IL Cane e ’l Gallo un gran viaggio insieme Presero a far per varii boschi e ville Passando per dar fine al lor camino : Ma non giungendo al destinato loco Prima che nascondesse il Sole il giorno, Fra lor fecer pensier di far dimora Per quella notte, fin che ’l novo albore Rendesse il lor camin via più sicuro. Così d’una gran noce in cima un ramo S’assise il Gallo, e ’l Can di quella al piede Ch’era cavato, e da cento anni e cento Roso, e reso per lui capace albergo, S’accommodò passando quella notte In dolce sonno con tranquilla pace. Ma poi ch’apparve in Oriente il raggio Del matutino Sol con lieta voce Diede il Gallo principio al canto usato : E replicando diè di sé novella A la Volpe, che poco indi lontana Havea ’l suo albergo : et tosto al canto corse Dove era il Gallo ; et con parole amiche Salutollo ridendo, e supplicollo Con sermon efficace, ch’ei volesse Scender del tronco, ov’egli alto sedea, E benigno di sé copia facesse A lei, che forte del suo amor accesa Già si sentia del suo leggiadro aspetto, E de l’alta virtù del suo bel canto : Onde abbracciarlo come caro amico Ella voleva, et nel suo albergo trarlo Per fargli a suo poter cortese accetto. Il Gallo, che cognobbe il finto viso, E ’l parlar simulato de l’astuta, In cotal modo anch’ei saggio rispose. […] Però ti prego acciò che quinci io scenda Picchia a quell’uscio, e ’l portinaio desta Che m’apra il passo, ond’io per dentro al tronco Venga a trovarti, et abbracciar ti possa Come ben cara a me novella amica.
Et un di lor, che primo a parlar prese, Fu di parer, ch’un gran sonaglio al collo Legar del Gatto si devesse al fine, Che ’l suo venir al suon si conoscesse Da lor, c’havriano del fuggir tal segno. […] Così spesso intervien dove il periglio Si scorge in eseguir util consiglio : Però colui, che sua sentenza porge Che del publico ben cagione apporta, Dee pensar prima, che la lingua snodi, Se ’l fin del parer suo puote eseguirsi Senza pericol di chi ’l pone in opra, Se brama esser tenuto al mondo saggio. Del suo debito fin manca il consiglio, In cui de l’eseguir chiaro è ’l periglio.
Di che Giove sen rise, e ’l Contadino Le perdute fatiche in van piangea. […] Or su fratel poi c’hai veduto Qual utile t’ha dato il tuo consiglio In farmi governar l’anno a tuo modo, Ara, e semina anchor a modo tuo Quest’anno quel poder, c’hai da me preso E lascia a me la cura del governo De le stagioni del futuro tempo ; Che t’avvedrai qual sia ’l tuo senno e ’l mio. Così fece il Villano ; et nel seguente Anno la messe andò tanto feconda, E la vendemia, e ’l resto del raccolto, Che vinse di gran lunga ogni speranza, Ogni desio di Contadino avaro.
GIÀ fu che Borea, e ’l Sol vennero insieme A gran contesa di forza e valore, Ciascun tenendo haver di ciò la palma. […] Or quel di noi, che più tosto la veste Di dosso gli trarrà, quel sia maggiore De l’altro di valor, e ’l più lodato. […] Or visto alfin la sua fatica vana Il vento stanco, e in sé più che sicuro, Che ’l Sol, che meno impetuoso fiede, Far non potesse in ciò prova maggiore ; Cessò lasciando a lui di questa impresa La parte, che a ragione a lui toccava. Allhora il Sole incomminciò scaldarlo A poco a poco con l’ardente raggio Sì, che ’l buon pellegrino anch’esso venne A poco a poco a lasciar giù le parti Del mantello, onde pria tutto era chiuso : Indi sentito assai maggior l’affanno Del caldo lume tutto si scoperse De la veste : et così del tutto poi Spogliossene, ch’alfin se la raccolse Sopra le spalle ; e così via n’andava. Ma dopo breve spatio assai più fiero Mostrando seco il Sol l’intenso ardore, Tutto di sudor carco, e vuoto quasi Di spirto, et di vigor di mover passo, Stanco depose la noiosa veste, Lasciandola tra via fra certe vepri Per non lasciar in quel camin la vita : Così di voler proprio abbandonolla Con speme di poter forse trovarla Al suo ritorno nel riposto loco : E ’l Sol di quella impresa hebbe l’honore.
IL possente Leon, l’astuta Volpe, E ’l semplice Asinel venner d’accordo D’esser compagni, e divider tra loro Quel, che ciascun di lor prendesse in caccia. […] Ma il superbo Leon questo vedendo Arse nel cor tutto di rabbia e sdegno : E ’l miser divisor tosto accusando D’iniquità, d’inganno, e di malitia, Lacerò tutto ; e con vorace brama Ne satiò la scelerata fame. […] De l’Asino lo stratio, e ’l tristo fine Dato m’ha de le leggi la dottrina ; Ch’a ben patir quel, ch’è commune, insegna ; E m’ha fatto legista in un momento.
Ahi di natura ugual disugual sorte, Che non so qual destin da cielo piove : Costui si pasce, e riso avien ch’apporte Al padron, cui tal danno appar che giove : Io fin lontan perseguitato a morte Vengo, se ’l guardo pur pensando altrove : Tal il favore ottien da molti spesso, Che in altri appar minore un fallo stesso. Il favore è cagion, che ’l torto regna.
SENTÌ ’l Leon gridar verso la sera Dentro un fosso lontan da la sua tana Immensa copia di loquaci Rane Con tal romor, che rimbombava intorno Il vicin bosco, e le campagne tutte, E stimando che qualche horribil mostro, Che novo habitator di quelle selve Fatto si fosse, disfidar volesse Le paesane belve a cruda guerra Per farsi ei sol Signor di quei confini, Uscì de la spelonca immantenente Cercando al suon, che gli feria l’orecchie, Con generoso core e d’ardir pieno Del suo sospetto la cagion fallace. Ma poi ch’ei fu da quel condotto in parte, Ove scoperse l’importuna schiera De i piccioli animai, che ’l gran romore Formar potean con l’insolente grido, Stupido tutto alfin ritenne il passo : E del suo proprio error tra sé si rise : E fatto accorto da l’inteso effetto Dal suo sospetto van, disse in suo core. […] Così spesso l’huom vil la lingua move Con gran bravura, e porge altrui spavento Senza vera cagion ; ché tanto offende, Quanto ferisce de la voce il suono : Né più oltra può far di quel, che ’l vento Opra, che le parole in aria sparge.
E via cercando, onde scacciar la fame Potesse, e prolungar sua vita quanto Gli concedesse la natura e ’l cielo ; Tentò con l’arte far quel, che vietato Era a sue forze indebolite e vane, Nova astutia trovando a sua salute. […] Dunque ubidillo il Corvo, e sparse intorno Tosto di ciò l’ingannatrice fama Tal che di giorno in giorno andava a quello Alcun de gli animai da quel confino Come inteso l’havea tardi o per tempo Per visitarlo : ma quando a lui presso Se lo vedea il Leon, che ’l mezo morto Fingea, l’unghiava con le zampe adunche, E lo sbranava, e ne ’l rendea suo pasto. Così più giorni fece insin che venne L’astuta Volpe, che da un poco sangue, Che vedea presso a lui, sospetto prese, E più oltre passar non volse prima Che ’l salutasse, e da la sua risposta Meglio congietturar potesse il fatto : E tosto accorta a salutarlo prese Lontana un poco per mostrar gran doglia Del suo languire sospirando alquanto ; E a dirle del suo stato lo pregava.
DEL TOPO GIOVINE, ET la Gatta, e ’l Galletto. UN Topo giovinetto uscì del buco, Ove la madre non prima ch’allhora Lasciato havea dal primo dì ch’ei nacque ; Et incontrossi a caso in un Galletto Et in un Gatto, che tosto che ’l vide S’appiatò cheto in mezo del sentiero Per aspettar il Topo, che pian piano Incontra gli venia per suo diporto : E farne ad uso suo di lui rapina. […] Tal si deve temer l’huomo empio e falso, Che fuor di santitate il volto veste, E di lupo rapace ha dentro il core ; E tacer suole, o con parole pie Adombrar de la sua perfida mente L’iniqua voglia d’ingiustitia piena : Ma non colui, che favellando altero Talhor si mostra, e per costume vano Superbo in vista : che da l’opre poi, Se con modo prudente hai da far seco, Tutto te ’l troverai benigno e pio. Che talhor sembra un huomo in volto un santo, Ch’un Diavolo è poi se ’l miri a l’opre : E spesso un, che par rio nel fronte, copre Ogni bontà del cor sotto al bel manto. Non giudicar dal volto il buono, o ’l rio.
Ma non valse ragion, che s’adducesse, Per torla giù di quel cieco desio, Che ’l lume di ragion cacciava al fondo ; Sì che costretta da un pregar noioso L’Aquila alfin per contentarla prese Quella su ’l dorso fra gli adunchi artigli ; E quanto pote alto levossi a volo. […] Così la miserella, che non have L’ali leggiere, onde sostenga il peso Del debil corpo suo terreno e grave, Sottosopra voltandosi alfin cadde Precipitosa sopra un duro sasso ; E schiacciata finì la vita e ’l volo.
IL Corvo spinto da la fame il volo Torse verso un Serpente, che tra certi Sassi del mezo giorno al sol dormiva : E fra l’ugne ne ’l prese, e volea trarsi De le sue carni l’importuna fame : Ma quel presto destossi, e raggirando L’ardito capo, che tre lingue vibra, Lo strinse sì col velenoso morso, Che lo traffisse di mortal ferita. […] Così spesso n’aviene a l’huom, che intento Tutto al guadagno senza haver rispetto Del mal, che del suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò che ’l suo cor gli detta : Per che talhor dal suo proprio guadagno Danno gli nasce di tal cura pieno, Che lo conduce a miserabil fine.
E ’l Cervo in sé confuso sospirando Brevemente così rispose al figlio. Io ben m’accorgo haver armi e valore Figlio da contrastar co ’l cane, e forse Con più d’un’altra più feroce belva : Ma non ti so già dir perch’io nol faccia.
Signor, se ’l mio venir è stato tardo A visitarvi, non fu già per altro, Che per cagion di quel perfetto amore, Onde di tutto cor v’amo, e desio In tutti i modi la salute vostra. […] Va’ dunque, e in altra parte ascondi e cela Il dorso nudo, e ’l tuo villano core Pien di malvagità crudele e ria. […] Spesso sopra chi ’l fa torna l’inganno.
Ma fu primo il villan, che ’l caro amico Nel suo povero albergo ricevesse. […] Allhora s’appiattar celatamente Dietro un vasello di Cretense vino, Che gocciolando dal mal sano fondo Spargea ’l terreno del liquor soave. […] Ma ben dirò ; che m’è più dolce assai Roder la fava, o la tarlata noce Nel pover tetto mio lieto e sicuro ; Che in questo loco di paura pieno, E senza mai posar sicuro un’hora Gustar l’ambrosia, e ’l nettare di Giove. Voi, cui posto ha la cieca instabil Dea De le terrene cose in mano il freno E voi, ch’a più poter veloci andate Con sommo desiderio a i regii alberghi Per vender sol la libertà e la vita Ciechi o dal fumo de l’ambitione, O dal vano splendor del lucid’oro ; Deh raffrenate la superbia, e ’l fasto ; Deh misurate i passi vostri alquanto ; E con sano discorso giudicate Del corso e stato vostro il dubbio fine : Che anchor che retto da propitia stella Arrivar possa al desiato segno, Non ha però felice un giorno solo. Se del savio di Frigia entro a lo specchio, In cui l’huom savio sé medesmo intende E riconosce il pazzo i proprii errori ; Mirate un poco, haver chiara potrete L’oscurità de le miserie vostre : Quinci del vero alfin fatti più accorti, E scorto di Virtute il bel camino, Fuor vi trarrete de l’error comune, Nel quale ognun precipitoso corre : Né stimarete l’oro, o ’l lucid’ostro, O le delicatissime vivande, Le feste, i giuochi, o i trionfali honori Contrapesati da continue cure, E da mille sospetti indegni et vili, Più, che la dolce amata libertade, Più, che l’almo riposo, e l’otio honesto Accompagnato da la gioia immensa D’una tranquillità grata e sicura, Che rende l’huomo in povertà beato.
GIVANO molti Lupi in compagnia Per poter meglio far preda sicura, E ’l Corvo astuto gl’incontrò per via : E disse : Il ciel vi dia buona ventura, Fratelli cari : se ’l vi piace, anch’io Compagno vi sarò con dolce cura.
Udito ciò il Leon, benché assai dura Cotal condition pur le paresse, Ma forse ragionevole, concluse Alfin tra sé di voler prima i denti Perder, e l’ugne, che star vivo senza Colei, che più, che ’l viver proprio amava. Et così contentò che ’l Contadino Di sua man propria gli trahesse allhora Ad uno ad uno i denti, e l’ugne tutte : E poi gli chiese la bramata sposa. […] La favola in virtù saggia ammonisce L’huom forte, che con altri accordo brama, A non lasciarsi tor l’armi di mano, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel, che contra lui possente il rese, Cangi pensiero di fermar la pace ; E con guerra mortal gli mova assalto, E lo conduca a l’ultima ruina, Senza poter haver da lui contrasto.
Del padre, e del figliuolo, che menavan l’asino » P721 Faerno, 100 1. « Dell’aquila, et della volpe » P1 Faerno, 60 2. « Del corvo, et sua madre » P324 Faerno, 13 3. « Dell’aquila, et la saetta » P276 4. « Dell’aquila, e ’l guffo » PØ — cf. LF V, 18 5. « Del mulo » P315 Faerno, 30 6. « Della cornacchia, e la rondine » P229 Faerno, 33 7. « Dell’asino, il corvo, e ’l lupo » P190 Faerno, 89 8. « Del corvo e ’l serpente » P128 Faerno, 24 9. « Del cane » P133 Faerno, 53 10. « Dell’anguilla, e ’l serpente » PØ Faerno, 27 11. « Del cigno, et dell’occa » P399 Faerno, 25 12. « Della volpe, e ’l lupo » PØ — cf. P211 & P593 Faerno, 49 13. « Del cervo » P74 14. « D’un huomo, et un satiro » P35 Faerno, 58 15. « Delli due vasi » P378 Faerno, 1 16. « Dell’agnello e del lupo » P98 Faerno, 87 17. « Del cavallo e l’asino carchi » P181 Faerno, 16 18. « Del sole, e Borea » P46 19. « Della volpe, et del riccio » P427 Faerno, 17 20. « Della gazza, et gli altri uccelli » PØ Faerno, 46 21. « Del topo giovine, et la gatta, e ’l galletto » P716 Abstemius, I, 67 22. « Del toro e del montone » P217 23. « Dell’asino, e ’l cavallo » P357 Faerno, 84 24. « Del gambero, e suo figliuolo » P322 25. « Del cane, e ’l gallo, e la volpe » P252 Faerno, 29 26. « Della canna, et l’oliva » P70 Faerno, 50 27. « Delle volpi » P17 Faerno, 61 28. « Dei lupi e ’l corvo » PØ Giovanni Antonio Campano, in Æsopus Dorpii (Anvers, 1512 sqq. […] 50. « Del granchio, et la volpe » P116 51. « Delle mosche nel mele » P80 52. « Dell’asino, la simia, et la talpa » PØ Faerno, 43 53. « D’un marito, che cercava al contrario del fiume la moglie affogata » P682 Faerno, 41 54. « Del contadino, et Ercole » P291 Faerno, 91 55. « Del lupo, et della grue » P156 Faerno, 56 56. « Del topo cittadino, e ’l topo villano » P352 57. « Del contadino, et del cavalliero » P402 Faerno, 15 58. « Del leone, dell’asino, et della volpe » P149 Faerno, 3 59. « Del figliuol dell’asino, e ’l lupo » PØ Faerno, 55 60. « Dell’asino, e del lupo » P187 Faerno, 4 61. « Della volpe, et dell’uva » P15 Faerno, 19 62. « Del corvo, et la volpe » P124 Faerno, 20 63. « Del leone impazzito, et la capra » P341 Faerno, 5 64. « Dell’asino, e del cinghiale » P484 Faerno, 54 65. « Del leone, et della volpe » P10 Faerno, 18 66. « Dell’aquila, e del corvo » P2 67. « Della volpe ingrassata » P24 68. « Della selva, e ’l villano » P303 69. « Di due rane c’havean sete » P43 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 37 70. « D’un cane, che temeva la pioggia » PØ Faerno, 67 < Abstemius, II, 17. […] 99. « Del contadino, e Giove » PØ Gabriele Faerno, Fabulae centum, 98 100. « Del leone, e ’l lupo, e la volpe » P258 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 99 Remaniements et adaptations (par ordre chronologique) [1607] —Błażewski, Marcin, Setnik Przypowieści Uciesznych.Z Włoskiego ięzyká ná Polski przełożony.
FUGGIA veloce il Toro da la vista Del possente Leon, ch’era lontano : E ’l vil Montone, che da lunge il vide Venir correndo e di paura pieno, Credendo fargli ancor maggior paura, In mezo de la via tosto fermossi Chinando il fronte, e le ritorte corna Per cozzar seco. […] E ’l vil Monton se lo recò ad impresa Del suo valor, ch’a ciò fosse cagione.
Onde l’astuta Volpe, che ’l vedea, Cominciò seco ragionar tessendo A quello in cotal modo un dolce inganno. […] Dio ti mantenga o generoso uccello ; Ché, pur che ’l canto sol non ti mancasse, Degno saresti a mio giudicio certo D’esser tu sol l’augel del sommo Giove.
PUR dianzi havea ’l Leon de gli animali Tutti per forza conquistato il Regno, E come Re de gli altri un bando fece Gridar, ch’ogni animal, che senza coda Fusse dal suo tener gisse lontano, E in esiglio da lui lontan vivesse Essendo privo de l’honor, che seco Porta la coda, che vergogna asconde. […] Ma che so io, che ’l Signor nostro altiero Me del numero far di quei non voglia, Che de la coda non han parte alcuna ?
Così talhor aviene a l’huomo ingrato, Che quel, che ’l tolse ad empia sorte, offenda : Che par che ’l giusto Dio merto gli renda, Quand’ei nol crede, eguale al suo peccato.
Così devrebbe ogni buon padre sempre Mostrarsi a i figli di virtute esempio, Se vuol, che ’l suo parlar, che li riprende Del vitio appreso, habbia valore e forza Da ritrarli da quello a miglior uso : Ch’è d’autorità spogliato e privo, In mover altri a seguitar virtute Colui, che sta nel vitio immerso sempre. Però devria colui, ch’altri riprende, Esser con l’opre ognihor norma a sé stesso Et con l’essempio de la buona vita Mover in prima, e poi con le parole Gli altri chiamar di quella al bel camino : Ch’a quel si ridurrian più facilmente, Persuadendo più l’opra, che ’l dire.
Cede qual vinta allhor la canna a queste Parole, e par che non risponder brami Fin che ’l tempo non venga, onde sicura Risponder possa a tanta sua pressura. […] L’Oliva, che nel cor sente gran duolo Di ceder tosto come cosa frale, Dura resiste al primo assalto, e ’l vento Sprezza, e leggiera in lui prende ardimento.
Il che facendo il medico mal atto, Ei levando le groppe in un momento D’ambidue i piè nel fronte e nelle spalle Così gagliardamente lo percosse, Che ’l lasciò quasi morto in mezo ’l campo ; E fuggì ratto al consueto albergo.
Il caminar a piedi era lor grato, Né ’l debole animal di peso alcuno, Perch’ei non si stancasse, havean gravato. […] Il figlio tosto ubidiente cede A le parole del suo buon parente, E fa quel, ch’ei gli dice, e ’l meglio crede. […] Mentre sì carco l’animal galloppa Ecco il primo, che ’l vede, a gran pietade Mosso di lui, che in ogni sasso intoppa. […] Vario è ’l parer d’ogni huom, diverso il gusto : Ognun de la sua voglia si compiace ; Chi loda il pan mal cotto, e chi l’adusto, Né pur Venere stessa a tutti piace.
LA Volpe e ’l Pardo si trovaro insieme Un giorno a spasso, e vennero a contesa Tra loro di beltà. Diceva il Pardo Vedi la pelle mia di varie macchie Con ordine e misura al par del cielo, Ch’è di stelle dipinto, adorna tutta Con tal vaghezza, che stupore apporta A qualunque la vede : e tal è ’l pregio Suo, che Baccho figliuol del sommo Giove Non si sdegna coprir le belle membra D’altra mai per lo più, che di tal pelle, Che tutta la mia specie adorna e veste.
Ond’ei rispose : anzi ’l mio canto è quello, Che invita a l’opre ogni mortal, che brama Menar sua vita da l’ocio lontana, Che d’ogni mal è padre ; e gli ricorda A non marcirsi nelle pigre piume ; Né per ciò canto fuor di tempo mai. Soggiunse il Gatto allhor : bench’io potrei Gettar a terra con ragion possente Queste tue scuse vane, inutilmente Non voglio perder la fatica e ’l tempo : Ma passerò più avanti rimembrando L’altre tue colpe di castigo degne.
Ma quando più l’ardor del mezo giorno Scaldava i campi, et aspettato indarno Gran pezzo haveva gli invitati amici A la sua stanza quel padron del campo, Alfin col suo figliuol venne in su ’l loco Per veder se gli amici ivi trovava Forse in far l’opra, a ch’ei gli havea pregati. […] Il che sentito i pargoletti figli Consapevole poi ne fer la madre, Che con gran tema tal novella intese : E disse lor, adesso è ’l tempo, figli, Di dubitar qualche futuro oltraggio, Poi che ’l padron di ciò la cura prende : Però stanotte ce n’andrem pian piano A trovar novo albergo in altra parte, Che quando l’huom far vuol cosa da vero, Non aspetta gli amici, o i suoi parenti : Ma pon sé stesso con le voglie ardenti A dar debito effetto al suo pensiero.
Frate dapoi, che da tua bocca io veggio Il caldo, e ’l freddo uscir con egual modo, Non vo’ più consentir d’esserti amico ; E dal tuo conversar tosto mi toglio. Da questo ogn’huom, ch’è savio, esempio prenda A fuggir l’amicitia di coloro, Che di cor doppio, e di sermon bilingue Soglion mostrarsi a chi seco conversa : Che, essendo di natura empi e malvagi, Sono vuoti d’amor, di fede scarsi ; Né conto fanno de l’amore altrui, Ma sprezzano egualmente il buono e ’l rio : Et a l’occasion sembrano amici Per trar talhor d’altrui profitto alcuno ; E poi ne lascian la memoria al vento ; E ne rendono in cambio ingiuria e biasmo, Quando del lor bisogno al fin son giunti.
In questo la Testuggine, che ’l corso Con solecito passo affrettò tanto, Che giunse alfine al terminato segno, Di tutto quell’honor prendea la palma, Quando la Lepre desta alfin s’accorse Del preso error de la sua confidenza, E colei riportarne il pregio tutto Di quella impresa, si pentì, ma in vano De l’arrogante negligenza sua. Così fa spesso l’huom d’ingegno e forza Dotato in concorrenza di colui, Che molto inferior di ciò si vede, Quando opra tenta, onde l’honore importi ; Che confidato nella sua virtute Pigro dorme a l’oprar continuo e lungo, Sperando in breve spatio avanzar tutte Le fatiche de l’altro, e ’l tempo corso : Né s’accorge, ch’un sol continuo moto, Benché debole sia, giunge al suo fine Più tosto assai, ch’un più gagliardo e lieve, Che pigro giaccia, che la confidenza A la sciocchezza è figlia, e a l’otio madre ; Onde ne nasce l’infelice prole Biasmo, e vergogna, e danno in ogni tempo.
Ond’ei gli disse : Ognun sarà digiuno D’offenderti, se men sarai clemente : E, se col primo, che ti fece offesa, L’ira mostrato havesti, e ’l tuo veleno, A l’altre ingiurie ciò t’era difesa.
Dunque da tal effetto ogni huom comprende Che l’uso lungo, e ’l pratticar frequente Ogni difficultà facile rende ; Et fa parer domestiche e sicure Le cose horrende, e di perigli piene.
Finalmente la sua Mercurio trasse De l’onda fuor, ch’era di ferro vile : E ’l Contadino allhor tutto gioioso Affermò, ch’era sua quella di ferro ; E la prese da lui, con lieto viso Rendendogli con dir pien di bontade Immense gratie di cotal favore. Ma conosciuto il buon Mercurio a pieno La gran sincerità di quel meschino, Che di bontà non havea par in terra, Quella d’argento appresso, e quella d’oro In don gli diede, e ’l fé partir contento.
Ma poi che fatto havean lunga contesa, La Cornacchia, che ’l meglio haver teneasi, Usò cotal ragione in sua difesa.
Sol la virtute è quel nobil gioiello, Che ’l savio sol per sua natura apprezza, E tien dal ciel per dono e caro e bello.
Et ei rispose lor : mai cangiarei La cura, c’ho de’ miei soavi frutti, Che vincon di dolcezza il flavo mele, E ’l nettare, che in ciel gustan gli Dei, Per quell’affanno sopra ogni altro amaro, Che seco tien d’altrui regger la cura Sotto il sembiante d’un pregiato honore. Così da lui partendo senza frutto Gli arbori colmi di soverchio affanno Del trovar chi di ciò togliesse il carco Deliberossi di pregar la Vite, Che ’l Dominio di lor prender volesse.
Tal che sentito allhor la cieca Talpa D’ambodue la querela, e ’l rio cordoglio Lor si fé incontra, e tai parole mosse.
GIÀ dentro un’olla, che di carne piena Era d’alesso nel tepido humore Bolliva al foco, nell’humor fervente Entrò la Mosca da la gola tratta Del grasso cibo, che nuotar vedea : Del qual dapoi, c’hebbe satiato a pieno L’ingorda brama, e ’l temerario ardire, Venne sì gonfia del mangiato pasto, E di quella bevanda a lei soave, Che non potea levarsene, e cadendo Anzi più in mezo del liquor profondo De la vicina morte in mano andava ; Onde vedendo non poter fuggire L’odiato fin de la penosa vita, Cominciò confortarsi in cotal guisa.
PORTAVA il Contadino a la cittade Un lepre morto, c’havea preso dianzi, Per farne, in su ’l mercato alcun guadagno.
PASCEANO il Cervo, et il Cavallo insieme Dentro un bel prato di novella herbetta Per lunga usanza, e con invidia ognuno, Che ’l compagno godesse un tanto bene, E consumasse quella parte, ch’esso, Se l’altro non ci fusse, havria per sua. […] Ond’ei, che disegnato Gran tempo haveva di soggetto farsi Quell’animal per li servigi suoi, Tosto pronto s’offerse in sua difesa : Ma disse ; che, se ben d’ingegno e forza Era bastante a superar il Cervo Quando quel si fermasse a la battaglia : Pur, quando ei si fuggisse, esso non era Possente di seguir sì lieve corso : Però mistier facea, ch’egli in sul dorso Là nel portasse, ove trovando il Cervo Non li giovasse la veloce fuga : Et ch’a bisogno tal egli devea Lasciarsi por da lui la sella, e ’l freno, D’accomodarsi seco, e dargli il modo D’intender la sua voglia ove il bisogno Cercasse, ch’ei per lui volgesse il piede.
TRA i folti rami d’una ombrosa quercia Sedea il Cucuglio nell’eccelsa parte, Et d’altri varii augelli in su la sera Ivi adunati da diversi luochi Era anchor grande et abondante copia : Così tra lor la Gazza entrata anch’essa Volgendo a caso gli occhi in ver le cime Di quell’antica pianta a scorger venne Il Cucuglio, ch’in alto havea ’l suo nido : E da certo mal d’occhi oppressa allhora Mal discernendo quello in cambio il tolse De lo Sparviero, et lui temendo tosto, Ecco lo Sparvier, dice : e via sen vola Senza fermarsi in quel medesmo punto.
AVENNE un dì, che ’l semplice Asinello Per camino incontrando il fier Cinghiale, Qual pazzo incominciò ridersi d’ello, Per non haver più visto un mostro tale : Ond’ei gli disse : Segui, pur, fratello, Di me burlarti, poi ch’assai ti vale L’esser sì vile, e di sì sciocco ingegno, Che d’oprar mio valor teco mi sdegno.
Così l’huomo, ch’è debole e innocente, Ognuno rende a fargli oltraggio audace : E ’l forte et di mal far si vive in pace ; Perché chi gli osta ei fa tristo e dolente.
Certo che tu ben pazza sei se ’l credi.
Sia dunque accorto chi tal caso intende, Che ’l porsi a trar qualche pensiero al fine Non ricerca egual mezo in varia sorte D’occasion, di loco, e di valore ; Ma in diversa persona opra diversa.
UN huom, di cui la moglie in certo fiume Sendo caduta alfine estinta giacque, Il cadavero suo cercava indarno Incontra ’l corso de le rapid’onde.
Et ei, che ’l conoscea, negò di farlo.
Così colui, ch’è da l’amico offeso, Sente più grave assai di ciò l’affanno, Che non il duol de la medesma offesa : Che quando l’huom d’altrui favore aspetta, Se ’l contrario n’avien, tanto maggiore Di quell’ingiuria ogn’hor sente la doglia, Quanto minor di lei fu la speranza.
DENTRO un Cortile d’un palazzo altero Vivean nudriti insieme un’Oca e un Cigno Questo per dilettar col dolce canto Del suo Signor le delicate orecchie ; Quella per dilettar col grasso petto La gola e ’l ventre.
Segui pur pazzo il tuo preso camino, Che non sei tu, ma quel, che porti, è ’l Dio, Che da ciascun, che vedi, è riverito.
Ond’ei ne fece il manico ; e dapoi A spogliar cominciò di parte in parte La Selva tutta con la parte stessa, Ch’era già membro di lei stessa uscito : Sì che ’l Villano iniquo e discortese Tutta la pose in picciol tempo a terra.
Per questo accorto a le mie spese imparo Fuggir così de l’acqua ogni periglio : Né fuori uscir, se non è ’l ciel ben chiaro.
Così l’huom sciocco e d’ignoranza pieno Che il savio fa tra gli ignoranti, quando Avien, che con saggio huom faccia l’istesso, Dal suono sol di sua propria favella Si scopre quel, che sua natura il fece, Con gran suo scorno, e riso di chi ’l vede.
Ch’aspettar non bisogna che ’l periglio Ti stia sopra del capo in trovar l’armi, Che pon salvarti da nimica mano : Che quando sei con l’avversario a fronte Non è allhor da cercar, ma da oprar l’arme, Che ti difendan da gli assalti suoi.
PASCEANO insieme l’Asino e ’l Vitello L’herba novella in un medesmo prato Tutto di varii fiori ornato e bello : E sentito lontan più d’un soldato Avicinarsi con feroce suono Disse il Vitello : Or vedi un campo armato ; E però parmi, che sarebbe buono Torci di questo loco periglioso, Né il fulmine aspettar udito il tuono.
La semplicetta allhor, c’havea creduto Del suo falso parlar vero il concetto, De l’arbor scese sopra il verde piano : E s’inviò verso quei lacci ignoti, De la finta città principio finto, Per poter meglio intender la ragione, L’ordine, e ’l sito de le nove mura De la mole, che vera ella credea.
Perché il Pastor veduto lui su ’l dorso De l’animal in van batter le penne Per liberarne gl’intricati piedi, V’accorre ; il prende ; e i troppo audaci vanni Trattogli a sua maggior vergogna e danno A i fanciulletti suoi per giuoco diede.
Che giunta in breve per le vie più corte De i can la torma a lui, ch’era intricato, Con fiero stratio ne ’l condusse a morte.
L’ASINO d’un Signor nodrito in corte Vide un nobil corsier ; che d’orzo e grano Era pasciuto, e ben membruto, e grasso ; Passeggiar su e giù dentro il cortile Di seta, e d’or superbamente adorno, Mentre aspettava il suo Signor, ch’armato Montasse in sella, e ’l conducesse dove Marte feroce insanguinava il piano : E felice chiamava ognihor sua sorte, Ch’ei fosse tanto dal Signore amato, Che seco il volea sempre, e gli facea Mille carezze, et ocioso, e lieto Il tenne un tempo con solazzi e feste : Ond’esso mal pasciuto a le fatiche Sempre era posto, né mai conoscea Il giorno da lavor da quel di festa, Continuando un duro ufficio sempre Senza giamai provar ocio, o riposo.
L’improviso apparir del mostro horrendo Empì ’l vecchio meschin di tal paura, Che tosto allhor allhor cangiò pensiero.
STUPIDO il Porco disse un giorno al Cane : Non so, caro fratel, perché tu stai Vicin sempre al patron, che spesso spesso Ti batte, e più tu l’accarezzi ognihora : Tal ch’io, che mai da lui non sento offesa, Anzi nutrito son due volte il giorno, Non me ’l posso giamai veder da presso Con cor sicuro, pur temendo quello, Che tu provato ognihor par che non temi.
Il che sentendo una di lor più antica D’anni, e di lunga esperienza dotta Le domandò quel, che l’està passata Ella facesse : e rispondendo quella, Che col batter de l’ali, e ’l mover tuono Dentro a le cartilagini sonanti De l’aureo ventre un’harmonia soave Formar soleva per comun ristoro De gli affannati, e stanchi pellegrini, Che sotto il fiero ardor del Sole estivo Facean passaggio per gli aperti campi.
Così l’un danno sopra l’altro giunto Patì gran pezzo le beccate strane, Che ’l sangue tutto homai le havean consunto.
La cagion, figlia, che ciascun ne indusse A far elettion d’inutil pianta, Fu certo un ragionevole rispetto, C’habbiam che ’l mondo non pensasse mai, Che per l’utilità vil di quel frutto Il proprio honore alcun di noi vendesse, Onde il nome divin restasse infame.
Ma quando satia fu, sì grosso il ventre Trovossi, che non hebbe il modo mai D’uscirne, e si dolea la notte e ’l giorno : Né restava però di mangiar sempre De’ polli il resto quando le parea Che fusse di cenar la solita hora ; Tal che ognihor più ingrassava, e venia gonfia, E inhabile ad uscir di quella stanza, Dove aspettava adhor adhor la morte, Se di quella il patron vi fosse entrato.
Così l’huom saggio, che ’l suo biasmo sente Da chi col vero il punge et lo molesta, Torna in sua lode con risposta honesta Quel che di darle infamia appar possente.
E credendo poter giunger a questo Se forte si gonfiava il picciol ventre, Subito cominciò gonfiarsi tanto, Che ’l suo figliuol, che la mirava in questo, De la sua morte assai temendo disse : Deh cessa madre, da la folle impresa, Ché se più segui torneratti in danno E de l’honore, e de la vita insieme.
Et sì come Natura i parti suoi Sparge qua e là dove le piace a sorte Che tutti in ogni loco haver li puoi : A romper cominciò la dura e forte Terra col rastro in largo campo, e ’l seme Vi sparse ad altri vita, ad altri morte.
Or mentre quella al fondo, al sommo questo Si ritraheva con egual valore, Nessun cedendo a le contrarie forze, Un nibio, che di là passava a caso Da l’appetito de la fame tratto Ambo li prese ; et per satiar di loro L’avido ventre, da la rana in prima, Che più molle che ’l topo havea la pelle, Tosto si cominciò render satollo.
E ’l Gallo accorto Fatto a sue spese de gli inganni suoi, Fingendo creder quanto ella tramava, Dal medesmo suo dir trovò soggetto Di levarsela allhor tosto dinanzi : E mostrando allegrarsene di botto Con varii segni, così prese a dire.
DELL’AQUILA, ET DELLA VOLPE L’AQUILA altera, et la sagace Volpe Già di stretta amicitia unite insieme D’insieme anco habitar preser partito, Sperando pur che ’l conversar frequente Crescesse in lor di più sincero affetto La carità de l’amicitia nova.
S’UNIRON già d’alta amistade insieme L’Aquila e ’l Guffo : e si giuraron fede Di non mai farsi in alcun modo oltraggio : E tra i più forti inviolabil patti, Che d’osservarsi il Guffo proponesse, Con supplichevol prego aggiunse questo, Ch’a l’ Aquila piacesse haver riguardo A i figli suoi se gl’incontrasse a sorte : Onde perch’ella non prendesse errore Le diede il segno di conoscer quelli Fra l’altre specie de i diversi augelli.
Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine.