Ma sendo un giorno uscita a la campagna De l’humil tana per cercar d’intorno Cosa, onde trarre a i pargoletti suoi Nati potesse l’odiosa fame, L’Aquila tratta da medesma cura De l’arbore scendendo al basso prese De la compagna misera i figliuoli, Et ne fé pasto a gli Aquilini suoi. […] Non molto dopo avenne, ch’ivi presso Havendo alcuni habitator del loco Immolato una Capra al sacrificio, Del nido la rapace Aquila scese, E preso havendo ne gli adunchi artigli Certe reliquie de l’adusta carne Con alquanti carboni accesi intorno Rapida salse al suo superbo nido. […] Il che vedendo allhor la Volpe offesa Per far de la sua prole alta vendetta Sopra di quelli immantinente corse ; E inanzi a gli occhi de l’altera madre Devorò ingorda i pargoletti figli. Così fra noi mortali avenir suole, Che chi de l’amicitia i sacri patti Per non degna cagion profano rompe, Quantunque de gli offesi amici al tutto Possa schivarsi da l’ultrice mano ; Non è però che col girar de gli anni Schivar possa di Dio la giusta spada. Et colui, ch’una volta, o più da tale Riceve a torto in alcun modo offesa Quando gli è data occasion sovente Fa de le havute ingiurie aspra vendetta.
Onde a pregar si diè con humil voce Colui, che preso in man stretto il tenea Per dargli morte, acciò sicuro fosse De gli altri augelli, ch’ei prendea, lo stuolo, Che lo lasciasse, perché esso giamai Non gli havea fatto ingiuria, o danno alcuno. […] Et detto ciò gli diè tanto del capo Sopra d’un sasso, che morir convenne. Così devrebbe farsi ad ogni huom rio, Che senza haver cagione offende altrui, Da quelli anchor, che mai da quello offesa Non han sentito, perché ogni altro poi Da sua malvagità viva sicuro : Perché è giustitia il vendicar il torto, Che l’innocenza da l’huom empio sente ; Né merita da gli altri haver perdono Chi fa senza ragione ad altri offesa.
L’ASINO d’un Leon trovò la pelle, E tutto si coprì di quella il dorso, E gia scorrendo le campagne e i boschi Con gran paura de gli altri animali, Che in cambio lo togliean d’un fier Leone. E dilettato dal vano spavento, Ch’egli porgeva a questa e quella fera, Vedendo di lontan venir la Volpe Far volea quello a lei, ch’a gli altri fece. […] Ma la Volpe, che quel conobbe al suono De l’asinina voce, in mezo il passo Fermossi tosto, e non si mosse punto : Ma ridendo tra sé di sua follia Così gli disse : invero che l’aspetto Di questo horrendo e spaventoso volto M’havria mosso nel core alta paura, S’al roco suon de l’asinina voce Io non t’havessi conosciuto in prima. Così l’huom sciocco e d’ignoranza pieno Che il savio fa tra gli ignoranti, quando Avien, che con saggio huom faccia l’istesso, Dal suono sol di sua propria favella Si scopre quel, che sua natura il fece, Con gran suo scorno, e riso di chi ’l vede.
L’ALLODOLA è un augel poco maggiore Del Passero, et di piuma a lui simile, Ma sopra il capo un cappelletto porta Di piume, ch’assai vago in vista il rende : Questa di far il nido ha per usanza Dentro a le biade de gli aperti campi ; In cui suol partorir le picciol uova De la stagion de l’anno in quella parte, Che può bastarle a far prender il volo Ai nati figli al cominciar la messe. […] Però diman prima, che nasca il giorno, Vattene a ritrovar gli amici nostri Di questa Villa, e pregagli in mio nome A venir tutti a l’apparir del Sole A darci in presto del servitio loro In tagliar questa homai matura biada. […] Ma quando più l’ardor del mezo giorno Scaldava i campi, et aspettato indarno Gran pezzo haveva gli invitati amici A la sua stanza quel padron del campo, Alfin col suo figliuol venne in su ’l loco Per veder se gli amici ivi trovava Forse in far l’opra, a ch’ei gli havea pregati. […] E l’altro giorno a trovar pasto andando Di novo gli ammonì che intentamente Notasser ciò, che seguitar devea. Così quel giorno non comparse alcuno : Onde il padron de la matura biada Giunto verso la sera in quella parte Disse al figliuol : poi che nessun si move O de gli amici, o de’ parenti nostri A prestarci lor opra in tal bisogno ; Fa’ che tosto diman, figlio, per tempo Qui due messore porti, onde ambidue Noi farem cotal opra ad agio nostro, Né ad alcun altro havremo obligo alcuno.
S’ERAN ridutti a general conciglio Gli augelli tutti per crear tra loro Un novo Re, che la custodia havesse De gli altri, e sopra lor dominio e regno. Onde il Pavone gran broglio facea D’esser quel desso, confidando assai Nella bellezza de le varie penne D’aureo color, e mille gemme tinte : E di questo facendo altera mostra Con lunga oratione in quel senato, Sì che piegavan già le voci tutte Ne i suoi suffragii, contentando ognuno Ch’ei fosse quel, che in loro imperio havesse, Quando tra gli altri se gli offerse innante Il picciol Merlo da le nere piume, E se gli oppose con simil parole. […] Non seppe a tai parole usar risposta Il Pavone, e restò tutto confuso : E gli altri a far si dier novella eletta D’altra persona di più nobil merto.
IL Corvo infermo, e già vicino a morte Senza speranza di terreno aiuto Con prolisso parlar pregò la madre, Che facesse per lui preghi a gli Dei Ch’ei ricovrasse il suo vigor primiero. […] Deh come sarà mai, figlio diletto, Che sieno udite le preghiere mie, E i voti, ch’io per te porga a gli Dei ; Per te, che sempre de i lor sacri altari Le vittime predando, e di brutture Contaminando i puri alberghi santi Per mille ingiurie di vendetta degne Sei fatto odioso al lor benigno nume ? […] Così interviene a l’huom, ch’è sempre usato Di far ingiuria indegnamente altrui : Perché non trova ne i bisogni sui Chi d’un sovvegno se gli mostri grato.
E per esser d’altrui creduto tale, Entrò de gli Pavoni anch’esso in schiera. Ma quando al suon de la sua rauca voce Riconosciuto fu da gli altri, ognuno De le piume non sue tosto spogliollo, E con gran scorno fu da lor scacciato. Così interviene a chi troppo bramoso Di gloria senza merto honor procaccia Da le fatiche altrui frodando il vero, Inhabile a quel far, che gli altri fanno, Che d’ingegno e valor dotati sono.
Ma il Contadin, cui strana cosa parve, Che d’una fiera divenisse moglie La giovinetta sua figliuola, prese Partito di sbrigarsi da tai nozze In questo modo : et tosto gli rispose. […] Et così contentò che ’l Contadino Di sua man propria gli trahesse allhora Ad uno ad uno i denti, e l’ugne tutte : E poi gli chiese la bramata sposa. Ma il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leone, Che non haveva più l’ugne, né i denti, Non solo di negargli hebbe ardimento La figlia, ch’egli li chiedea per moglie ; Ma con un grosso fusto lo percosse Si fieramente nel superbo capo, Ch’a terra lo mandò stordito, e poi In pochi colpi gli levò la vita : E sciolto andò da tal impaccio e briga. La favola in virtù saggia ammonisce L’huom forte, che con altri accordo brama, A non lasciarsi tor l’armi di mano, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel, che contra lui possente il rese, Cangi pensiero di fermar la pace ; E con guerra mortal gli mova assalto, E lo conduca a l’ultima ruina, Senza poter haver da lui contrasto.
L’ANGUILLA un giorno domandò al Serpente, Con cui spesso in amor giacer soleva Dentro a l’humor d’un paludoso stagno ; Da qual cagione derivar potesse, Ch’egli da tutti gli huomini fuggito, Ella a studio cercata era da ognuno, Ambi due sendo d’una stessa forma : E mille sue compagne prese e morte Havea veduto, ond’egli sempre in pace Vivea felice aventurosa vita, Come ella ognihor viveva in pena e in doglia Con continuo timor d’acerba morte. […] Ond’io chi cerca di turbar mia pace Così combatto, o me gli mostro fiero, Che raro avien, ch’egli da me si parta Senza paura, e manifesto segno Del temerario ardir mostrato indarno Per farmi oltraggio : e con orgoglio crudo Non lascio ingiuria mai senza vendetta. Così l’huomo, ch’è debole e innocente, Ognuno rende a fargli oltraggio audace : E ’l forte et di mal far si vive in pace ; Perché chi gli osta ei fa tristo e dolente.
VOLEAN d’accordo gli altri arbori tutti Che l’Uliva di lor l’imperio havesse : Ma quella, che di sua sorte contenta Già si viveva una tranquilla vita, Non volse acconsentir d’haver tal carco ; E così disse : ben pazza sarei S’io, che de le mie frondi e grasse e belle Sì, che son care a gli huomini, e a gli Dei Ho sol la cura, che lieta mi rende ; Volessi abbandonar le cose mie Per macerarmi e giorno e notte sempre Ne i tristi affanni de l’altrui governo. […] Et ei rispose lor : mai cangiarei La cura, c’ho de’ miei soavi frutti, Che vincon di dolcezza il flavo mele, E ’l nettare, che in ciel gustan gli Dei, Per quell’affanno sopra ogni altro amaro, Che seco tien d’altrui regger la cura Sotto il sembiante d’un pregiato honore. […] Chi tien l’honor, e le sue cose a core Non cerca mai de gli altri esser Signore : E brama haver dominio in altri spesso Colui, ch’a pena può regger sé stesso.
Occorse un giorno, che sendo in camino Ambi guidati dal padrone insieme, L’Asino stranamente indebolito Da la vecchiezza, e dal soverchio peso Pregò il Cavallo in supplichevol modo Che d’un poco del peso per alquanto Di spatio gli piacesse di sgravarlo Fin ch’ei potesse sol riprender lena : Perché già si sentia venir a fine : E negando di farlo il suo compagno Cadendo lasso in mezo del sentiero Terminò col viaggio anchor la vita. […] Allhor si dolse quel crudele indarno Del mal del suo compagno, et della pena Del doppio peso : che schivando in parte Tutto sul dorso suo venuto gli era. Così quel servo fa, che del conservo Non ha pietade : et non consente in parte Talhor levargli del suo ufficio il peso Per picciol tempo : onde ne nasce poi Che la soma di quel sopra lui cade Tutta, né trova chi gli porga aiuto Per giusta ira del ciel, che lo permette.
Tal ch’ei trafitto da gli aculei strani De l’infinito stuol, che lo feriva, Senza rimedio di poter salvarsi, Ceder convenne in tutto al primo assalto E partendosi quindi si doleva Amaramente non haver sofferto Di quella in pace la primiera offesa, Che sola un poco gli ferio l’orecchia, Godendo lieto il ritrovato cibo. Così talhor l’huom per fuggir s’adopra Un picciol mal, che sopportar potrebbe, Et quel fuggendo cade in mille danni Che d’improviso gli si movon dietro.
Il che sentendo una di lor più antica D’anni, e di lunga esperienza dotta Le domandò quel, che l’està passata Ella facesse : e rispondendo quella, Che col batter de l’ali, e ’l mover tuono Dentro a le cartilagini sonanti De l’aureo ventre un’harmonia soave Formar soleva per comun ristoro De gli affannati, e stanchi pellegrini, Che sotto il fiero ardor del Sole estivo Facean passaggio per gli aperti campi. […] Giovani, voi che de’ vostri anni il fiore Dietro a le vanità perdendo andate, Senza pensar di vostra vita il fine, Aprite a questo esempio, aprite gli occhi : Et imparate con più san discorso, Che v’è mestiero in su la primavera Di vostra età pensar di quella al verno : Se non volete a l’ultima vecchiezza Giunger infermi, e di miseria pieni ; Che l’antico proverbio è cosa vera, La vita il fine, il dì loda la sera.
IN mezo d’una via stava il Serpente, Né però ad altri facea danno alcuno, Anzi sempre calcato era da ognuno, E tolto a scherno da l’humana gente : E con Giove si dolse, che innocente Essendo, gli era ogni huom sempre importuno. Ond’ei gli disse : Ognun sarà digiuno D’offenderti, se men sarai clemente : E, se col primo, che ti fece offesa, L’ira mostrato havesti, e ’l tuo veleno, A l’altre ingiurie ciò t’era difesa.
Non molto lontano Da queste ville gli animali tutti Convenuti si son pur dianzi insieme ; E stabilita hanno fra lor tal pace, Che durerà nel mondo eternamente. E mandan me per messaggiera intorno A publicar d’un tanto ben la fama Fra quanto può girar questo paese, Com’anchora mandato hanno altri messi In altre varie parti de la terra, Perché ognun vada al destinato loco Per allegrarsi co i novelli amici ; E giurar fedeltade e buona pace Con gli altri, che là giù soggiorno fanno. […] E ’l Gallo accorto Fatto a sue spese de gli inganni suoi, Fingendo creder quanto ella tramava, Dal medesmo suo dir trovò soggetto Di levarsela allhor tosto dinanzi : E mostrando allegrarsene di botto Con varii segni, così prese a dire. […] Che con le burle a la nemica ordite Da le burle di lei medesma, allhora Salvo si rese et da gli inganni suoi.
Ma conosciuto il buon Mercurio a pieno La gran sincerità di quel meschino, Che di bontà non havea par in terra, Quella d’argento appresso, e quella d’oro In don gli diede, e ’l fé partir contento. Ma raccontando un giorno il pover huomo A molti amici suoi di quella Villa La gran ventura, ch’avenuta gli era, Uno di lor, ch’astuto era e sagace, Tentò con fraude, s’egli anchor potesse Divenir ricco, come quel divenne. […] Allhor colui tutto ridente e lieto Non sì tosto la vide, che mentita Mente affermò che quell’istessa, quella Quella sola, e non altra era la sua ; La sua, che dianzi pur caduta gli era. Compresa allhor Mercurio la bugiarda Mente di quel Villano empio e sfacciato, Quella d’oro non sol dar non gli volle, Ma non essergli pur anchor cortese De la sua, che di ferro era nel fiume ; E da sé lo scacciò con brutti scherni.
Così gli huomini rei sovente ingrati Si stiman di favore esser cortesi A quelli, in cui non sian gli ufficii spesi De i vitii loro iniqui e scelerati.
Et mentre ei la pregava humilmente Che de la vita gli facesse dono, Ella rispose di non poter farlo Senza gran fallo, essendo egli nimico Di tutti gli altri augei, che intorno vanno, De’ quali essa ministra era e soldato. […] Ma sendo un’altra volta a caso incorso Nel pericolo stesso in man d’un’altra Donnola, che mangiarselo volea ; E supplicando a lei, che de la vita Don gli facesse ; udì da quella, ch’essa Non potea farlo con ragione alcuna, Sendo egli un Topo, la cui specie sempre De la sua propria fu crudel nimica : Onde rispose il Vespertiglio allhora, Ch’ella prendea di ciò non lieve errore : E l’ale a lei mostrando aperte e larghe, Con cui per l’aria si levava a volo Specie d’augello esser provava, e mai Non essersi alcun Topo in parte alcuna Trovato adorno di sì nobil dono.
Così spesso n’aviene a l’huom, che intento Tutto al guadagno senza haver rispetto Del mal, che del suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò che ’l suo cor gli detta : Per che talhor dal suo proprio guadagno Danno gli nasce di tal cura pieno, Che lo conduce a miserabil fine.
TRA i folti rami d’una ombrosa quercia Sedea il Cucuglio nell’eccelsa parte, Et d’altri varii augelli in su la sera Ivi adunati da diversi luochi Era anchor grande et abondante copia : Così tra lor la Gazza entrata anch’essa Volgendo a caso gli occhi in ver le cime Di quell’antica pianta a scorger venne Il Cucuglio, ch’in alto havea ’l suo nido : E da certo mal d’occhi oppressa allhora Mal discernendo quello in cambio il tolse De lo Sparviero, et lui temendo tosto, Ecco lo Sparvier, dice : e via sen vola Senza fermarsi in quel medesmo punto. Allhor tutti gli augei, che la sentiro, Accorti de l’error, ch’ella prendea Da la sembianza de le varie piume, Dietro le sibillaro, in mille guise Schernendo il suo timor fallace e vano.
IL Granchio un giorno era del Mare uscito Per novello disio di trovar cibo, Che gli gustasse fuor de l’onde salse ; Onde pascendo a suo diporto andava Lungo a la spiaggia del vicino lito. […] Ei che s’accorse del crudele effetto, Né scampo a sua salute haver poteva, Lagrimando tra sé disse : Ben merto Lasso, meschino, e questo e peggior male, Poi c’havendo nel mar cibo bastante Di condur la mia vita insino al fine, S’io di Nestore ben vivessi gli anni, Ho voluto cercar novella strada Di pasturarmi fuor del luogo usato, In parti entrando a mia natura avverse ; E d’animal marin terrestre farmi, Perdendo col mio albergo ancor la vita.
AVENNE un dì, che ’l semplice Asinello Per camino incontrando il fier Cinghiale, Qual pazzo incominciò ridersi d’ello, Per non haver più visto un mostro tale : Ond’ei gli disse : Segui, pur, fratello, Di me burlarti, poi ch’assai ti vale L’esser sì vile, e di sì sciocco ingegno, Che d’oprar mio valor teco mi sdegno. […] Dunque ciò noti ognun, ch’esser si sente Di cor gentile, e di virtute adorno : E freni l’ira con la bassa gente, Che talhora gli mova ingiuria, e scorno : Perché chi di valore è più possente, E di fregi d’honor cinto d’intorno Spendendo le sue forze in vil figura, La sua virtute, e la sua gloria oscura.
Ma perché quel di terra assai più lieve Scorrea sicuro ; l’altro, che temea Per la gravezza sua girsene al fondo, Cominciò con parole affettuose A pregar l’altro in lusinghevol modo, Che d’aspettarlo non gli fusse grave : Et legatosi seco in compagnia Volesse far quel periglioso corso : Onde l’altro gli diè simil risposta.
io già fui figlio D’un possente corsier, che con la sella D’argento, e con le briglie ornate d’oro Vinceva ogn’altro più veloce al corso, E gli huomini atterrava armati in guerra : E però tal esser convegno anch’io. […] Allhora in tale stato gli sovvenne Anchor d’esser de l’Asina figliuolo, Poltro animale, e di tardezza pieno.
Allhor quel sciocco, che sentiva quali Eran le lodi, che colei gli dava, Entrato in speme di quel vano honore, Che gli augurava il suo finto sermone, Per mostrarle c’haveva e voce e canto, Incominciò gracchiar con rauco strido Sì, che dal rostro il cibo in terra cadde.
PUR dianzi havea ’l Leon de gli animali Tutti per forza conquistato il Regno, E come Re de gli altri un bando fece Gridar, ch’ogni animal, che senza coda Fusse dal suo tener gisse lontano, E in esiglio da lui lontan vivesse Essendo privo de l’honor, che seco Porta la coda, che vergogna asconde.
Tal l’huomo suol tener spesso molesto Quel, ch’utile gli apporta e giovamento, E prezzar quel, che gli è d’aspro tormento Cagione, onde rimane afflitto e mesto.
Allhor il figlio, che veduto havea Il padre e tutti i genitori suoi2 Far sempre quello, ond’esso era ripreso, Disse : Padre, se vuoi, ch’io cangi stile, Mostrami prima tu di ciò la via ; Ch’io seguirotti, poi che quella norma Del vero caminar, che più t’aggrada, Appreso havrò dal tuo medesmo esempio : Perch’io non ho veduto, che giamai Habbi tu seguitato altra maniera ; Ond’io mi diedi a far quel, ch’imparai Da te, da gli avi, e da’ fratelli tuoi. […] [NdE] Var. les éditions à partir de 1586 corrigent en “il padre e tutti anchor gli avoli suoi”.
Che i Serpi n’usciran, la cui natura Sempre è di mal oprar ; e ti faranno Le prime ingiurie, e da tua ria ventura Ad ingiuriar gli altri impareranno : E, se non ti trarranno a morte oscura Il primo dì, che de l’uova usciranno, Faran col tempo eterna ingiuria poi Con tua gran pena a’ proprii figli tuoi. Lasciale dunque, e non pensar giamai Di premio haverne usando atto gentile ; Ché se ben cortesia merita assai ; Chi per natura è rio non cangia stile : E per buon’opra rende pene e guai, Et è superbo a quel, che gli è più humile : Né può placar un beneficio pio Un cor, che nato sia crudele e rio.
GIACEA ’L Leon nella spelonca homai Da gli anni reso debile, et infermo, Et inetto del tutto a procacciarsi, Come quando era giovine solea, Andando a caccia francamente il vitto. […] L’astutia fu, ch’un dì passando il Corvo Vicino a la sua grotta, a sé chiamollo Con debil voce, e con sermone humile Il mosse a gran pietà de la sua sorte : Et lo pregò, ch’ei divulgasse tosto De la sua morte già vicina il nome, Per cortesia fra gli animali tutti, Che facevan soggiorno in quel paese : Che, essendo esso lor Re, debito loro Era di visitarlo, e ritrovarsi Ciascun l’ultimo dì de la sua vita Per honorarlo de l’esequie estreme ; E ch’ei gran voglia havea di rivederli, E dir a chi l’amò l’ultimo vale : E testamento far per far herede Alcun di lor del destinato scetro. Dunque ubidillo il Corvo, e sparse intorno Tosto di ciò l’ingannatrice fama Tal che di giorno in giorno andava a quello Alcun de gli animai da quel confino Come inteso l’havea tardi o per tempo Per visitarlo : ma quando a lui presso Se lo vedea il Leon, che ’l mezo morto Fingea, l’unghiava con le zampe adunche, E lo sbranava, e ne ’l rendea suo pasto.
La Cicogna, che in riva al fiume stava, In ch’ei lavar solea le bianche piume, Se gli fa incontra, e la cagion li chiede Del suo cantar poi ch’è vicino a morte, Che per natura ogni animal paventa, E pianger suol pur a pensarvi il giorno, Ch’ella sia per venir, benché lontana. […] Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine. […] Così devrebbe contentarsi ognuno De la sua sorte, e de la legge eterna, Che Natura, e di Dio la voglia impone Con egual peso a gli animali tutti : E la morte abbracciar con lieto volto Come la vita si tien dolce e cara, Essendo il fin d’ogni miseria humana La morte, e questa vita un rio viaggio ; Dal qual l’huom dee bramar ridursi al porto De la tranquillità de l’altra vita Qual si voglia, che sia per esser poi, Poi che nulla di noi perder si puote, Che non vivi nel sen de la Natura Come a Dio piace ; al cui voler ognuno Dee star contento, e far legge a sé stesso De la ragion, che dal suo santo senno Con dotto mezzo a noi discende e piove.
SENTÌ ’l Leon gridar verso la sera Dentro un fosso lontan da la sua tana Immensa copia di loquaci Rane Con tal romor, che rimbombava intorno Il vicin bosco, e le campagne tutte, E stimando che qualche horribil mostro, Che novo habitator di quelle selve Fatto si fosse, disfidar volesse Le paesane belve a cruda guerra Per farsi ei sol Signor di quei confini, Uscì de la spelonca immantenente Cercando al suon, che gli feria l’orecchie, Con generoso core e d’ardir pieno Del suo sospetto la cagion fallace. […] Dunque stimar non dee l’huom saggio e forte L’inutil suon de le parole vane ; Ma il cor, che tace ; e da gli effetti solo Donar fomento a le sue imprese suole.
Così il giusto Signor, che tien in corte Diversa gente al suo servitio ; deve Sol prezzar più colui, che maggior segno Di valor mostra de gli effetti a prova : E non colui, che con sembianze vane Di cose esterior, che ingombran gli occhi, Cerca preporsi alla virtute altrui.
Ma non valse ragion, che s’adducesse, Per torla giù di quel cieco desio, Che ’l lume di ragion cacciava al fondo ; Sì che costretta da un pregar noioso L’Aquila alfin per contentarla prese Quella su ’l dorso fra gli adunchi artigli ; E quanto pote alto levossi a volo. […] Ciò detto aperse di questo e quel piede Tosto gli artigli, et la diè in preda al fato.
E domandato dal compagno allhora De la cagion, perch’ei così facesse, Rispose, che col caldo, che gli usciva Nel fiato fuor da la virtù del core, Dava ristoro a l’agghiacciate mani. […] Allhor di novo il Satiro, c’havea Da quello inteso, che scaldar poteva Col fiato quel, che gli parea di freddo, Stupido pur che fredda a lui paresse Quella pur troppo allhor calda vivanda ; Lo ricercò de la cagione anchora.
Vive con l’huomo, e sempre si nutrica D’ogni altra cosa, che d’esca o di grano, Cibo de l’huomo per usanza antica : Così perché nell’opre di sua mano Non gli suol mai far detrimento alcuno Depredando le biade in mezo il piano, A quello è cara ; et ei sempre digiuno Vive di farle offesa, e la ricetta Dentro a’ suoi tetti, onde l’osserva ognuno. E in prender gli altri augelli si diletta Tanto, c’ha per maggior d’ogni sua festa, Quando ve n’ha ben piena la sacchetta.
Tal l’huomo astuto suol quel, ch’ei più brama, Spesso sprezzar, se da accidente strano Reso gli vien dal suo pensier lontano Quel, che più d’acquistar s’industria, et ama.
Dunque colui, che sé misero crede, Stia ne gli affanni suoi costante e forte ; E nel voler di Dio paghi sua sorte De l’affanno maggior, che in altri vede.
Ma trovatolo a sorte uno a cavallo, Che gli venia da la cittade incontra, Di volerlo comprar sembianza fece : E prendendolo in mano, e ponderandol Per farne stima, lo chiedea del prezzo, Quando l’astuto in un medesmo punto Toccò di sprone il suo destrier veloce, E a sciolta briglia in fuga il corso prese.
Cos’io resterò essempio a gli altri avari, Ch’ogn’un del proprio a contentarsi impari.
Or sendo giunta la stagione estiva, Ch’ardendo secca d’ogni humor la terra, Quella che nel vicin stagno albergava, Invitò l’altra con benigno affetto A lasciar quel sì periglioso albergo Esposto a gli occhi d’ogni passaggiero, Et abondante d’ogni altro disagio, Per albergar con lei dentro a l’humore, Ch’ella eterno godea lieta e sicura.
Tal ti dee del nimico esser sospetto Il volto, che d’amor ti mostra segno ; Se con l’occhio miglior del sano ingegno Non vedi qual gli giace il cor nel petto.
Così l’huomo eloquente ha spesso forza Di lontanarsi da malvagia sorte : E fugge il mal di violente morte Col suo sermone, ond’ei gli animi sforza.
Tal che, sì come haver da te potrei Aiuto in divorar quel, ch’io prendessi Vittorioso co i compagni miei ; Così, s’io vinto, et morto al pian giacessi, Tu delle carni mie quello faresti, Che far a gli altri io te veduto havessi.
Così spesso intervien, che dove alcuno Dovrebbe oprar la man tosto e l’ingegno Per condur l’opre d’importanza a fine, Sta vaneggiando a consumar il tempo Dietro a parole, e quel, che meno importa, Al vero fin de la bramata impresa Con danno de gli amici et sua vergogna.
Ch’aspettar non bisogna che ’l periglio Ti stia sopra del capo in trovar l’armi, Che pon salvarti da nimica mano : Che quando sei con l’avversario a fronte Non è allhor da cercar, ma da oprar l’arme, Che ti difendan da gli assalti suoi.
Onde gli fu da l’Asino risposo : Togliti pur di qua tu, che in periglio Ti trovi ; ch’io di ciò non son pensoso.
Volse inferir la semplicetta augella, Che l’ingordigia de’ Signori avari, Che non han meta a gli appetiti loro Mentre a’ sudditi ognihor succiano il sangue, Fanno dishabitar l’ampie cittadi : Che abbandonate alfin vanno in ruina.
Ma alfin levossi un, che più etade e senno Havea de gli altri, et disse in questo modo.
Così talhor aviene a l’huomo ingrato, Che quel, che ’l tolse ad empia sorte, offenda : Che par che ’l giusto Dio merto gli renda, Quand’ei nol crede, eguale al suo peccato.
L’ASINO d’un Signor nodrito in corte Vide un nobil corsier ; che d’orzo e grano Era pasciuto, e ben membruto, e grasso ; Passeggiar su e giù dentro il cortile Di seta, e d’or superbamente adorno, Mentre aspettava il suo Signor, ch’armato Montasse in sella, e ’l conducesse dove Marte feroce insanguinava il piano : E felice chiamava ognihor sua sorte, Ch’ei fosse tanto dal Signore amato, Che seco il volea sempre, e gli facea Mille carezze, et ocioso, e lieto Il tenne un tempo con solazzi e feste : Ond’esso mal pasciuto a le fatiche Sempre era posto, né mai conoscea Il giorno da lavor da quel di festa, Continuando un duro ufficio sempre Senza giamai provar ocio, o riposo.
Il qual mentr’ella al sacrificio intenta Stava divotamente inanzi a l’ara, Le disse : con qual cor cara sorella Puoi sacrificio far a quella Dea, Che t’è tanto nimica, e t’odia tanto, Ch’ognihor ti sprezza, e prohibisce a tutti, Qual di nessun valor, gli augurii tuoi ?
UN Vecchio contadino ito a far legna Nel bosco assai da sua stanza lontano Tornava a dietro d’un gran fascio carco : E stanco homai dal troppo grave peso, Da la lunga fatica, e dal camino, Ma molto più da i molti giorni et anni, Che gli premean di doppia soma il fianco, Al mezo de la via su la campagna La sarcina lasciò cadersi a terra Per riposar l’affaticate membra Sotto l’ardor del caldo estivo Sole.
Il figlio tosto ubidiente cede A le parole del suo buon parente, E fa quel, ch’ei gli dice, e ’l meglio crede. […] Subito diede a tal consiglio orecchio L’huom rozo, e gli parea questo il più saggio, E d’huom, che fosse di prudenza specchio.
UN Topo giovinetto uscì del buco, Ove la madre non prima ch’allhora Lasciato havea dal primo dì ch’ei nacque ; Et incontrossi a caso in un Galletto Et in un Gatto, che tosto che ’l vide S’appiatò cheto in mezo del sentiero Per aspettar il Topo, che pian piano Incontra gli venia per suo diporto : E farne ad uso suo di lui rapina. […] Allhor la madre, che ben chiaro intese Quai fusser gli animai da lui descritti, In modo tale al suo figliuol rispose.
Prendasi pur ognuno, o sommo Padre, De gl’immortali Dei qual più gli aggrada Inutil pianta del suo pregio insegna, Ch’io quanto a me, cui sempre giova e piace L’honor goder con l’utile congiunto, M’eleggerò la pretiosa oliva, Di cui voglio esser protettrice amica.
E non sapendo che risponder l’empio Contra la forza e la ragion del vero, Soggiunse irato con altera voce, Ch’era sfacciato e di follia ripieno A dar risposta a sue saggie parole ; Ch’ad ogni modo ei non volea scostarsi Da la natura de’ parenti suoi, Che gli havean fatto mille e mille offese : E che gran voglia havea di far che a lui Toccasse un giorno di scontarle tutte Per lor col merto de le sue sciocchezze.
Allhor la Cagna il giuramento udito Sen rise, e via più forte la scherniva Dicendo : certo a te ben si conviene Tal giuramento d’osservanza degno : Poi che giuri per quella immortal Dea, Che t’odia sì, che ancora odia coloro, E prohibisce a i sacrificii suoi, Che de le carni tue vili et impure Si faccian pasto : anzi di più gli scaccia Dal suo bel Tempio come empi e profani.
Ma non sì tosto prima gli assaggiaro, Che con romor, che gli rendeo sospesi, Ecco scuotendo mille chiavi, e l’uscio Subito aprendo con un lume in mano Il maestro venir de la cucina Per porre in salvo certe altre vivande, Che pur dianzi levate havea di mensa.
Non gli anni, ma il saper pesa e misura.
Ond’ei rispose : anzi ’l mio canto è quello, Che invita a l’opre ogni mortal, che brama Menar sua vita da l’ocio lontana, Che d’ogni mal è padre ; e gli ricorda A non marcirsi nelle pigre piume ; Né per ciò canto fuor di tempo mai.
E mentre dubbio con tremante core Tentava in ciò la più sicura via, Ecco lontan da mezo il largo humore A lui tosto gridar con rauca voce, Ch’ei l’aspettasse, una loquace Rana : Che allhor mirando gli atti, ch’ei facea, Haveva il fin del suo pensiero inteso : Et aprendosi il calle innanzi ognihora Con le man pronte, e rispingendo a dietro Spesso con ambo i piè la torbid’onda, A quello si condusse in un momento.
Quinci son gita in molte e varie parti Per ricercar de’ medici il consiglio, E tutti ho scorso i Tempii de gli Dei, Per haverne di voi la medicina ; Laqual per buona sorte ho alfin trovata.
Or quel di noi, che più tosto la veste Di dosso gli trarrà, quel sia maggiore De l’altro di valor, e ’l più lodato.
Il segno fu, che quei, che di vaghezza, Di leggiadria, di gratia, e di beltade Vedesse di gran lunga avanzar gli altri, Quelli esser di lui figli ella credesse.
P211 & P593 Faerno, 49 13. « Del cervo » P74 14. « D’un huomo, et un satiro » P35 Faerno, 58 15. « Delli due vasi » P378 Faerno, 1 16. « Dell’agnello e del lupo » P98 Faerno, 87 17. « Del cavallo e l’asino carchi » P181 Faerno, 16 18. « Del sole, e Borea » P46 19. « Della volpe, et del riccio » P427 Faerno, 17 20. « Della gazza, et gli altri uccelli » PØ Faerno, 46 21. « Del topo giovine, et la gatta, e ’l galletto » P716 Abstemius, I, 67 22. « Del toro e del montone » P217 23. « Dell’asino, e ’l cavallo » P357 Faerno, 84 24. « Del gambero, e suo figliuolo » P322 25. « Del cane, e ’l gallo, e la volpe » P252 Faerno, 29 26. « Della canna, et l’oliva » P70 Faerno, 50 27. « Delle volpi » P17 Faerno, 61 28. « Dei lupi e ’l corvo » PØ Giovanni Antonio Campano, in Æsopus Dorpii (Anvers, 1512 sqq. […] Manuce, 1508, II, 369, f. 148r-v : « Pardalis mortem adsimulat » 79. « Dell’asino, et della volpe » P188 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 88 80. « Della lepre e la testuggine » P226 81. « Della rondine, e gli altri uccelli » P39 82. « Del leone, et le rane » P141 83. « Del topo, et della rana » P384 84. « Del leone invecchiato, et la volpe » P142 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 74 85. « Del gatto, e del gallo » P16 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 42 86. « Dello sparviero che seguiva una colomba » ??? […] 88. « Della volpe, e lo spino » P95 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 65 89. « Del leone innamorato, e del contadino » P140 90. « Della scrofa, e la cagna » P222 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 9 91. « Del taglialegna, e Mercurio » P173 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 62 92. « Della cervia, et la vite » P77 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 70 93. « De gli arbori, e del pruno » P262 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 93 94. « Della volpe, et della simia » ???
Préface de la première édition Je me propose de publier, en faisant précéder les textes de leur histoire et de leur critique, tout ce qui reste des œuvres des fabulistes latins antérieurs à la Renaissance. C’est une vaste tâche que personne encore ne s’est imposée, et qui, je le crains du moins, m’expose à être un peu soupçonné de présomption. Pour me prémunir contre un pareil soupçon, je désire expliquer comment j’ai été conduit à l’assumer. De tous les auteurs anciens qui guident les premiers pas de l’enfant dans l’étude de la langue latine, Phèdre est celui qui lui laisse les plus agréables souvenirs. Ses fables sont courtes, faciles à comprendre et intéressantes par l’action qui en quelques vers s’y déroule.