea torbidar l’acque di sopra, Che dal fonte venian limpide e pure. E non sapendo che risponder l’empio Contra la forza e la ragion del vero, Soggiunse irato con altera voce, Ch’era sfacciato e di follia ripieno A dar risposta a sue saggie parole ; Ch’ad ogni modo ei non volea scostarsi Da la natura de’ parenti suoi, Che gli havean fatto mille e mille offese : E che gran voglia havea di far che a lui Toccasse un giorno di scontarle tutte Per lor col merto de le sue sciocchezze.
Ore remanez anuit od mei, sil vus musterai par dreite fei sur la mole mut a eise ; n’i averez rien que vus despleise, asez averez ferine e greins del blé que remeint as vileins. […] Dunc ne pot la suriz avant, a la reine dist en plurant : « [I]ci ne puis jeo pas passer, kar jeo ne sai unkes noër. » « Pren », fet la reine, « cest filet, sil lïez ferm a tun garet, e jeo l’atacherai al mien : la rivere pass[er]um bien. » La suriz s’est del fil lïee, a la reine s’est atachee ; el gué se mettent, si s’en vunt. […] Si est des veizïez feluns : ja n’averunt si bons cumpainuns, tant facent a eus grant honur, si rien lur deit custer del lur, que durement ne seient liez, si par eus seient enginniez.
Ella, che non volea per modo alcuno Folle patir d’esser minor del Bue, Né creder che colui, ch’era suo figlio, Lei madre vincer di saper potesse, Che d’anni e mesi l’avanzava assai, Nulla stimava il suo consiglio sano : Ma riputando sue parole vane, E stimando accortezza il proprio humore Tanto gonfiossi, che crepar convenne. Così spesso interviene al vecchio insano Di mente, che dal tempo misurando Il senno, sprezza del giovine saggio Il buon consiglio di ragion matura : E seguitando il suo pazzo discorso Si mette a far con cor superbo e vano Quel, ch’a ragion tentar non può, né deve.
Allhora il Vespertiglio le rispose Ch’augel non era ; et ciò provava a i segni Del proprio corpo senza piume tutto, E che del pel del Topo era vestito, Con cui conformità per specie havea.
Il figlio tosto ubidiente cede A le parole del suo buon parente, E fa quel, ch’ei gli dice, e ’l meglio crede. […] Onde credeano in pace a tanto saggio D’openioni altrui varie e diverse Ambi fornir il resto del viaggio. […] Veduto il vecchio del rimedio i frutti Esser sol burle e scherni al pensier novo, E i suoi disegni ognihor restar distrutti, Tosto disse tra sé : poi che non trovo Modo, ond’io possa ognun render contento, Con giusta causa a far questo mi movo.
Veer pöez del nunsavant que sun mal us prise autretant cume sun bon tut oëlement ; ne peot lesser sun fol talent.
Tel vou as fet que ne conus ; tun vou t’estut ainz aquiter que nuls te puisse deliverer ; ja ne t’en aiderai anceis : tel est la custume e la leis. » Ceo veit hum suvent del felun : tant enchantet sun cumpainun qu’il me[is]mes est enginnez e ja par lui n’ert aidez.
Ma il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leone, Che non haveva più l’ugne, né i denti, Non solo di negargli hebbe ardimento La figlia, ch’egli li chiedea per moglie ; Ma con un grosso fusto lo percosse Si fieramente nel superbo capo, Ch’a terra lo mandò stordito, e poi In pochi colpi gli levò la vita : E sciolto andò da tal impaccio e briga. La favola in virtù saggia ammonisce L’huom forte, che con altri accordo brama, A non lasciarsi tor l’armi di mano, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel, che contra lui possente il rese, Cangi pensiero di fermar la pace ; E con guerra mortal gli mova assalto, E lo conduca a l’ultima ruina, Senza poter haver da lui contrasto.
LA Volpe un’alta siepe havea salito, Che intorno circondava un bel giardino, E venendole a caso il piè fallito Diede cadendo in un pungente spino : E sentitosi il piè punto e ferito Di lui si dolse, e del suo rio destino.
Marie de France, n° 5 Le chien et le fromage Par une feiz, ceo vus* recunt, passoit un chien desur un punt ; un fourmage en sa buche tient ; quant en mi le puncel [par]vient, en l’ewe vit l’umbre del furmage ; purpensa sei en sun curage que aveir les voleit amduis.
Quel bene adunque, che si gode eterno, Al momentaneo preferir si deve : Perch’a noi sembrar suol del tutto esterno Quel, che si perde allhor, che si riceve.
Marie de France, n° 62 L’aigle, l’autour et les colombes Li egles est des oiseus reis, pur ceo qu’il est pruz e curteis ; li osturs est sis senescaus, que n’esteit mie del tut leiaus.
Esopë apel’um cest livre, qu’il translata e fist escrire, del griu en latin le turna.
Io canto di mia vita il giusto fine, Che di necessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E del ben e del mal, come la sorte Di ciascun brama, e con ragion richiede : Io canto le miserie mie passate : Io canto appresso la futura pace, E l’eterno riposo, onde la vita È priva sempre, e da continue cure Di procacciarsi con fatica il vitto Sempre si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro, che, giungendo al fine Di questo viver, giungo al fine anchora Di tanti affanni, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose, Che sono al mondo in qual si voglia o forma O stato variate dal primiero Sembiante, in ch’elle havean sostanza e vita, Quiete dolce e sempiterna pace.
Et ei, che né di sé, né d’altri havea Cura, che punto l’annoiasse mai, Già tutto gonfio del concesso honore Stimando sé maggior di quel, ch’egli era, Parlò superbamente in cotal forma. Dunque, s’io son Re vostro, a l’ombra mia Correte tutti ; e se tardate a farlo Qual poco ubidienti a’ miei mandati, Farò del tronco mio tal fiamma uscire, Che tutti v’arderà senza pietate, Sì che ne tremeran malgrado loro Le Quercie antiche, e i più sublimi Cedri, Che dal Libano monte al Ciel sen vanno.
Quant ma volenté n’ai de tei, ja nule honur n’averas de mei. » Autresi est de meinte gent, se tut ne* veit a lur talent, cume del cok et de la gemme ; veu l’avums de humme et de femme ; bien e honur niënt ne prisent, le pis pernent, le meuz despisent.
Sa mençunge est plus covenable e meuz resemble chose estable que del gupil la veritez. » Nul de eus ne deit estre jugez.
Se me, ch’esclusa de l’amata luce Vivo infelice sotto eterna notte Priva del maggior ben, ch’al mondo sia, Vedete star senza querela in pace ?
VIDE la Capra da una rupe al basso Il Leone impazzito e furioso Scorrer con atti strani, e torto passo Hor su, hor giù di campi un largo piano : Et da stupore, et gran cordoglio mossa, Né senza grave horror del suo periglio Tra sé medesma fé cotai parole.
Ma trovatolo a sorte uno a cavallo, Che gli venia da la cittade incontra, Di volerlo comprar sembianza fece : E prendendolo in mano, e ponderandol Per farne stima, lo chiedea del prezzo, Quando l’astuto in un medesmo punto Toccò di sprone il suo destrier veloce, E a sciolta briglia in fuga il corso prese.
Ma l’huom, che già l’havea nelle sue mani, E poteva domar a modo suo De le forze di lui l’alto valore, Disse : Che, s’egli in suo servitio havea Tanto sudato, che vittorioso Fatto l’havea del suo fiero nimico ; Era ben degno ancor, ch’esso il servisse Per qualche giorno in alcun suo bisogno, E che non intendea per modo alcuno Lasciarlo andar senza pagargli il costo Di sue fatiche, e nel ritenne a forza Sì, ch’ei rimase eternamente servo. Così talhora un huomo, ch’è men forte Del suo nimico, e che soccorso chiede Ad huom, che più del suo nimico vale, Dopo le sue vittorie alfin rimane De la sua propria libertà perdente : Che quel, che vinto ha il suo nimico, ch’era Di lui più forte, assai più facilmente Può vincer lui, di cui già possessore Si sente, e haver tutte le forze in mano ; Né vuol haver per altri indarno speso Il valor proprio : ché raro si trova Chi per un altro il suo metta a periglio, Senza speranza di guadagno haverne.
Par cest essample le vus di, del nunsavant est autresi ; ki creit* ceo quë estre ne peot, u vanitez lë oste e muet.
Sez u seez, vas la u vas, ja par tun fet honur n’avras ; jeo sui pur le mien fet amee e mut cheri e bien gardee. » Issi fet del natre felun : quant il ad [le] bien en bandun, vers les meillurs trop se noblee e de parole s’esrichee, par grant desdein les cuntralie.
Allhor fermato il Lupo, e nulla mosso A sdegno del parlar suo dispettoso, Ma con la mente tutta cheta a quello Con un basso parlar così rispose.
Più tosto voglio esser da voi schernita, Temendo in van del mal falsa cagione, Che stando in gran pericol de la vita Dar di piangermi a’ miei vera ragione.
Les creatures s’asemblerent ; a la Destinee en alerent, si li mustrerent del soleil que de femme prendre quert cunseil.
Sa fille fist venir avant ; tant par destreit tant par amur li estut cunustre la verrur ; del sanc li dist que ele espandi e que li autre esteit de li.
Al bois ala pur demander a chescun fust qu’il pot trover al quel il li loënt entendre, del queil il puisse mance prendre.
Pria che morte ti colga esci del vitio.
IL Cerbiato chiedeva un giorno al padre Da qual cagione proceder potesse, Ch’ogni volta, ch’a guerra il can lo sfida, Egli sì facilmente in fuga volto Di lui solo al latrar desse le spalle, Essendo egli di corpo e di valore Maggior del cane, e con la fronte armata Di dure corna a contrastar possenti Con qual si voglia più forte animale.
Ma quando fur ben satie e di mel piene Volendosi da quello alzar a volo Parte da la gravezza del pasciuto Ventre, parte dal mel tenace fatto Dal Sole ardente de l’estivo giorno Ritenute di là mover il piede Mai non potero, e faticarsi indarno.
D’UN MARITO, CHE CERCAVA AL CON-trario del fiume la moglie affogata.
Et detto ciò gli diè tanto del capo Sopra d’un sasso, che morir convenne.
Li fous quide del veizïé quel voillë aver cunseillé si cume sei, mes il i faut, kar tant ne seit ne tant ne vaut.
Et veduto lo stral tutto nascoso Nell’intestine del suo proprio ventre, S’avvide ancor, che de lo stral le penne De l’ali proprie sue furon già parto : E non tanto si dolse esser traffitta Per giugner di sua vita in breve al fine, Quanto che di veder l’ali sue stesse Esser ministre a lei di tanto danno.
Così l’huom nella prospera fortuna Divien superbo, e non conosce mai La debolezza del suo vil valore : Che, se in contraria sorte avien che cada, Si riconosce suo malgrado, e sente Non esser quel che si teneva in prima.
Il Cigno allhor per naturale istinto Mosso a cantar co’ più soavi accenti, Che possa di sua vita a l’ultime hore, Visto già il ferro de la morte autore, Et esser preso da l’infesta mano Di quell’huom rozo e di pietate ignudo, Nel cor piangendo a cominciar si diede Così leggiadro e dilettoso canto, Ch’a quello il Cuoco del suo errore avvisto Il riconobbe al primo suono, e tosto Lasciollo in pace, e diè di mano a l’Occa.
Ella, che per natura era cortese, E ricca intorno del suo gran tesoro, Gli ne fé parte, gratiosamente Donando a lui quanto le havea richiesto.
Andando un giorno per la via pensoso Adosso mi cadde, cred’io dal cielo, Un sì fervente humor, e a me noioso, Che quasi un terzo mi levò del pelo : E questo m’è un ricordo tanto amaro, Ch’a dirti il vero ancor me ne querelo.
Par essample nus mustre ci chescun franc hume face einsi : si nuls l’en veut doner lüer ne par pramesse losanger que sun seignur deive traïr, nel veile mie cunsentir ; atendre en deit tel guer[e]dun cum[e] li chien fist del larun.
Ch’aspettar non bisogna che ’l periglio Ti stia sopra del capo in trovar l’armi, Che pon salvarti da nimica mano : Che quando sei con l’avversario a fronte Non è allhor da cercar, ma da oprar l’arme, Che ti difendan da gli assalti suoi.
Questo non altro al savio inferir puote, Se non ch’ognun, che temerario ardisce Quella impresa tentar, ch’a la bassezza Del suo grado e valor mal si conviene, Sovente va d’ogni miseria al fondo : E divenuto favola del volgo Con suo danno e dolor schernito giace.
Ahi quanto di ragion mi vien la Morte Spogliando del vigor, che mi reggea, Poi ch’io medesma la cagion ne fui, Offendendo con mio non picciol danno Colei, ch’a l’ombra de le foglie sue La cara vita mi salvò pur dianzi : Ond’hebbe poi da me sì ingiusto merto.
Li chiens i vient, sa leine en porte, e li escufles d’autre part, e puis li lus, trop li est tart que la chars fust entre eus destreite, kar de vïande eurent suffreite ; ne la berbiz plus ne vesqui : sis sires del tut la perdi.
« Tu es », fet il, « fole pruvee, quant de mei es vive eschapee, que tu requers autre lüer, que de ta char ai grant desirer ; mei, ki sui lus, tieng jeo pur fol que od mes denz ne trenchai tun col. » Autresi est del mal seignur : si povres hom li fet honur e puis demant sun guer[e]dun, ja n’en avera si maugré nun ; pur ceo qu’il seit en sa baillie, mercïer li deit* de sa vie.
Il n’unt pas tuz le bref oï ki vient del rei, jol vus afi : ne m’estuvereit pas remüer, si tuz l’eüssent oï cunter ».
IL Cervo si specchiava intorno al fonte, E del bel don de le ramose corna Si gloriava di sua altera fronte : E mentre quelle a vagheggiar pur torna, De le gambe si duol brutte e sottili, Qual non conformi a sua persona adorna.
Non biasmar del tuo vitio un altro mai.
FÉ sacrificio la Cornacchia un giorno Al simulacro de la Dea Minerva, E del convivio suo chiamò cortese A parte un can, ch’era suo vecchio amico.
LA Gallina trovò del Serpe l’uova, Et a covarle incominciò cortese ; Perché n’uscisse la progenie nova Con desio di ben far, ch’a ciò l’accese.
Il che sentendo una di lor più antica D’anni, e di lunga esperienza dotta Le domandò quel, che l’està passata Ella facesse : e rispondendo quella, Che col batter de l’ali, e ’l mover tuono Dentro a le cartilagini sonanti De l’aureo ventre un’harmonia soave Formar soleva per comun ristoro De gli affannati, e stanchi pellegrini, Che sotto il fiero ardor del Sole estivo Facean passaggio per gli aperti campi.
Ond’ei chiedendo il pattuito dono L’Asino, che pagar già nol poteva, Lo pregò caramente a rimirarli Meglio per non so che, che l’affligea, Nella ferita anchor restata aperta : Che grato poi del premio gli sarebbe.
Si del lu veulent aver pes, si le facent sur sainz jurer qu’il ne deie beste adeser ne que jamés a sun vivant ne mangast char [ne] tant ne quant. […] Pur ceo mustre li sage bien, que hum ne deüst pur nule rien felun hume fere seignur ne trere lë a nule honur : ja ne gardera leauté plus a l’estrange que al privé ; si se demeine envers sa gent cum fist li lus del ser[e]ment.
Marie de France, n° 2 Le loup et l’agneau Ci dit del lu e de l’aignel, ki beveient a un clincel.
Mut s’est li asnes purpensez que meuz del chien vaut [il] asez e de bunté et de grandur, meuz savereit a sun seignur jüer que li chenez petiz e meuz sereit oï ses criz meuz savereit sur li saillir meuz savereit des piez ferir.
Autresi est, ne dutez mie, si povres hum prent cumpainie a plus fort hume qu’il ne seit : ja del guain n’avera espleit.
Cele que pres del trunc estut e vit que pas ne se remut, ses cumpaines ad rapelées ; si sunt ensemble al trunc alees.
« Ore ne chaut quë hum me tienge verm u oisel, mes que jo vienge dedenz la fiente del cheval ; kar de feim ai dolur e mal. » Issi avient des surquidez : par eus me[i]mes sunt jugez ; ceo enpernent que ne poënt fere, dunc lur covient a[rrier] retrere.
Tant les aveit aseürez que en la grange esteient entrez ; del blé mangerent durement, dunt le vilein firent dolent.
Ma poi ch’ei fu da quel condotto in parte, Ove scoperse l’importuna schiera De i piccioli animai, che ’l gran romore Formar potean con l’insolente grido, Stupido tutto alfin ritenne il passo : E del suo proprio error tra sé si rise : E fatto accorto da l’inteso effetto Dal suo sospetto van, disse in suo core.
Io ti giuro per Venere o malvagia, Che se più dietro vai con tue parole Me, che non mai t’offesi, ingiuriando, La farem d’altro, che di ciancie alfine: Ch’io ti traffigerò l’invido fianco Con questo dente mio pungente e forte, Che fia risposta del tuo vano orgoglio.
Quand cil eissirent del celer, les suriz revindrent manger ; cele fu murne e en dolur, ki ot eü de mort poür.
Rispose a questo il Gallo : il tutto è vero : Ma lo faccio io per mantener del nostro Seme la specie ; et arricchir colui, Che m’è padrone, e mi nutrisce in casa Per questo effetto, et poi sforzato il faccio, Ché così dal padron mi vien imposto Non mi dando altri de la specie mia Da conservar, et ampliar la prole, Che le sorelle, e le figliuole, e anchora La madre stessa ; sì che a torto incolpi Me de l’altrui peccato, e a torto accusi Del ben, che tanto reca utile altrui.
Quant el marché furent entré, un humme borne unt encuntré qui le destre oil aveit perdu ; ensemble od eus l’unt retenu, si li demandent sun avis que del cheval die le pris.
« Tes guanz », fet il, « vei depescez Autre feiz seez chastïez que autre ne deiz par mal tenir, que sur tei deive revertir. » Tel purchace le mal d’autrui que cel meme revient sur lui, si cum li lus fist del gupil, qu’il voleit mettre en eissil.
« Pensez », fet ele, « del haiter !
E tosto a pregar l’Aquila si diede Che le piacesse d’indi trarla seco A i superni del cielo immensi campi Per darle il modo, onde volar potesse.
Autresi est del traïtur que meseire vers sun seignur a ki il deit honur porter e leauté e fei garder ; si sis sires ad de li mestier, as autres se veut dunc ajuster, a sun busuin li veut faillir e od autres se veut tenir ; si sis sires vient el desus, ne peot lesser sun mauveis us ; dunc vodreit* a lui returner : de tutes pars veut meserrer, si honur en pert e sun aveir e repruver en unt si heir, a tuz jurs en est si hunis cum fu dunc la chalve suriz que ne deit mes par jur voler, në il ne deit en curt parler.
Ecco il Lin nasce, et ella, che pur serba Nel cor del suo presagio il gran timore, Disse di novo con rampogna acerba.
Così restando il Lupo anchora vivo Tutto spogliato de la propria pelle L’astuta Volpe motteggiando seco Dicea : non ti vergogni in questo loco, E di tanti animali alteri e degni A la presenza, e del comun Signore Lasciarti veder nudo in questo modo ?
Tuz esteient dunc esbaï quant del cucu oient le cri : ne surent quels oiseus ceo fu, mes que tut tens diseit cuccu.
Allhora il Sole incomminciò scaldarlo A poco a poco con l’ardente raggio Sì, che ’l buon pellegrino anch’esso venne A poco a poco a lasciar giù le parti Del mantello, onde pria tutto era chiuso : Indi sentito assai maggior l’affanno Del caldo lume tutto si scoperse De la veste : et così del tutto poi Spogliossene, ch’alfin se la raccolse Sopra le spalle ; e così via n’andava.
Così il gran Re del cielo esalta spesso L’huomo pien di bontade, e ricco il rende ; E l’huom malvagio impoverisce, e prende Diletto in farlo star sempre depresso.
Jeo me derainerai [tres] bien que ne me mescrerra de rien. » Dunc [en] vunt devant le leün, si li mustrerent la raisun ; del quor dient qu’i l’unt perdu.
Li bucs leva en haut sun cri ; si durement aveit crié que li pastur sunt hors alé e cil que pres del munt esteient e as viles entur maneient.
Préface de la première édition Je me propose de publier, en faisant précéder les textes de leur histoire et de leur critique, tout ce qui reste des œuvres des fabulistes latins antérieurs à la Renaissance. C’est une vaste tâche que personne encore ne s’est imposée, et qui, je le crains du moins, m’expose à être un peu soupçonné de présomption. Pour me prémunir contre un pareil soupçon, je désire expliquer comment j’ai été conduit à l’assumer. De tous les auteurs anciens qui guident les premiers pas de l’enfant dans l’étude de la langue latine, Phèdre est celui qui lui laisse les plus agréables souvenirs. Ses fables sont courtes, faciles à comprendre et intéressantes par l’action qui en quelques vers s’y déroule.