IL Nibio e lo Sparvier vennero insieme A gran contesa, ognun sé stesso alzando Sopra l’altro di pregio, e di valore : E non potendo differir tal lite Senza il giudicio altrui, restar d’accordo Di far l’Aquila in ciò giudice loro. […] Così il giusto Signor, che tien in corte Diversa gente al suo servitio ; deve Sol prezzar più colui, che maggior segno Di valor mostra de gli effetti a prova : E non colui, che con sembianze vane Di cose esterior, che ingombran gli occhi, Cerca preporsi alla virtute altrui. Di ciascun l’opra è del valore il saggio5.
Io canto di mia vita il giusto fine, Che di necessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E del ben e del mal, come la sorte Di ciascun brama, e con ragion richiede : Io canto le miserie mie passate : Io canto appresso la futura pace, E l’eterno riposo, onde la vita È priva sempre, e da continue cure Di procacciarsi con fatica il vitto Sempre si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro, che, giungendo al fine Di questo viver, giungo al fine anchora Di tanti affanni, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose, Che sono al mondo in qual si voglia o forma O stato variate dal primiero Sembiante, in ch’elle havean sostanza e vita, Quiete dolce e sempiterna pace. Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine.
L’ALLODOLA è un augel poco maggiore Del Passero, et di piuma a lui simile, Ma sopra il capo un cappelletto porta Di piume, ch’assai vago in vista il rende : Questa di far il nido ha per usanza Dentro a le biade de gli aperti campi ; In cui suol partorir le picciol uova De la stagion de l’anno in quella parte, Che può bastarle a far prender il volo Ai nati figli al cominciar la messe. […] Onde matura a pieno era la biada Quando anchor non haveano il volo appreso I pargoletti figli anchora ignudi Di quelle penne, onde sian atti al volo. […] Or del campo il padrone un giorno venne Di là passando col figliuolo insieme ; E veduto la biada a terra china Dal peso andarsi del maturo grano, Che de l’aride spiche homai cadea ; Disse : vedi figliuol come è matura Già questa biada sì, c’homai si perde ? Però diman prima, che nasca il giorno, Vattene a ritrovar gli amici nostri Di questa Villa, e pregagli in mio nome A venir tutti a l’apparir del Sole A darci in presto del servitio loro In tagliar questa homai matura biada. […] E l’altro giorno a trovar pasto andando Di novo gli ammonì che intentamente Notasser ciò, che seguitar devea.
Il Cavallo ciò inteso, e dal desio Di vincer l’inimico in ogni modo Già cieco fatto a scorger più lontano Di queste conditioni il dubbio fine, Fé ciò, che volse l’huom : lasciossi porre E sella e briglia ; e nel condusse in parte, Ove fra poco spatio il Cervo altiero Da le fort’armi, e da l’ingegno humano Alfin restò miseramente ucciso. Onde il Cavallo al fin de le sue voglie Venuto homai, debite gratie rese Di tal favor a l’huomo : e poi li chiese Licenza per andarsi a goder solo Quel prato ameno, il resto di sua vita In dolce libertà passando lieto. Ma l’huom, che già l’havea nelle sue mani, E poteva domar a modo suo De le forze di lui l’alto valore, Disse : Che, s’egli in suo servitio havea Tanto sudato, che vittorioso Fatto l’havea del suo fiero nimico ; Era ben degno ancor, ch’esso il servisse Per qualche giorno in alcun suo bisogno, E che non intendea per modo alcuno Lasciarlo andar senza pagargli il costo Di sue fatiche, e nel ritenne a forza Sì, ch’ei rimase eternamente servo. Così talhora un huomo, ch’è men forte Del suo nimico, e che soccorso chiede Ad huom, che più del suo nimico vale, Dopo le sue vittorie alfin rimane De la sua propria libertà perdente : Che quel, che vinto ha il suo nimico, ch’era Di lui più forte, assai più facilmente Può vincer lui, di cui già possessore Si sente, e haver tutte le forze in mano ; Né vuol haver per altri indarno speso Il valor proprio : ché raro si trova Chi per un altro il suo metta a periglio, Senza speranza di guadagno haverne.
L’ASINO d’un Signor nodrito in corte Vide un nobil corsier ; che d’orzo e grano Era pasciuto, e ben membruto, e grasso ; Passeggiar su e giù dentro il cortile Di seta, e d’or superbamente adorno, Mentre aspettava il suo Signor, ch’armato Montasse in sella, e ’l conducesse dove Marte feroce insanguinava il piano : E felice chiamava ognihor sua sorte, Ch’ei fosse tanto dal Signore amato, Che seco il volea sempre, e gli facea Mille carezze, et ocioso, e lieto Il tenne un tempo con solazzi e feste : Ond’esso mal pasciuto a le fatiche Sempre era posto, né mai conoscea Il giorno da lavor da quel di festa, Continuando un duro ufficio sempre Senza giamai provar ocio, o riposo. Ma quando poscia dopo alquanti giorni Da la battaglia ria tornar il vide Di sudor carco, afflitto, polveroso, E tutto homai del proprio sangue molle Per le ferite, ch’egli havuto havea, Tutto allegrossi de la propria sorte ; Che, se ben il tenea poveramente, L’assicurava da miseria tale : E compensando il duol de le fatiche Con la dolcezza del viver in pace ; E del Cavallo ogni trionfo e pompa Con l’infelicità del mal presente, Racconsolato e di sua sorte lieto Menò contento di sua vita il resto. Così far deve ogn’huom, che in bassa sorte Esser si sente, e senza invidia il corso Di sua vita passar, mentre comprende De’ Prencipi e Signor l’alta fortuna : Che spesse volte in gran bassezza cade, Chi posto vien de la sua rota in cima.
A questo il Cane, io ti dirò (rispose) Di ciò quella cagion, che il ver m’insegna. Mi percuote il patron tal volta il dosso, Non per odio, o dispetto, in ch’ei mi tenga ; Ma per amor, ch’egli mi porta, e farmi Di quello instrutto, ond’io possa esser atto Ne i suoi servigi, e più felice farmi. Quinci avien poi, che seco andando a caccia Mi rendo pronto a mille belle imprese : E mi pasco di starne, e di fagiani, E di mille altri cibi ottimi e rari : Tal che dolce mi sembra ogni percossa, Ch’io da lui sento a mia dottrina darmi ; Perch’utile et honore alfin m’apporta, Ond’ho cagion di starmi a lui vicino : Ma tu bene a ragion fuggirlo dei, Et più quando egli ti nudrisce et pasce Di miglior cibo ; perché allhor s’appressa (Né vorrei dirlo) di tua vita il fine ; Quando egli ha gran piacer, che tu t’ingrassi, Stando in quiete, e in dolce almo riposo Per goder poi de le tue carni un giorno.
Ecco, se vuoi Borea conoscer senza più contrasto Qual più vaglia di noi, novo argomento Di venir a provar le forze nostre. […] Or quel di noi, che più tosto la veste Di dosso gli trarrà, quel sia maggiore De l’altro di valor, e ’l più lodato. Borea sdegnoso contentossi al patto Di cotal prova : et fé d’esser il primo, Che mostrasse con lui l’alte sue forze. […] Ma dopo breve spatio assai più fiero Mostrando seco il Sol l’intenso ardore, Tutto di sudor carco, e vuoto quasi Di spirto, et di vigor di mover passo, Stanco depose la noiosa veste, Lasciandola tra via fra certe vepri Per non lasciar in quel camin la vita : Così di voler proprio abbandonolla Con speme di poter forse trovarla Al suo ritorno nel riposto loco : E ’l Sol di quella impresa hebbe l’honore.
Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del suo mal forte si duole : Et poi le dice con parole humane : Ch’egli si trova in punto, s’ella vuole, Di scacciarle le mosche allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado facea, non potea trarla Se ben s’affaticasse più d’un giorno. […] Non far fratello : che poco più danno Far mi pon queste homai di sangue piene, Di quel ch’infin adhor sì fatto m’hanno. Che s’altro nuovo stuol di mosche viene, Affamate a la prima havranno a trarmi Quel poco, che mi resta entro a le vene ; Onde potrei più in fretta a morte andarmi : Tal che meglio è restar quel poco in vita Di spatio, che dal ciel sento lasciarmi.
Veduto ho, madre, mentre a spasso i’ andava Due animali ; l’uno è di colore Simile al tuo nel pelo, ma distinto Di varie macchie di color più oscuro : Sembran di lucid’oro i suoi begli occhi, Che sono al rimirar tutti pietosi : Ha quattro piedi, et una lunga coda Di vario pelo tinta insino al fine. Et (quel che più mi piace in esso) è tanto Mansueto al veder, tanto gentile, Ch’a la mia vista non si mosse punto ; Anzi fermossi in atto humile e pio Quando mi vide, e mi diè gran baldanza D’andargli presso, havendo io gran desire Di meglio figurar suo bel sembiante. […] Io dal timor, ch’ei non mi divorasse, Mi posi in fuga : et ei mai non restossi Di seguitarmi pien di gridi e rabbia Per fin che salvo a te pur mi condussi. […] Sappi, che l’animal, che tanto humile Prima ti parve, e di bontà ripieno, È il più malvaggio, che si trovi in terra, Perfido, iniquo, fiero, discortese, E di tua specie natural nimico : E sol ti si mostrava in vista humano Sol per assicurar tua puritade Di farsegli vicina, onde potesse Dapoi satiar di te sua ingorda fame.
Ma trovatolo a sorte uno a cavallo, Che gli venia da la cittade incontra, Di volerlo comprar sembianza fece : E prendendolo in mano, e ponderandol Per farne stima, lo chiedea del prezzo, Quando l’astuto in un medesmo punto Toccò di sprone il suo destrier veloce, E a sciolta briglia in fuga il corso prese. Or visto il Contadin, che invano havrebbe Fatto ogni prova per voler seguirlo ; Di ricovrarlo non havea più speme ; E dirgli incominciò così gridando.
AVENNE un dì, che ’l semplice Asinello Per camino incontrando il fier Cinghiale, Qual pazzo incominciò ridersi d’ello, Per non haver più visto un mostro tale : Ond’ei gli disse : Segui, pur, fratello, Di me burlarti, poi ch’assai ti vale L’esser sì vile, e di sì sciocco ingegno, Che d’oprar mio valor teco mi sdegno. […] Dunque ciò noti ognun, ch’esser si sente Di cor gentile, e di virtute adorno : E freni l’ira con la bassa gente, Che talhora gli mova ingiuria, e scorno : Perché chi di valore è più possente, E di fregi d’honor cinto d’intorno Spendendo le sue forze in vil figura, La sua virtute, e la sua gloria oscura.
DUE vasi, ch’adoprar soglion le genti Da cuocer le vivande in su la fiamma, Di terra l’uno, et l’altro di metallo, Scorrean nel mezo a la seconda un fiume Portati a galla da le rapide onde. […] Guardisi ognun per tal esempio dunque Di star vicino a chi è maggior di forze, Se brama da perigli esser lontano, Et nel suo stato ognihor viver sicuro.
IL Cerbiato chiedeva un giorno al padre Da qual cagione proceder potesse, Ch’ogni volta, ch’a guerra il can lo sfida, Egli sì facilmente in fuga volto Di lui solo al latrar desse le spalle, Essendo egli di corpo e di valore Maggior del cane, e con la fronte armata Di dure corna a contrastar possenti Con qual si voglia più forte animale.
TROVÒ Il Drago una lima in mezo un campo ; E stretto da la fame allhor la prese Per divorarla non sapendo quale Cosa ella fosse : e mentre la stringea Tra duri denti indarno ritentando Di spezzarla sovente, e non potea Modo trovar, che quella a lui cedesse ; Dice ella : o sciocco, di te stesso fuori Ben sei, se stimi di poter far danno, Pur picciol danno, a la durezza estrema De’ miei ferrigni e ben temprati denti, A cui cede l’acciar più saldo e forte. […] Così devria colui lasciar le imprese, Che impossibili sono alle sue forze, Né contrastar con quel, ch’è più possente Di virtute e valor : che nulla acquista Chi l’huom combatte, ch’è di lui più forte.
NON era anchora il Lin venuto in uso Di seminarsi, quando un fu, che primo Raccolse il seme in varie parti fuso : E volse dar principio (a quel ch’io stimo) Di far lo stame, onde trahesse poi Mille mistier, ch’in verso io non isprimo. […] In breve par ch’a la misura arrive Di sua perfettione il Lin maturo ; E sen fan varie reti in mille rive.
Il Cigno allhor per naturale istinto Mosso a cantar co’ più soavi accenti, Che possa di sua vita a l’ultime hore, Visto già il ferro de la morte autore, Et esser preso da l’infesta mano Di quell’huom rozo e di pietate ignudo, Nel cor piangendo a cominciar si diede Così leggiadro e dilettoso canto, Ch’a quello il Cuoco del suo errore avvisto Il riconobbe al primo suono, e tosto Lasciollo in pace, e diè di mano a l’Occa. […] Così l’huomo eloquente ha spesso forza Di lontanarsi da malvagia sorte : E fugge il mal di violente morte Col suo sermone, ond’ei gli animi sforza.
ANDÒ un Villan dentro una Selva antica Di quercie ombrose largamente adorna, E la pregò con mansueta voce, E parole efficaci a sua richiesta, Che di prestargli ella contenta fosse Un picciol tronco de le piante sue, Ch’eran d’immensa, et infinita copia : Perch’un manico farne esso volea A la sua scure, onde tornato a casa Fornir potesse alcuni suoi lavori. […] Però guardisi ognun a cui fa dono De le sue gratie, e non si fidi troppo Di chi per molta esperienza, e lunga Prattica non conosce essergli amico.
PASSAVA un Contadin col carro carco Di biada per un calle assai fangoso, Né havendo i buoi per la stanchezza forze D’indi ritrarlo, miserabilmente Tutto otioso e di mestitia pieno Facea soggiorno, et non sapea che farsi. […] Oh là tu, che dal ciel chiamato m’hai In tuo soccorso, hor da’ principio tosto Ad aiutarti per te stesso, et opra Quanto è in te di valor per tragger fuori Di questo loto il già fermato carro : Stimola i buoi ; metti le spalle sotto Le gravi sponde, et sollevando alquanto Le lente ruote invita al moto il plaustro : Ch’allhor, se da persona di valore Facendo sforzo a la tua debil possa Mi chiamerai in soccorso al tuo bisogno, Sarò presente ; e col divin potere In te raddoppierò l’humane forze.
TAGLIAVA legna un Contadino un giorno Sopra la riva d’un corrente fiume ; E la scure per caso a lui di mano Uscita andò di quello insino al fondo : Onde il meschin piangea dirottamente La sua disgratia sì, ch’a pietà mosse Mercurio, che cortese entrò in pensiero Di voler aiutarlo allhor allhora : E pescando nel fondo a l’aria trasse Un’altra scure, ch’era d’oro tutta ; Domandando a colui s’era la sua. […] E già venuto nel medesmo loco Per tagliar legna, quel, che il suo compagno A caso fece, fece egli con arte Di lasciarsi cader allhor la scure In mezzo il corso de le rapide onde : E finse lagrimar con gran sospiri, E gran querele la sua dura sorte. Onde Mercurio, che sapea l’inganno Del fraudolente, immantenente apparve A lui dinanzi ; e finto anch’egli seco Di volergli trovar la scure sua, Fuor de l’onde una d’or tosto ne trasse, Ch’al peso, e a l’occhio era di gran valore, Domandando al Villan, s’era la sua.
L’AQUILA un giorno da una eccelsa rupe Ratto calossi da la fame spinta Di grasse agnelle in mezo un ampio gregge ; E rapito un agnel ne i curvi artigli Levossi, e via portollo, onde si tolse. […] Quinci esso ancor per far prova maggiore Con strepito et stridor ratto si cala Sopra un grosso monton ; nel folto velo Di cui poscia il meschin l’ugne intricando, L’ugne mal atte a così gran rapina, Per prender altri alfin preso trovossi.
Egli, ch’ad ogni modo havea desire Di far vendetta de l’havuto oltraggio, La casa fracassando a terra trasse Con fiero sdegno ; e l’altre tutte quante Destò ad un tratto, che col morso acuto, E col pungente stral de la lor coda Gli furo intorno generosamente Quello assalendo per salvar la vita A i proprii figli, e vendicar in parte De i loro alberghi la total ruina. Tal ch’ei trafitto da gli aculei strani De l’infinito stuol, che lo feriva, Senza rimedio di poter salvarsi, Ceder convenne in tutto al primo assalto E partendosi quindi si doleva Amaramente non haver sofferto Di quella in pace la primiera offesa, Che sola un poco gli ferio l’orecchia, Godendo lieto il ritrovato cibo.
Questo veduto allhor Pallade saggia Restò sospesa di stupore alquanto, Che tale elettion fosse caduta Sovra di piante infruttuose e vane, Poi che ciascun sapea, che immensa copia Di fruttifere pur ne havea la Terra, Da farne agevolmente utile eletta : Et domandando al sommo padre Giove Modestamente la cagion di questo, Alfine hebbe da lui cotal risposta. […] Prendasi pur ognuno, o sommo Padre, De gl’immortali Dei qual più gli aggrada Inutil pianta del suo pregio insegna, Ch’io quanto a me, cui sempre giova e piace L’honor goder con l’utile congiunto, M’eleggerò la pretiosa oliva, Di cui voglio esser protettrice amica.
UN Topo già, c’havea sommo disio Di passar d’un gran stagno a l’altra riva L’acque profonde, in gran pensier si stava D’esporsi incerto al periglioso guado. […] E dove dianzi pur su l’acque a galla Di par col topo havea tenuto il corso, Rivolta in dietro sotto l’acque entrando Tentava trar quel miserello al fondo Per devorarlo poi che estinto ei fosse.
In questo la Testuggine, che ’l corso Con solecito passo affrettò tanto, Che giunse alfine al terminato segno, Di tutto quell’honor prendea la palma, Quando la Lepre desta alfin s’accorse Del preso error de la sua confidenza, E colei riportarne il pregio tutto Di quella impresa, si pentì, ma in vano De l’arrogante negligenza sua.
Quinci la terza volta ritrovando L’altera belva, tanta sicurezza Prese l’astuta, ch’ivi hebbe ardimento Di rimirarlo, a lui farsi vicina, E baldanzosamente ragionando Audace motteggiar seco presente.
LA Volpe un’alta siepe havea salito, Che intorno circondava un bel giardino, E venendole a caso il piè fallito Diede cadendo in un pungente spino : E sentitosi il piè punto e ferito Di lui si dolse, e del suo rio destino.
E ’l Gallo accorto Fatto a sue spese de gli inganni suoi, Fingendo creder quanto ella tramava, Dal medesmo suo dir trovò soggetto Di levarsela allhor tosto dinanzi : E mostrando allegrarsene di botto Con varii segni, così prese a dire. […] Udito ciò la Volpe, che credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più non dimorar con suo gran danno Oltra lo scorno, ch’avanzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece.
LA Rondinella et la Cornacchia havea Di beltate fra lor gran lite accesa : Ch’ognuna l’altra in ciò vincer credea.
Così interviene a l’huom, ch’è sempre usato Di far ingiuria indegnamente altrui : Perché non trova ne i bisogni sui Chi d’un sovvegno se gli mostri grato.
L’ASINO si dolea che l’ampia fronte Non havea, come il Bue, di corne armata ; Né la Simia facea minor lamento Di non haver la coda, onde coprisse Le parti, che modestia asconder suole.
LA Cornacchia veduto havea nel prato La pecorella, e gran desio le venne Di travagliarla, e trastullarsi seco ; E di quella volò tosto sul dorso, E gracchiando, e mordendole le orecchie La dileggiava, e ingiuria le facea.
Così interviene a chi troppo bramoso Di gloria senza merto honor procaccia Da le fatiche altrui frodando il vero, Inhabile a quel far, che gli altri fanno, Che d’ingegno e valor dotati sono.
» Li lus li dist : « Jeo ne sai quei. » — « Di que te semble, si espel !
PASSANDO un’acqua il Cane con un pezzo Di carne in bocca, che trovò per via, Vide nell’onda, ch’era posta al rezzo, L’ombra maggior di quella, ch’egli havia : Et disse.
TRA i folti rami d’una ombrosa quercia Sedea il Cucuglio nell’eccelsa parte, Et d’altri varii augelli in su la sera Ivi adunati da diversi luochi Era anchor grande et abondante copia : Così tra lor la Gazza entrata anch’essa Volgendo a caso gli occhi in ver le cime Di quell’antica pianta a scorger venne Il Cucuglio, ch’in alto havea ’l suo nido : E da certo mal d’occhi oppressa allhora Mal discernendo quello in cambio il tolse De lo Sparviero, et lui temendo tosto, Ecco lo Sparvier, dice : e via sen vola Senza fermarsi in quel medesmo punto.
E mentre stavan dibattendo l’ali Diversi augei, che quelle hanno per cibo, Di questo accorti tosto si calaro, E le divorar tutte in poco d’hora.
SEGUIVA lo Sparviero una Colomba, Di cui volea satiar l’avida fame, E dando a lei la caccia entro a le reti D’un villanel, ch’a lui tese le havea, Dando di capo alfin restò prigione.
Così colui, ch’è da l’amico offeso, Sente più grave assai di ciò l’affanno, Che non il duol de la medesma offesa : Che quando l’huom d’altrui favore aspetta, Se ’l contrario n’avien, tanto maggiore Di quell’ingiuria ogn’hor sente la doglia, Quanto minor di lei fu la speranza.
Occorse un giorno, che sendo in camino Ambi guidati dal padrone insieme, L’Asino stranamente indebolito Da la vecchiezza, e dal soverchio peso Pregò il Cavallo in supplichevol modo Che d’un poco del peso per alquanto Di spatio gli piacesse di sgravarlo Fin ch’ei potesse sol riprender lena : Perché già si sentia venir a fine : E negando di farlo il suo compagno Cadendo lasso in mezo del sentiero Terminò col viaggio anchor la vita.
Così l’huom savio dee scacciar coloro Dal suo commercio, ch’egli esser intende Di poca fede : e sol l’altrui lavoro Prezzano quanto a loro utile rende.
Così la prova d’un passato male Render suol l’huomo di temenza pieno, Per non cader di novo a sorte tale, Di quello ancor, che dee temersi meno.
Ma la Volpe, che quel conobbe al suono De l’asinina voce, in mezo il passo Fermossi tosto, e non si mosse punto : Ma ridendo tra sé di sua follia Così gli disse : invero che l’aspetto Di questo horrendo e spaventoso volto M’havria mosso nel core alta paura, S’al roco suon de l’asinina voce Io non t’havessi conosciuto in prima.
Così talhora un huom, che poco vaglia, Battaglia move a l’huom di lui più forte, E prende ardir da le miserie note Di far ingiuria al misero, che oppresso È da cura maggiore, onde si vanta Poi vanamente de le proprie forze, Mentre colui, che a maggior cose attende, Senza difesa far nol cura, o stima.
O che bell’animal vegg’io là suso, Che vago augello di diverse piume, Di mille varii, e bei colori adorno.
Però nel tempo de la pace io voglio Apparecchiarmi de la guerra a l’uso Di tutto quel, che mi può far mistiero.
Allhor la Volpe impaurita al suono Del novo editto si metteva in punto D’abbandonar il suo natio paese, Quando la Simia di tal fatto accorta Le disse : o sciocca, a che ti metti in core Di ciò paura, se natura larga Ti fu del dono, ond’a me tanto è scarsa ?
Di dunc u nus poüms aler !
L’Oliva, che nel cor sente gran duolo Di ceder tosto come cosa frale, Dura resiste al primo assalto, e ’l vento Sprezza, e leggiera in lui prende ardimento.
Lasciale dunque, e non pensar giamai Di premio haverne usando atto gentile ; Ché se ben cortesia merita assai ; Chi per natura è rio non cangia stile : E per buon’opra rende pene e guai, Et è superbo a quel, che gli è più humile : Né può placar un beneficio pio Un cor, che nato sia crudele e rio.
Giovani, voi che de’ vostri anni il fiore Dietro a le vanità perdendo andate, Senza pensar di vostra vita il fine, Aprite a questo esempio, aprite gli occhi : Et imparate con più san discorso, Che v’è mestiero in su la primavera Di vostra età pensar di quella al verno : Se non volete a l’ultima vecchiezza Giunger infermi, e di miseria pieni ; Che l’antico proverbio è cosa vera, La vita il fine, il dì loda la sera.
DA capo a un fiumicel beveva il Lupo, E l’Agnello da lui poco lontano Vide inchinato far simil effetto : E come quel, che di natura è rio, Né havea cagion, e pur volea trovarla Di venir seco a lite, e fargli offesa, Cominciò tosto con parlar altero Dirgli, che mal faceva, e da insolente A turbar l’acque col suo bere a lui, Ch’era persona di gran pregio e stima, Esso vil animal di vita indegno.
Corre lor dietro, e in gran timor le adduce, Sì che come da lui lontana e presta Di lor ciascuna a l’alto si conduce.
Di che Giove sen rise, e ’l Contadino Le perdute fatiche in van piangea.
Stolto ch’io non credea, ch’un tanto grido Di così picciol corpo uscir potesse : Hor qual faria quest’importuno stuolo D’animali ad ogni opra inetti e vili Strepito horrendo, se a la mia conforme In sé la forma e la possanza havesse, Quando da sì vil cor manda tal suono ?
E tra le canne, che servian per muro De l’humile capanna d’un pastore, Di cece, e ghiande, che in più giorni accolse, Tutto contento, e pien d’amico affetto Gli fece lauta e copiosa mensa. […] Quivi senza aspettar chi gl’invitasse Ciascun di loro a ristorar si diede La fame, e del camin l’aspro disagio, Intorno a’ varii delicati cibi, Di ch’eran colmi molti piatti e deschi.
Ahi scelerato adesso È giunto il tempo, ond’io faccia vendetta Di mille offese, che facesti altrui.
Il generoso augel, che non volea Al suo sciocco pensier dar argomento Di sua ruina, con parlar benigno Cercò ritrarla da quel van disio Mostrandole il pericolo imminente, Che deveva sortir sì vana impresa.
Cedi, misero, cedi a un altro il peso Di tanto grado, che di te più forte Possa più degnamente in sorte haverlo, Con sicurezza di noi tutti insieme, E de la vita, e del tuo proprio honore.
Et mentre ei la pregava humilmente Che de la vita gli facesse dono, Ella rispose di non poter farlo Senza gran fallo, essendo egli nimico Di tutti gli altri augei, che intorno vanno, De’ quali essa ministra era e soldato.
Disse il Leon, c’havea sommo desio Di ricovrar la sanità perduta, Dunque qual sia il rimedio hor tosto dimmi.
Tal ch’egli desto a l’improviso suono Tosto uscì fuor de la sentita voce, E veduta la Volpe immantinente Le corse adosso, et atterrolla in breve, Facendo a lei quel, ch’essa haveva al Gallo Di far pensato con l’astutie sue, Senza che pur la ria se n’avvedesse.
La favola in virtù saggia ammonisce L’huom forte, che con altri accordo brama, A non lasciarsi tor l’armi di mano, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel, che contra lui possente il rese, Cangi pensiero di fermar la pace ; E con guerra mortal gli mova assalto, E lo conduca a l’ultima ruina, Senza poter haver da lui contrasto.
Il che veduto allhor l’afflitta madre Restò del caso rio trista e dolente ; Et non potendo farne altra vendetta, Quando per esser animal terrestre, Et senza penne da levarsi a volo, Non può gir dietro a sì veloce augello ; Di cor la maledice, et la bestemmia, Sì come fanno i miseri impotenti, C’han per solo rimedio in mezo a i guai Lo sfogar in tal guisa il giusto sdegno Contra chi loro a torto ingiuria move : In tanto odio e veleno si converte De le grate amicitie la dolcezza Quando da gli empi simulati amici Indegnamente violate sono.
Però ponete, prego, in altra mano Di tal fatica l’importante peso.
Ché così cesserà tanto bisbiglio De la gente, che passa, e che mi vede Di tua salute haver poco consiglio.
29. « Della cornacchia, et del cane » P127 Faerno, 12 30. « Della volpe, e del gallo » P671 Poggio Bracciolini, Facetiae, 79 31. « Dell’uccellator, et la lodola » P193 Faerno, 39 32. « De i topi » P613 Faerno, 47 33. « Di due rane vicine di albergo » P69 Faerno, 38 34. « Del cervo, et suo figliuolo » P351 Faerno, 23 35. « Di due asini » P180 Faerno, 6 36. « La testuggine, et l’aquila » P230 37. « D’un vecchio, et la morte » P60 Faerno, 10 38. « Della rana, et suo figliuolo » P376 39. « Del drago, et la lima » P93 40. « Del cervo, e ’l cavallo, e l’huomo » P269 41. « Del porco, et del cane » PØ Abstemius, I, 41 42. « Del lupo, et le pecore » P451 43. « Della gallina, et la rondine » P192 Faerno, 79 44. « Del serpente, et Giove » P198 45. « Delle formiche, et la cicala » P112-373 Faerno, 7 46. « Della volpe, et del pardo » P12 47. « Della mosca » P167, cf. […] 50. « Del granchio, et la volpe » P116 51. « Delle mosche nel mele » P80 52. « Dell’asino, la simia, et la talpa » PØ Faerno, 43 53. « D’un marito, che cercava al contrario del fiume la moglie affogata » P682 Faerno, 41 54. « Del contadino, et Ercole » P291 Faerno, 91 55. « Del lupo, et della grue » P156 Faerno, 56 56. « Del topo cittadino, e ’l topo villano » P352 57. « Del contadino, et del cavalliero » P402 Faerno, 15 58. « Del leone, dell’asino, et della volpe » P149 Faerno, 3 59. « Del figliuol dell’asino, e ’l lupo » PØ Faerno, 55 60. « Dell’asino, e del lupo » P187 Faerno, 4 61. « Della volpe, et dell’uva » P15 Faerno, 19 62. « Del corvo, et la volpe » P124 Faerno, 20 63. « Del leone impazzito, et la capra » P341 Faerno, 5 64. « Dell’asino, e del cinghiale » P484 Faerno, 54 65. « Del leone, et della volpe » P10 Faerno, 18 66. « Dell’aquila, e del corvo » P2 67. « Della volpe ingrassata » P24 68. « Della selva, e ’l villano » P303 69. « Di due rane c’havean sete » P43 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 37 70. « D’un cane, che temeva la pioggia » PØ Faerno, 67 < Abstemius, II, 17.
Préface de la première édition Je me propose de publier, en faisant précéder les textes de leur histoire et de leur critique, tout ce qui reste des œuvres des fabulistes latins antérieurs à la Renaissance. C’est une vaste tâche que personne encore ne s’est imposée, et qui, je le crains du moins, m’expose à être un peu soupçonné de présomption. Pour me prémunir contre un pareil soupçon, je désire expliquer comment j’ai été conduit à l’assumer. De tous les auteurs anciens qui guident les premiers pas de l’enfant dans l’étude de la langue latine, Phèdre est celui qui lui laisse les plus agréables souvenirs. Ses fables sont courtes, faciles à comprendre et intéressantes par l’action qui en quelques vers s’y déroule.