Il Cigno allhor per naturale istinto Mosso a cantar co’ più soavi accenti, Che possa di sua vita a l’ultime hore, Visto già il ferro de la morte autore, Et esser preso da l’infesta mano Di quell’huom rozo e di pietate ignudo, Nel cor piangendo a cominciar si diede Così leggiadro e dilettoso canto, Ch’a quello il Cuoco del suo errore avvisto Il riconobbe al primo suono, e tosto Lasciollo in pace, e diè di mano a l’Occa. Et via portolla : e quel sciolto rimase Per sua virtù da l’accidente strano.
Saggio è dunque colui, ch’a l’appetito Proprio pon freno, e l’opre sue misura Con la prudenza ogni hor pensando il fine. Chi pensa al fin raffrena ogni sua voglia.
Borea sdegnoso contentossi al patto Di cotal prova : et fé d’esser il primo, Che mostrasse con lui l’alte sue forze. […] Or visto alfin la sua fatica vana Il vento stanco, e in sé più che sicuro, Che ’l Sol, che meno impetuoso fiede, Far non potesse in ciò prova maggiore ; Cessò lasciando a lui di questa impresa La parte, che a ragione a lui toccava. […] Tal suole spesso l’huom prudente e saggio Giunger con la destrezza al fin, ch’ei brama, Assai più presto, e con minore affanno, Che colui, che con impeto si move In discoperta forza a le sue voglie.
DELLA VOLPE, E ’L LUPO CADUTA era la Volpe ita per bere Da l’alte sponde in un profondo pozzo, Stando per affogarsi adhora adhora : Onde di là passando a caso il Lupo ; Che tratto dal romor, ch’indi sentiva Uscir de l’acque, era a vederla corso ; Pregollo humil per l’amicitia loro Ch’ei volesse calando al basso un laccio Darle materia, onde salir potesse, Prestando aiuto a lei, ch’era sua amica, E posta de la vita in gran periglio. […] Così spesso intervien, che dove alcuno Dovrebbe oprar la man tosto e l’ingegno Per condur l’opre d’importanza a fine, Sta vaneggiando a consumar il tempo Dietro a parole, e quel, che meno importa, Al vero fin de la bramata impresa Con danno de gli amici et sua vergogna.
Anch’io, Signori, tal consiglio approvo : Anch’io son di parer che ciò si faccia : Ma chi sarà di noi, dite, vi prego, Colui, che voglia esser cotanto ardito, Che de le forze sue sicuro in tutto Tenti porre il sonaglio al collo al Gatto ? […] Così spesso intervien dove il periglio Si scorge in eseguir util consiglio : Però colui, che sua sentenza porge Che del publico ben cagione apporta, Dee pensar prima, che la lingua snodi, Se ’l fin del parer suo puote eseguirsi Senza pericol di chi ’l pone in opra, Se brama esser tenuto al mondo saggio.
Così giungendo di sua vita al fine Disse fra sé quell’infelice fiera. Ahi quanto di ragion mi vien la Morte Spogliando del vigor, che mi reggea, Poi ch’io medesma la cagion ne fui, Offendendo con mio non picciol danno Colei, ch’a l’ombra de le foglie sue La cara vita mi salvò pur dianzi : Ond’hebbe poi da me sì ingiusto merto.
Quinci l’Aquila inteso esser incorsa Nell’odioso errore a punto allhora Che più da quel credeasi esser lontana, Et sol per colpa del giudicio torto Del Guffo tratto dal paterno affetto A darle de’ suoi figli il falso segno ; Forte sen dolse : e si scusò con seco1 Del torto a lui contra sua voglia fatto. Soggiungendo, che mai per le parole, Ch’egli le fece de la gran beltade De la sua prole, non havria creduto L’openion dal ver tanto lontana. […] Così talhora l’huom, che da l’amore Di sé medesmo fatto in tutto cieco Stima le cose sue più, che non deve, Resta schernito quando più si crede Esser per quelle rispettato al mondo : E duolsi a torto del giudicio altrui, Che drittamente a sé contrario vede.
VOLEAN d’accordo gli altri arbori tutti Che l’Uliva di lor l’imperio havesse : Ma quella, che di sua sorte contenta Già si viveva una tranquilla vita, Non volse acconsentir d’haver tal carco ; E così disse : ben pazza sarei S’io, che de le mie frondi e grasse e belle Sì, che son care a gli huomini, e a gli Dei Ho sol la cura, che lieta mi rende ; Volessi abbandonar le cose mie Per macerarmi e giorno e notte sempre Ne i tristi affanni de l’altrui governo. […] Così colui, ch’a le sue voglie serve, È pronto a ricercar l’altrui governo, Senza pensar qual sia l’ufficio suo : Né suole ambition di cure altrui Mover il cor di chi conosce e vuole Far sempre quanto al suo dever conviene. Chi tien l’honor, e le sue cose a core Non cerca mai de gli altri esser Signore : E brama haver dominio in altri spesso Colui, ch’a pena può regger sé stesso.
Et mentre si dibatte la meschina Più si sommerge et dentro a quello intrica, Come la sorte sua ve la destina. […] Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del suo mal forte si duole : Et poi le dice con parole humane : Ch’egli si trova in punto, s’ella vuole, Di scacciarle le mosche allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado facea, non potea trarla Se ben s’affaticasse più d’un giorno.
Così con arte mena a fiero stratio Le sue nimiche, e se ne trahe la fame Ad un sol tratto per ben lungo spatio. Tal l’huom, che studia al fin de le sue brame Venir un dì, né haverne il modo sente, Dee con prudenza usar di simil trame : Ch’ogni difficultà vince il prudente.
UN bel podere un Contadin da Giove Tolse in governo con espresso patto Che Giove a sua richiesta ogni stagione De l’anno a regger solamente havesse Mandando hor vento, hor pioggia, hor caldo, hor gelo, Secondo ch’ei da lui chieder saprebbe. […] Chiamollo Giove poscia, e per mostrarli Quanto era vana la prudenza sua In voler comandar a chi sa il tutto : Gli disse.
Anzi da questo puoi sciocca avvederti Qual conto faccia questa santa Dea Di me, che tien per sua divota ancella, Et qual mi porti amore, e gran rispetto : Poscia che chi giamai si mostra ardito D’offender la mia specie in prender cibo Da carne tale, come empio e profano Da sé discaccia, e sempre l’odia a morte. […] Così l’huom saggio, che ’l suo biasmo sente Da chi col vero il punge et lo molesta, Torna in sua lode con risposta honesta Quel che di darle infamia appar possente.
Hæc nos docet fabula, ne in eos excandescamus, qui non sua sponte nos lædunt.
Abstemius 123 De viro qvi experiri volvit mentem vxoris VIr quidam callidus experiri cupiens animum uxoris, quæ sæpenumero dicere solebat, adeo uiri amorem sibi infixum, quod si optio daretur, mariti uitam sua morte redimeret, super nudos utriusque pedes stuppam igne succensam decidere permisit.
Vxor sentiens quorsum sua tenderet simulatio pedem retrahens illico resurrexit.
Cui rector summis Tirynthius infit ab astris (nam uocat hunc supplex in sua uota deum) : Perge laborantes stimulis agitare iuuencos, et manibus pigras disce iuuare rotas.
Ma sendo un’altra volta a caso incorso Nel pericolo stesso in man d’un’altra Donnola, che mangiarselo volea ; E supplicando a lei, che de la vita Don gli facesse ; udì da quella, ch’essa Non potea farlo con ragione alcuna, Sendo egli un Topo, la cui specie sempre De la sua propria fu crudel nimica : Onde rispose il Vespertiglio allhora, Ch’ella prendea di ciò non lieve errore : E l’ale a lei mostrando aperte e larghe, Con cui per l’aria si levava a volo Specie d’augello esser provava, e mai Non essersi alcun Topo in parte alcuna Trovato adorno di sì nobil dono. […] Così l’huom savio e di prudenza adorno Far dee qualunque volta si ritrova Del proprio stato in gran periglio posto : E secondo il bisogno e l’occorrenza Cangiar nell’oprar suo sermone e stile : E servirsi hor di questa, hora di quella Forma di ragionar, che più ricerca La propria occasion di sua salute Ne i simili accidenti, e ne i diversi.
Abstemius 143 De vvltvre a canibvs capto ob prædam non dimissam VVltures duo cadauer depascentes duo ingentia carnis frusta absciderant quæ unguibus per æra ferre decreuerant quom subito canibus aduentantibus alter eorum dimissa sua parte cadaueris eiulans statim e canum conspectu procul abiit, alter prædæ intentus dum partem suam dimittere cunctatur, a canibus captus est, qui dum se iam iam moriturum uideret « Heu inquit me miserum et infelicem qui paruæ uoluptatis causa tot uitæ uoluptates amittam. » Fabula indicat nimiam acquirendi cupiditatem sæpenumero auaris attulisse perniciem.
Abstemius 157 De servo qvi asinvm heri e rvpe deiecit SEruus cuiusdam agricolæ Asinum domini sui ex alta rupe præcipitem dedit, ne cotidie huc et illuc illum agere cogeretur mentitusque est domino illum sponte sua se deiecisse.
Ædificaturus domum loci dominus iubet omnes excidi, præter eam, quæ breuitate et deformitate sua ædificium indecorum redditura uidebatur.
Sed dominus, cupidum sperans uanescere uotum, Non tulit exosas in sua lucra moras, Grande ratus pretium uolucris de morte referre, Quae tam continuo munere diues erat.
Sappi, che l’animal, che tanto humile Prima ti parve, e di bontà ripieno, È il più malvaggio, che si trovi in terra, Perfido, iniquo, fiero, discortese, E di tua specie natural nimico : E sol ti si mostrava in vista humano Sol per assicurar tua puritade Di farsegli vicina, onde potesse Dapoi satiar di te sua ingorda fame. Però temi lui sempre, e non fidarti Del suo falso sembiante in vista pio : E tienti ben lontan da l’ugne sue, Se non vuoi darti in man d’acerba morte. […] Tal si deve temer l’huomo empio e falso, Che fuor di santitate il volto veste, E di lupo rapace ha dentro il core ; E tacer suole, o con parole pie Adombrar de la sua perfida mente L’iniqua voglia d’ingiustitia piena : Ma non colui, che favellando altero Talhor si mostra, e per costume vano Superbo in vista : che da l’opre poi, Se con modo prudente hai da far seco, Tutto te ’l troverai benigno e pio.
Ast ubi terribilis animo circumstetit horror pigraque praesumptus uenit in ossa uigor, mitibus ille feris communia pabula calcans, turbabat pauidas per sua rura boues.
Avianus 17 [DE VENATORE ET TIGRIDE] Venator iaculis haud irrita uulnera torquens turbabat rapidas per sua lustra feras.
Haec poterunt miseros posthac exempla monere Subdita nobilibus ut sua fata gemant.
Hæc indicat fabula (neminem potentia sua fretum imbecilliores debere despicere quum aliquando infirmiores potentiorum iniurias ulciscantur.)
Abstemius 133 De grammatico docente asinvm GRammaticus quidam gloriabatur adeo in arte sua se excellentem esse ut si digna daretur merces, non modo pueros, uerum etiam asinos docere profiteretur.
E ’l Gallo accorto Fatto a sue spese de gli inganni suoi, Fingendo creder quanto ella tramava, Dal medesmo suo dir trovò soggetto Di levarsela allhor tosto dinanzi : E mostrando allegrarsene di botto Con varii segni, così prese a dire. […] Ond’ella prese anchor maggior sospetto, E senz’altro a fuggir tosto si diede Con sua vergogna e gran piacer del Gallo.
Abstemius 33 De anv dæmonem accvsante Volunt homines ut plurimum, quom sua culpa aliquid sibi acciderit aduersi in fortunam uel in dæmonem culpam conferre ut se crimine exuant, adeo omnes sibi indulgent.
Ma poi che fatto havean lunga contesa, La Cornacchia, che ’l meglio haver teneasi, Usò cotal ragione in sua difesa.
Hæc fabula monet quemlibet debere sua arte esse contentum, quum ubique sit parata miseria.
Onde vedendo ogni sua speme vana Se ne ritrasse, et a sé stessa disse.
Sol la virtute è quel nobil gioiello, Che ’l savio sol per sua natura apprezza, E tien dal ciel per dono e caro e bello.
Quem non coitus gratia, qui ingratus admodum sibi erat, sed ne bona sua dilapidarentur, exoptare se dicebat.
DEL CORVO, ET SUA MADRE.
Dunque colui, che sé misero crede, Stia ne gli affanni suoi costante e forte ; E nel voler di Dio paghi sua sorte De l’affanno maggior, che in altri vede.
Ma richiedendol poi di sua mercede N’hebbe in premio da lui cotal risposta.
IL Corvo spinto da la fame il volo Torse verso un Serpente, che tra certi Sassi del mezo giorno al sol dormiva : E fra l’ugne ne ’l prese, e volea trarsi De le sue carni l’importuna fame : Ma quel presto destossi, e raggirando L’ardito capo, che tre lingue vibra, Lo strinse sì col velenoso morso, Che lo traffisse di mortal ferita.
L’ANGUILLA un giorno domandò al Serpente, Con cui spesso in amor giacer soleva Dentro a l’humor d’un paludoso stagno ; Da qual cagione derivar potesse, Ch’egli da tutti gli huomini fuggito, Ella a studio cercata era da ognuno, Ambi due sendo d’una stessa forma : E mille sue compagne prese e morte Havea veduto, ond’egli sempre in pace Vivea felice aventurosa vita, Come ella ognihor viveva in pena e in doglia Con continuo timor d’acerba morte.
Ma perché quel di terra assai più lieve Scorrea sicuro ; l’altro, che temea Per la gravezza sua girsene al fondo, Cominciò con parole affettuose A pregar l’altro in lusinghevol modo, Che d’aspettarlo non gli fusse grave : Et legatosi seco in compagnia Volesse far quel periglioso corso : Onde l’altro gli diè simil risposta.
E tanto scorno, e dispiacer ne prese, Che viver non sapea, né comparire Fra le compagne sue di quella priva.
Ma non sì tosto tal risposta fece, Ch’allhora sovragiunta a l’improviso Da un carro tratto da due gran corsieri, Che passavan correndo a sciolta briglia, Sotto una ruota miserabilmente Restò schiacciata, e di sua vita al fine.
Questo ben ti dirò : Che solo al suono De la sua voce, anchor che da lontano Molto da me talhora udita sia, Tosto mi sento non so che timore, Che mi fa forza contra ogni ragione A fuggir presto dal latrar maligno, Che tremar mi fa tutto il cor nel petto.
Così devria colui lasciar le imprese, Che impossibili sono alle sue forze, Né contrastar con quel, ch’è più possente Di virtute e valor : che nulla acquista Chi l’huom combatte, ch’è di lui più forte.
Dinota questo, che colui, che tutto Si dona al senso de la gola in preda Senza tener in questo ordine o modo, Che suol ragion dottar4 a chi prudente Nutrir si vuol di delicati cibi Per sua salute, ma si astien dal troppo, Che nuocer suole, onde tal vitio nasce ; Sovente casca in misera fortuna, E de la Morte ancor tal volta in mano.
Ma quel, che poco tal pensier curava Così rispose : Io non farò già questo : Perché mentre mia Donna in vita resse Fu da l’altrui parer così diversa, Così di voglia sua, così lontana Dal comune voler, così contraria A qual si voglia altrui genio e costume, Che di ragion non è da creder mai, Che natura cangiando hora ch’è morta, Deggia corso tener se non diverso Tutto, o contrario a quel, che l’onda tiene.
Così devrebbe farsi ad ogni huom rio, Che senza haver cagione offende altrui, Da quelli anchor, che mai da quello offesa Non han sentito, perché ogni altro poi Da sua malvagità viva sicuro : Perché è giustitia il vendicar il torto, Che l’innocenza da l’huom empio sente ; Né merita da gli altri haver perdono Chi fa senza ragione ad altri offesa.
D’ogni superbo cor questo è figura, C’ha di publico honor titolo e nome, E non si porta in suo costume, come La prudenza richiede a sua natura.
Così ne mostra l’animale astuto, Che chi sotto il Tiran sua vita mena È in gran periglio di sentir la pena Del fallo anchor, che non ha in mente havuto.
Così non prende l’huomo savio a sdegno Il cangiar patria, e loco, e ancor Signore, Pur che ne stia de la sua sorte al segno, Né provi stato del primier peggiore.
Perché il Pastor veduto lui su ’l dorso De l’animal in van batter le penne Per liberarne gl’intricati piedi, V’accorre ; il prende ; e i troppo audaci vanni Trattogli a sua maggior vergogna e danno A i fanciulletti suoi per giuoco diede.
Ond’egli irato immantenente corse Dietro a colei, che tosto entrata in casa Da la proterva sua rabbia s’ascose.
Cede qual vinta allhor la canna a queste Parole, e par che non risponder brami Fin che ’l tempo non venga, onde sicura Risponder possa a tanta sua pressura.
UN Vecchio contadino ito a far legna Nel bosco assai da sua stanza lontano Tornava a dietro d’un gran fascio carco : E stanco homai dal troppo grave peso, Da la lunga fatica, e dal camino, Ma molto più da i molti giorni et anni, Che gli premean di doppia soma il fianco, Al mezo de la via su la campagna La sarcina lasciò cadersi a terra Per riposar l’affaticate membra Sotto l’ardor del caldo estivo Sole.
Ognuno dunque accortamente impari L’arte seguir, a cui sua stella il chiama : Et lasci quell’ufficio, in cui Natura, O giudicio, o favor non gli consente, Da riuscir con utile et honore, Se gir non vuol d’ogni miseria al fondo.
Così fa l’huomo a sé medesmo male, Che far contento ognun pensa e s’ingegna De l’opre sue, né questo asseguir vale. […] Vario è ’l parer d’ogni huom, diverso il gusto : Ognun de la sua voglia si compiace ; Chi loda il pan mal cotto, e chi l’adusto, Né pur Venere stessa a tutti piace.
GIÀ fu che ognun de gl’immortali Dei A suo piacer un arbore si elesse D’haver per propria insegna in sua tutela.
Così l’huom spesso a l’altrui spese impara Nelle occorrenze perigliose e strane Il ritrovar la via di sua salute Senza tema di biasmo, o d’alcun danno.
Così fa l’huom, ch’ognihor vivuto sia In mediocre stato, onde quieta Menò sua vita, e senza alcun travaglio, Quando d’alta fortuna in su la ruota Siede pensoso, e di travagli pieno : Ché quanto ha più de le ricchezze in mano, Tanto l’affanna ognihor cura maggiore.
Ond’ei rispose : anzi ’l mio canto è quello, Che invita a l’opre ogni mortal, che brama Menar sua vita da l’ocio lontana, Che d’ogni mal è padre ; e gli ricorda A non marcirsi nelle pigre piume ; Né per ciò canto fuor di tempo mai.
Nous suons, nous peinons comme bestes de somme : Et pour qui ?
Saria forse possente o la corona Del tuo bel capo, o la gemmata coda, A contrastar quel Re per tutti noi Col rostro adunco, e co i feroci artigli De la possanza sua rara et invitta ?
Tal ch’egli desto a l’improviso suono Tosto uscì fuor de la sentita voce, E veduta la Volpe immantinente Le corse adosso, et atterrolla in breve, Facendo a lei quel, ch’essa haveva al Gallo Di far pensato con l’astutie sue, Senza che pur la ria se n’avvedesse.
Un Malade enquis par son Medecin de l’estat de sa santé ; « Je brusle », répondit-il, et « suis tout en eau, à force d’avoir sué ». « Voila qui est bien », dit le Medecin, et là dessus il se retira.
Il che vedendo allhor la Volpe offesa Per far de la sua prole alta vendetta Sopra di quelli immantinente corse ; E inanzi a gli occhi de l’altera madre Devorò ingorda i pargoletti figli.
Un malade, questionné sur son état par le médecin, répondit qu’il avait sué plus que de raison. « Cela va bien », dit le médecin.
Ma quando più l’ardor del mezo giorno Scaldava i campi, et aspettato indarno Gran pezzo haveva gli invitati amici A la sua stanza quel padron del campo, Alfin col suo figliuol venne in su ’l loco Per veder se gli amici ivi trovava Forse in far l’opra, a ch’ei gli havea pregati.
Au contraire, nous voyons tous les jours par espreuve, que les biens temporels sont de penible acquisition : qu’il faut suer, courir, combattre, choquer l’un et l’autre, offenser plusieurs personnes, cajoler, faire la Cour, et se distraire de la Vertu, pour les acquerir ; Qu’au reste, la possession en est necessairement limitée par la mort joinct qu’on ne les garde pas tous-jours jusques là ; Et toutesfois, ô la misere de nostre âge !
Del padre, e del figliuolo, che menavan l’asino » P721 Faerno, 100 1. « Dell’aquila, et della volpe » P1 Faerno, 60 2. « Del corvo, et sua madre » P324 Faerno, 13 3. « Dell’aquila, et la saetta » P276 4. « Dell’aquila, e ’l guffo » PØ — cf.
Meministine ridere te solitum, illos qui fata deplorant sua… Nos fabellis atque mensis hunc librum scripsimus. […] Eumolpe, en la racontant, déclare que c’est un événement dont il se souvient, rem sua memoria factam. […] Allusit ad fabulam, quam nos ex Avieno in fabellas nostras adolescentes iambico carmine transtulimus : Olim quas vellent esse in tutela sua, Diui legerunt arbores : quercus Ioui, Et myrtus Veneri placuit, Phæbo (sic) laurus (sic), Pinus Neptuno, populus celsa Herculi. […] “Allusit, dit-il, ad fabulam quam nos ex Avieno in Fabellas nostras adolescentes Iambico carmine transtulimus : Olim quas vellent esse in tutela sua.”