MENTRE che al Sol nella più algente bruma Givan molte formiche in lunga schiera Portando ad asciugar l’humido grano Fuor de la buca, ove l’havean riposto ; La misera Cicala, che di fame Già si moriva, con preghiere humili Cominciò loro a supplicar soccorso. Il che sentendo una di lor più antica D’anni, e di lunga esperienza dotta Le domandò quel, che l’està passata Ella facesse : e rispondendo quella, Che col batter de l’ali, e ’l mover tuono Dentro a le cartilagini sonanti De l’aureo ventre un’harmonia soave Formar soleva per comun ristoro De gli affannati, e stanchi pellegrini, Che sotto il fiero ardor del Sole estivo Facean passaggio per gli aperti campi. […] Dunque, se allhor così cantar solevi Senza pensar che far devesti il Verno, Hor ballerai per far più bello il giuoco : Il che tanto puoi far più agevolmente, Quanto hai di cibo il ventre hora men carco. Giovani, voi che de’ vostri anni il fiore Dietro a le vanità perdendo andate, Senza pensar di vostra vita il fine, Aprite a questo esempio, aprite gli occhi : Et imparate con più san discorso, Che v’è mestiero in su la primavera Di vostra età pensar di quella al verno : Se non volete a l’ultima vecchiezza Giunger infermi, e di miseria pieni ; Che l’antico proverbio è cosa vera, La vita il fine, il dì loda la sera.
S’UNIRON già d’alta amistade insieme L’Aquila e ’l Guffo : e si giuraron fede Di non mai farsi in alcun modo oltraggio : E tra i più forti inviolabil patti, Che d’osservarsi il Guffo proponesse, Con supplichevol prego aggiunse questo, Ch’a l’ Aquila piacesse haver riguardo A i figli suoi se gl’incontrasse a sorte : Onde perch’ella non prendesse errore Le diede il segno di conoscer quelli Fra l’altre specie de i diversi augelli. […] Quindi l’Aquila un giorno andando a spasso Per l’ampio spatio d’una ombrosa valle Da la fame assalita astretta venne Di pasturarsi : e come quella, a cui Stavan sempre nel cor gl’intesi patti Di mai non far al suo compagno offesa ; Da molti augelli per gran spatio astenne L’adunco artiglio : e tuttavia cercava Di prender quelli di più brutto aspetto, Quando dal giogo d’una eccelsa rupe Sentì ullular del suo novo compagno I non mai più da lei veduti figli Nell’aspro nido quasi anchora impiumi. Onde dal cantar loro horrido tratta Tosto vi corse : e giudicando quelli I più deformi che vedesse mai, Di lor satiossi alfin l’avido ventre Non senza doglia della sozza madre, Che di lontan con gran timor la scorse Devorar tutto il suo infelice parto : Tal che fuggendo poi colma d’affanno Al marito narrò l’horribil caso. […] Quinci l’Aquila inteso esser incorsa Nell’odioso errore a punto allhora Che più da quel credeasi esser lontana, Et sol per colpa del giudicio torto Del Guffo tratto dal paterno affetto A darle de’ suoi figli il falso segno ; Forte sen dolse : e si scusò con seco1 Del torto a lui contra sua voglia fatto. […] Così talhora l’huom, che da l’amore Di sé medesmo fatto in tutto cieco Stima le cose sue più, che non deve, Resta schernito quando più si crede Esser per quelle rispettato al mondo : E duolsi a torto del giudicio altrui, Che drittamente a sé contrario vede.
TROVÒ Il Drago una lima in mezo un campo ; E stretto da la fame allhor la prese Per divorarla non sapendo quale Cosa ella fosse : e mentre la stringea Tra duri denti indarno ritentando Di spezzarla sovente, e non potea Modo trovar, che quella a lui cedesse ; Dice ella : o sciocco, di te stesso fuori Ben sei, se stimi di poter far danno, Pur picciol danno, a la durezza estrema De’ miei ferrigni e ben temprati denti, A cui cede l’acciar più saldo e forte. […] Così devria colui lasciar le imprese, Che impossibili sono alle sue forze, Né contrastar con quel, ch’è più possente Di virtute e valor : che nulla acquista Chi l’huom combatte, ch’è di lui più forte. Ceda chi manco vale al più possente.
Onde esponendo sua ragion ciascuno Dinanzi a lei, che decidesse il punto De la difficultà fra loro nata, L’Aquila disse : Orsù fratelli andate A mostrarmi di ciò ragion più chiara Con l’opra del valor, che regna in voi. Che colui, che tornando a me con prova Maggior de le sue forze e del suo grado, Men darà indicio con più degno effetto, Colui da mia sentenza havrà la lode E de la maggioranza, e del valore. Così da lei partiti, ognun si mosse A quel tentar, che più potea sua forza : E dopo breve spatio a lei tornaro Ciascun mostrando a lei la preda fatta. […] E quanto più del Topo è la Colomba Degna d’honor, cotanto tu Sparviero Prevagli al Nibio d’ogni honore e merto. Così il giusto Signor, che tien in corte Diversa gente al suo servitio ; deve Sol prezzar più colui, che maggior segno Di valor mostra de gli effetti a prova : E non colui, che con sembianze vane Di cose esterior, che ingombran gli occhi, Cerca preporsi alla virtute altrui.
IL Gambero riprese un giorno il figlio Spinto d’amor de la maniera brutta, Ch’ei tenea nel nuotar sempre a l’indietro : Dicendo, che più bel parea quel corso, Che move ogni animal col capo inanti, Ch’è membro principal di tutto il corpo. Allhor il figlio, che veduto havea Il padre e tutti i genitori suoi2 Far sempre quello, ond’esso era ripreso, Disse : Padre, se vuoi, ch’io cangi stile, Mostrami prima tu di ciò la via ; Ch’io seguirotti, poi che quella norma Del vero caminar, che più t’aggrada, Appreso havrò dal tuo medesmo esempio : Perch’io non ho veduto, che giamai Habbi tu seguitato altra maniera ; Ond’io mi diedi a far quel, ch’imparai Da te, da gli avi, e da’ fratelli tuoi. […] Però devria colui, ch’altri riprende, Esser con l’opre ognihor norma a sé stesso Et con l’essempio de la buona vita Mover in prima, e poi con le parole Gli altri chiamar di quella al bel camino : Ch’a quel si ridurrian più facilmente, Persuadendo più l’opra, che ’l dire.
E tra le canne, che servian per muro De l’humile capanna d’un pastore, Di cece, e ghiande, che in più giorni accolse, Tutto contento, e pien d’amico affetto Gli fece lauta e copiosa mensa. […] A tal sermon colui, ch’era dal sonno, Ma molto più da la paura stanco, In cotal modo a l’hoste suo rispose. […] Ma ben dirò ; che m’è più dolce assai Roder la fava, o la tarlata noce Nel pover tetto mio lieto e sicuro ; Che in questo loco di paura pieno, E senza mai posar sicuro un’hora Gustar l’ambrosia, e ’l nettare di Giove. […] Se del savio di Frigia entro a lo specchio, In cui l’huom savio sé medesmo intende E riconosce il pazzo i proprii errori ; Mirate un poco, haver chiara potrete L’oscurità de le miserie vostre : Quinci del vero alfin fatti più accorti, E scorto di Virtute il bel camino, Fuor vi trarrete de l’error comune, Nel quale ognun precipitoso corre : Né stimarete l’oro, o ’l lucid’ostro, O le delicatissime vivande, Le feste, i giuochi, o i trionfali honori Contrapesati da continue cure, E da mille sospetti indegni et vili, Più, che la dolce amata libertade, Più, che l’almo riposo, e l’otio honesto Accompagnato da la gioia immensa D’una tranquillità grata e sicura, Che rende l’huomo in povertà beato. Dunque colui, ch’esser felice brama, Segua del Topo rustico la norma ; Che viverà nella più nobil forma Beato, e morirà con gloria et fama.
Et mentre si dibatte la meschina Più si sommerge et dentro a quello intrica, Come la sorte sua ve la destina. […] Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del suo mal forte si duole : Et poi le dice con parole humane : Ch’egli si trova in punto, s’ella vuole, Di scacciarle le mosche allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado facea, non potea trarla Se ben s’affaticasse più d’un giorno. […] Non far fratello : che poco più danno Far mi pon queste homai di sangue piene, Di quel ch’infin adhor sì fatto m’hanno. Che s’altro nuovo stuol di mosche viene, Affamate a la prima havranno a trarmi Quel poco, che mi resta entro a le vene ; Onde potrei più in fretta a morte andarmi : Tal che meglio è restar quel poco in vita Di spatio, che dal ciel sento lasciarmi.
Diceva il Pardo Vedi la pelle mia di varie macchie Con ordine e misura al par del cielo, Ch’è di stelle dipinto, adorna tutta Con tal vaghezza, che stupore apporta A qualunque la vede : e tal è ’l pregio Suo, che Baccho figliuol del sommo Giove Non si sdegna coprir le belle membra D’altra mai per lo più, che di tal pelle, Che tutta la mia specie adorna e veste. […] Se di beltà fra noi movi contesa Intender dei de la beltà più vera : La qual di quella parte esser s’intende, Che forma dona a l’animal vivente, Questa s’intende la bellezza interna, Non quella esterior, che d’accidente Esterior patir può sempre oltraggio ; E variando la primiera forma Divenir sozza a l’altrui vista e lorda. Però di questa a me ceder tu dei, Se non sei folle in tutto, ognihor la palma ; A me ; che quanto hai tu vario d’aspetto Il dorso tutto, ho vario e di colori Mille dipinto l’animo e l’ingegno Atto a fornir mille lodate imprese : E per ciò bella sono in quel, ch’importa Più, che la pelle facile a smarrire L’apparente beltà, ch’offender puossi : Onde la mia non può sentir offesa Mentre con essa mi riserbo in vita. […] Più bello è il bel del cor, che il bel del volto.
Ma crescendo più grave tuttavia L’ingiuria, che la Cagna le facea Con un parlar, che non havea risposta ; La Scrofa d’ira colma non sapendo Meglio risponder al parlar villano, Che la confonde, minacciosa dice. Io ti giuro per Venere o malvagia, Che se più dietro vai con tue parole Me, che non mai t’offesi, ingiuriando, La farem d’altro, che di ciancie alfine: Ch’io ti traffigerò l’invido fianco Con questo dente mio pungente e forte, Che fia risposta del tuo vano orgoglio. Allhor la Cagna il giuramento udito Sen rise, e via più forte la scherniva Dicendo : certo a te ben si conviene Tal giuramento d’osservanza degno : Poi che giuri per quella immortal Dea, Che t’odia sì, che ancora odia coloro, E prohibisce a i sacrificii suoi, Che de le carni tue vili et impure Si faccian pasto : anzi di più gli scaccia Dal suo bel Tempio come empi e profani.
IL Cerbiato chiedeva un giorno al padre Da qual cagione proceder potesse, Ch’ogni volta, ch’a guerra il can lo sfida, Egli sì facilmente in fuga volto Di lui solo al latrar desse le spalle, Essendo egli di corpo e di valore Maggior del cane, e con la fronte armata Di dure corna a contrastar possenti Con qual si voglia più forte animale. […] Io ben m’accorgo haver armi e valore Figlio da contrastar co ’l cane, e forse Con più d’un’altra più feroce belva : Ma non ti so già dir perch’io nol faccia.
UN Mulo già, che d’abondante biada Ben pasciuto era, e si godeva lieto Tutto, e lascivo un dolce ocio giocondo, Entrò folle in pensier tanto superbo, Che tra sé disse : Or qual di me più forte Vive animal in terra ? io già fui figlio D’un possente corsier, che con la sella D’argento, e con le briglie ornate d’oro Vinceva ogn’altro più veloce al corso, E gli huomini atterrava armati in guerra : E però tal esser convegno anch’io. Avenne poi che bisognò correndo Un certo spatio di lungo camino Viaggio far a suo malgrado in fretta : E da principio cominciò superbo Correr veloce come havesse l’ali : Ma non finì sì tosto a un tratto d’arco, O poco più lontan batter il corso, Che stanco si sentì con tanto affanno, Che bisognò fermarsi, e prender lena.
Pensi tu forse, che del regno il peso, Che tanto importa, sostener si possa Da la vaghezza esterior del manto Più, che da la virtù d’un saggio core, E da le forze d’un ardito petto ? […] Cedi, misero, cedi a un altro il peso Di tanto grado, che di te più forte Possa più degnamente in sorte haverlo, Con sicurezza di noi tutti insieme, E de la vita, e del tuo proprio honore. Non seppe a tai parole usar risposta Il Pavone, e restò tutto confuso : E gli altri a far si dier novella eletta D’altra persona di più nobil merto.
De laquale in più assalti il Cervo sempre Restò vincente per la gran fortezza, Ch’in fronte havea de le ramose corna. […] Il Cavallo ciò inteso, e dal desio Di vincer l’inimico in ogni modo Già cieco fatto a scorger più lontano Di queste conditioni il dubbio fine, Fé ciò, che volse l’huom : lasciossi porre E sella e briglia ; e nel condusse in parte, Ove fra poco spatio il Cervo altiero Da le fort’armi, e da l’ingegno humano Alfin restò miseramente ucciso. […] Così talhora un huomo, ch’è men forte Del suo nimico, e che soccorso chiede Ad huom, che più del suo nimico vale, Dopo le sue vittorie alfin rimane De la sua propria libertà perdente : Che quel, che vinto ha il suo nimico, ch’era Di lui più forte, assai più facilmente Può vincer lui, di cui già possessore Si sente, e haver tutte le forze in mano ; Né vuol haver per altri indarno speso Il valor proprio : ché raro si trova Chi per un altro il suo metta a periglio, Senza speranza di guadagno haverne.
STUPIDO il Porco disse un giorno al Cane : Non so, caro fratel, perché tu stai Vicin sempre al patron, che spesso spesso Ti batte, e più tu l’accarezzi ognihora : Tal ch’io, che mai da lui non sento offesa, Anzi nutrito son due volte il giorno, Non me ’l posso giamai veder da presso Con cor sicuro, pur temendo quello, Che tu provato ognihor par che non temi. […] Mi percuote il patron tal volta il dosso, Non per odio, o dispetto, in ch’ei mi tenga ; Ma per amor, ch’egli mi porta, e farmi Di quello instrutto, ond’io possa esser atto Ne i suoi servigi, e più felice farmi. Quinci avien poi, che seco andando a caccia Mi rendo pronto a mille belle imprese : E mi pasco di starne, e di fagiani, E di mille altri cibi ottimi e rari : Tal che dolce mi sembra ogni percossa, Ch’io da lui sento a mia dottrina darmi ; Perch’utile et honore alfin m’apporta, Ond’ho cagion di starmi a lui vicino : Ma tu bene a ragion fuggirlo dei, Et più quando egli ti nudrisce et pasce Di miglior cibo ; perché allhor s’appressa (Né vorrei dirlo) di tua vita il fine ; Quando egli ha gran piacer, che tu t’ingrassi, Stando in quiete, e in dolce almo riposo Per goder poi de le tue carni un giorno.
Tal l’huomo astuto suol quel, ch’ei più brama, Spesso sprezzar, se da accidente strano Reso gli vien dal suo pensier lontano Quel, che più d’acquistar s’industria, et ama.
Poi ch’est’altro è un più bel pezzo Certo, et maggiore che non è la mia, Questa voglio lasciar, e quella prendere, Che mi potrà più satio e lieto rendere.
Più tosto voglio esser da voi schernita, Temendo in van del mal falsa cagione, Che stando in gran pericol de la vita Dar di piangermi a’ miei vera ragione. Più grave appar, che la vergogna, il danno.
AVENNE un dì, che ’l semplice Asinello Per camino incontrando il fier Cinghiale, Qual pazzo incominciò ridersi d’ello, Per non haver più visto un mostro tale : Ond’ei gli disse : Segui, pur, fratello, Di me burlarti, poi ch’assai ti vale L’esser sì vile, e di sì sciocco ingegno, Che d’oprar mio valor teco mi sdegno. […] Dunque ciò noti ognun, ch’esser si sente Di cor gentile, e di virtute adorno : E freni l’ira con la bassa gente, Che talhora gli mova ingiuria, e scorno : Perché chi di valore è più possente, E di fregi d’honor cinto d’intorno Spendendo le sue forze in vil figura, La sua virtute, e la sua gloria oscura.
UN huom di Villa e un Satiro silvestre D’assai stretta amicitia eran congiunti, Ma non però di conversar frequente : Onde acciò più crescesse il loro amore Cominciaro anco ad habitar insieme. Et sendo un giorno a la campagna usciti Su la stagion del più gelato Verno ; L’huom, che dal freddo havea le man sì morte, Che risentir non le poteva a pena, Spesso col fiato ravvivar solea Il quasi spento in lor natio calore. […] Frate dapoi, che da tua bocca io veggio Il caldo, e ’l freddo uscir con egual modo, Non vo’ più consentir d’esserti amico ; E dal tuo conversar tosto mi toglio.
Così colui, ch’è da l’amico offeso, Sente più grave assai di ciò l’affanno, Che non il duol de la medesma offesa : Che quando l’huom d’altrui favore aspetta, Se ’l contrario n’avien, tanto maggiore Di quell’ingiuria ogn’hor sente la doglia, Quanto minor di lei fu la speranza. L’offesa de l’amico appar più grave.
Ma quella, che più saggia era di lei, E di più lunga esperienza accorta, Così rispose al temerario invito.
Così fa spesso l’huom d’ingegno e forza Dotato in concorrenza di colui, Che molto inferior di ciò si vede, Quando opra tenta, onde l’honore importi ; Che confidato nella sua virtute Pigro dorme a l’oprar continuo e lungo, Sperando in breve spatio avanzar tutte Le fatiche de l’altro, e ’l tempo corso : Né s’accorge, ch’un sol continuo moto, Benché debole sia, giunge al suo fine Più tosto assai, ch’un più gagliardo e lieve, Che pigro giaccia, che la confidenza A la sciocchezza è figlia, e a l’otio madre ; Onde ne nasce l’infelice prole Biasmo, e vergogna, e danno in ogni tempo. Quinci con gran suo scorno intende e vede Il suo rival, che debole seguendo Con un continuar facile il passo Nel camin di virtù, ch’a honor conduce, A sé stesso precorso, e tor di mano De la vittoria la felice palma Da le fatiche de’ suoi lunghi studi A poco a poco assai più forte reso : Ond’ei quasi perduto haver si sente Quell’antico vigor, ch’ardeva in lui Per colpa sol de la pigritia nata Da la sua negligenza infame e stolta, Che pieno il fa d’un pentimento vile, E d’una doglia sì malvagia e poltra, Che non sa cominciar cosa che voglia, Vedendo sé di sotto di gran lunga A molti e molti, ch’ei nulla prezzava : E tutto il resto di sua vita vive Con tedio estremo assai peggio, che morto, Senza speranza haver d’honore alcuno.
Et per più non soffrir la pena acerba Prese partito di chiederla al padre, Che per sua sposa a lui la concedesse. […] Udito ciò il Leon, benché assai dura Cotal condition pur le paresse, Ma forse ragionevole, concluse Alfin tra sé di voler prima i denti Perder, e l’ugne, che star vivo senza Colei, che più, che ’l viver proprio amava. […] Ma il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leone, Che non haveva più l’ugne, né i denti, Non solo di negargli hebbe ardimento La figlia, ch’egli li chiedea per moglie ; Ma con un grosso fusto lo percosse Si fieramente nel superbo capo, Ch’a terra lo mandò stordito, e poi In pochi colpi gli levò la vita : E sciolto andò da tal impaccio e briga.
Talché la Volpe, ch’era homai vicina Per annegarsi, et altro a fare havea, Che spender seco più parole in vano, Disse : ah fratello trammi pur di questo Pozzo fin che puoi farlo e sana e viva, Che poi ti conterò più adagio il fatto, E come e quando, oimè, misera, avenne, Ch’io sia sicura dal presente affanno.
E dicendo così più tra sé stesso, Che fermatosi a quel, che l’aspettava, Senza degnarlo pur d’un guardo solo Ratto fuggendo seguitò suo corso. […] Così talhora un huom, che poco vaglia, Battaglia move a l’huom di lui più forte, E prende ardir da le miserie note Di far ingiuria al misero, che oppresso È da cura maggiore, onde si vanta Poi vanamente de le proprie forze, Mentre colui, che a maggior cose attende, Senza difesa far nol cura, o stima.
UN Vecchio contadino ito a far legna Nel bosco assai da sua stanza lontano Tornava a dietro d’un gran fascio carco : E stanco homai dal troppo grave peso, Da la lunga fatica, e dal camino, Ma molto più da i molti giorni et anni, Che gli premean di doppia soma il fianco, Al mezo de la via su la campagna La sarcina lasciò cadersi a terra Per riposar l’affaticate membra Sotto l’ardor del caldo estivo Sole. […] E come quel, ch’a tedio havea la vita, Piangendo e sospirando ad alta voce Più d’una volta richiamò la Morte.
Così più giorni fece insin che venne L’astuta Volpe, che da un poco sangue, Che vedea presso a lui, sospetto prese, E più oltre passar non volse prima Che ’l salutasse, e da la sua risposta Meglio congietturar potesse il fatto : E tosto accorta a salutarlo prese Lontana un poco per mostrar gran doglia Del suo languire sospirando alquanto ; E a dirle del suo stato lo pregava. […] Rispose ella : Signor mi doglio assai De le vostre sciagure, et lo sa Dio : Ma di venir più avanti ho gran sospetto, Vedendo tutte le vestigie altrui De la spelonca incontra l’uscio volte, E nessuna guardar verso l’uscita : Ond’io fo stima molti esservi entrati, Né fatto haver alcuno indi partita : Però lasciovi in pace ; e se mai posso Farvi servigio, che in piacer vi sia, Farollo volontier, ma da lontano.
Ma quando satia fu, sì grosso il ventre Trovossi, che non hebbe il modo mai D’uscirne, e si dolea la notte e ’l giorno : Né restava però di mangiar sempre De’ polli il resto quando le parea Che fusse di cenar la solita hora ; Tal che ognihor più ingrassava, e venia gonfia, E inhabile ad uscir di quella stanza, Dove aspettava adhor adhor la morte, Se di quella il patron vi fosse entrato. […] Così fa l’huom, ch’ognihor vivuto sia In mediocre stato, onde quieta Menò sua vita, e senza alcun travaglio, Quando d’alta fortuna in su la ruota Siede pensoso, e di travagli pieno : Ché quanto ha più de le ricchezze in mano, Tanto l’affanna ognihor cura maggiore.
E volendo di ciò far nova scusa L’innocente animal con dir più basso, Ma con ragioni più possenti e salde, Il Lupo iniquo, che già in sé confuso Era rimaso, adosso al miser corse ; E divorollo con disdegno e rabbia.
Così spesso l’huom vil la lingua move Con gran bravura, e porge altrui spavento Senza vera cagion ; ché tanto offende, Quanto ferisce de la voce il suono : Né più oltra può far di quel, che ’l vento Opra, che le parole in aria sparge. […] Chi meno val, più di parole abonda.
E mentre dubbio con tremante core Tentava in ciò la più sicura via, Ecco lontan da mezo il largo humore A lui tosto gridar con rauca voce, Ch’ei l’aspettasse, una loquace Rana : Che allhor mirando gli atti, ch’ei facea, Haveva il fin del suo pensiero inteso : Et aprendosi il calle innanzi ognihora Con le man pronte, e rispingendo a dietro Spesso con ambo i piè la torbid’onda, A quello si condusse in un momento. […] Or mentre quella al fondo, al sommo questo Si ritraheva con egual valore, Nessun cedendo a le contrarie forze, Un nibio, che di là passava a caso Da l’appetito de la fame tratto Ambo li prese ; et per satiar di loro L’avido ventre, da la rana in prima, Che più molle che ’l topo havea la pelle, Tosto si cominciò render satollo.
Veduto ho, madre, mentre a spasso i’ andava Due animali ; l’uno è di colore Simile al tuo nel pelo, ma distinto Di varie macchie di color più oscuro : Sembran di lucid’oro i suoi begli occhi, Che sono al rimirar tutti pietosi : Ha quattro piedi, et una lunga coda Di vario pelo tinta insino al fine. Et (quel che più mi piace in esso) è tanto Mansueto al veder, tanto gentile, Ch’a la mia vista non si mosse punto ; Anzi fermossi in atto humile e pio Quando mi vide, e mi diè gran baldanza D’andargli presso, havendo io gran desire Di meglio figurar suo bel sembiante. […] Sappi, che l’animal, che tanto humile Prima ti parve, e di bontà ripieno, È il più malvaggio, che si trovi in terra, Perfido, iniquo, fiero, discortese, E di tua specie natural nimico : E sol ti si mostrava in vista humano Sol per assicurar tua puritade Di farsegli vicina, onde potesse Dapoi satiar di te sua ingorda fame.
La gente, che ti compra, e al collo porta, Potria prezzarti ; io no : che stimo quello, Che la fame mi trahe per via più corta.
DELL’AQUILA, ET DELLA VOLPE L’AQUILA altera, et la sagace Volpe Già di stretta amicitia unite insieme D’insieme anco habitar preser partito, Sperando pur che ’l conversar frequente Crescesse in lor di più sincero affetto La carità de l’amicitia nova. […] Et colui, ch’una volta, o più da tale Riceve a torto in alcun modo offesa Quando gli è data occasion sovente Fa de le havute ingiurie aspra vendetta.
Certo io sarei da chi più mi conosce Tenuta pazza, se ciò far volessi, E lasciar le mie cose irsene a male, Attendendo a l’altrui con tanta noia. […] Dunque, s’io son Re vostro, a l’ombra mia Correte tutti ; e se tardate a farlo Qual poco ubidienti a’ miei mandati, Farò del tronco mio tal fiamma uscire, Che tutti v’arderà senza pietate, Sì che ne tremeran malgrado loro Le Quercie antiche, e i più sublimi Cedri, Che dal Libano monte al Ciel sen vanno.
Quanto ei feroce, e più possente hor fia Havendo giunto al natural valore Il tremendo furor de la pazzia ?
GIÀ dentro un’olla, che di carne piena Era d’alesso nel tepido humore Bolliva al foco, nell’humor fervente Entrò la Mosca da la gola tratta Del grasso cibo, che nuotar vedea : Del qual dapoi, c’hebbe satiato a pieno L’ingorda brama, e ’l temerario ardire, Venne sì gonfia del mangiato pasto, E di quella bevanda a lei soave, Che non potea levarsene, e cadendo Anzi più in mezo del liquor profondo De la vicina morte in mano andava ; Onde vedendo non poter fuggire L’odiato fin de la penosa vita, Cominciò confortarsi in cotal guisa.
Or visto il Contadin, che invano havrebbe Fatto ogni prova per voler seguirlo ; Di ricovrarlo non havea più speme ; E dirgli incominciò così gridando.
Ma perché quel di terra assai più lieve Scorrea sicuro ; l’altro, che temea Per la gravezza sua girsene al fondo, Cominciò con parole affettuose A pregar l’altro in lusinghevol modo, Che d’aspettarlo non gli fusse grave : Et legatosi seco in compagnia Volesse far quel periglioso corso : Onde l’altro gli diè simil risposta.
A cui rispose una di lor più accorta.
E quella rispondendo esser contenta Patir più tosto ogni crudel disagio, Che mai lasciar quel loco, in cui già nata Gran tempo si vivea tranquillamente, Rese alfin vano il suo cortese invito.
Tal che più d’un, che la fatica vana Scorgea di lui da carità commosso Gli ricordava con parlar cortese, Che per trovarla a la seconda andasse Del corrente liquor, che in giù trahea.
Il Cigno allhor per naturale istinto Mosso a cantar co’ più soavi accenti, Che possa di sua vita a l’ultime hore, Visto già il ferro de la morte autore, Et esser preso da l’infesta mano Di quell’huom rozo e di pietate ignudo, Nel cor piangendo a cominciar si diede Così leggiadro e dilettoso canto, Ch’a quello il Cuoco del suo errore avvisto Il riconobbe al primo suono, e tosto Lasciollo in pace, e diè di mano a l’Occa.
Il che fatto più volte alfin commosso Da la pietà del suo grave lamento Sceso dal Cielo sopra un nuvol d’oro A lui mostrossi il glorioso Alcide, E cominciò parlargli in cotal guisa.
CON solecita cura il fier Cinghiale Attorno il duro piè d’un’alta quercia Rendeva i denti suoi più acuti e lisci, Per oprarli per arme a’ suoi bisogni : Onde la Volpe ivi passando a sorte Lo domandò per qual cagion prendesse Cotal fatica poi ch’ei non si vede Haver di guerra occasion presente.
PASCEANO insieme l’Asino e ’l Vitello L’herba novella in un medesmo prato Tutto di varii fiori ornato e bello : E sentito lontan più d’un soldato Avicinarsi con feroce suono Disse il Vitello : Or vedi un campo armato ; E però parmi, che sarebbe buono Torci di questo loco periglioso, Né il fulmine aspettar udito il tuono.
Ma alfin levossi un, che più etade e senno Havea de gli altri, et disse in questo modo.
Onde tornando i cacciatori allhora Per quel confine, e non essendo ascosa La Cervia più da la spogliata vite, La vider tosto : et mentre ella seguiva Senza sospetto in ben satiarne il ventre La saettar con un pungente strale, Che da l’un fianco a l’altro la trafisse.
Che giunta in breve per le vie più corte De i can la torma a lui, ch’era intricato, Con fiero stratio ne ’l condusse a morte.
Vince più cortesia, che forza d’armi.
Lasciale dunque, e non pensar giamai Di premio haverne usando atto gentile ; Ché se ben cortesia merita assai ; Chi per natura è rio non cangia stile : E per buon’opra rende pene e guai, Et è superbo a quel, che gli è più humile : Né può placar un beneficio pio Un cor, che nato sia crudele e rio.
Prendasi pur ognuno, o sommo Padre, De gl’immortali Dei qual più gli aggrada Inutil pianta del suo pregio insegna, Ch’io quanto a me, cui sempre giova e piace L’honor goder con l’utile congiunto, M’eleggerò la pretiosa oliva, Di cui voglio esser protettrice amica.
Ond’ella accorta da l’altrui ruina Quasi tutta la preda in un raccolse, Per farla del Leon debita parte ; E presentolla a la superba fiera ; E poco più di nulla a sé ritenne.
Così devrebbe ognun fidarsi in Dio, Né chieder più da lui quello, che questo : Ch’ei, cui nostro bisogno è manifesto, Quel, che convien, ci dà benigno e pio.
E credendo poter giunger a questo Se forte si gonfiava il picciol ventre, Subito cominciò gonfiarsi tanto, Che ’l suo figliuol, che la mirava in questo, De la sua morte assai temendo disse : Deh cessa madre, da la folle impresa, Ché se più segui torneratti in danno E de l’honore, e de la vita insieme.
Soggiunse il Gatto allhor : bench’io potrei Gettar a terra con ragion possente Queste tue scuse vane, inutilmente Non voglio perder la fatica e ’l tempo : Ma passerò più avanti rimembrando L’altre tue colpe di castigo degne.
Così l’huom savio e di prudenza adorno Far dee qualunque volta si ritrova Del proprio stato in gran periglio posto : E secondo il bisogno e l’occorrenza Cangiar nell’oprar suo sermone e stile : E servirsi hor di questa, hora di quella Forma di ragionar, che più ricerca La propria occasion di sua salute Ne i simili accidenti, e ne i diversi.
Ella pur dice, e ognun le crede meno Quanto più con ragioni aperte e vive Mostra il lor viver di periglio pieno.
IL Cane e ’l Gallo un gran viaggio insieme Presero a far per varii boschi e ville Passando per dar fine al lor camino : Ma non giungendo al destinato loco Prima che nascondesse il Sole il giorno, Fra lor fecer pensier di far dimora Per quella notte, fin che ’l novo albore Rendesse il lor camin via più sicuro.
Udito ciò la Volpe, che credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più non dimorar con suo gran danno Oltra lo scorno, ch’avanzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece.
Ma quando più l’ardor del mezo giorno Scaldava i campi, et aspettato indarno Gran pezzo haveva gli invitati amici A la sua stanza quel padron del campo, Alfin col suo figliuol venne in su ’l loco Per veder se gli amici ivi trovava Forse in far l’opra, a ch’ei gli havea pregati.
Subito diede a tal consiglio orecchio L’huom rozo, e gli parea questo il più saggio, E d’huom, che fosse di prudenza specchio.
Préface de la première édition Je me propose de publier, en faisant précéder les textes de leur histoire et de leur critique, tout ce qui reste des œuvres des fabulistes latins antérieurs à la Renaissance. C’est une vaste tâche que personne encore ne s’est imposée, et qui, je le crains du moins, m’expose à être un peu soupçonné de présomption. Pour me prémunir contre un pareil soupçon, je désire expliquer comment j’ai été conduit à l’assumer. De tous les auteurs anciens qui guident les premiers pas de l’enfant dans l’étude de la langue latine, Phèdre est celui qui lui laisse les plus agréables souvenirs. Ses fables sont courtes, faciles à comprendre et intéressantes par l’action qui en quelques vers s’y déroule.