LA Testuggine un dì vistosi presso L’Aquila, che dal cielo era allhor scesa, Per riposarsi sopra il verde piano, Venne in gran voglia di poter volare Per provar quel piacer, c’haver pensava Gli augelli di passar per l’aere a volo. E tosto a pregar l’Aquila si diede Che le piacesse d’indi trarla seco A i superni del cielo immensi campi Per darle il modo, onde volar potesse. […] Ma non valse ragion, che s’adducesse, Per torla giù di quel cieco desio, Che ’l lume di ragion cacciava al fondo ; Sì che costretta da un pregar noioso L’Aquila alfin per contentarla prese Quella su ’l dorso fra gli adunchi artigli ; E quanto pote alto levossi a volo.
Ma per ben ch’ella alzasse i piè dinanzi Lungo il troncone, et saltellando andasse Per arrivar a quel pendente cibo, Però mai non ne giunse un picciol grano. […] Lasciala pur, ch’ella non è matura, Per gl’immortali Dei ch’io non ne voglio ; È troppo acerba, e di spiacevol gusto.
VOLEAN d’accordo gli altri arbori tutti Che l’Uliva di lor l’imperio havesse : Ma quella, che di sua sorte contenta Già si viveva una tranquilla vita, Non volse acconsentir d’haver tal carco ; E così disse : ben pazza sarei S’io, che de le mie frondi e grasse e belle Sì, che son care a gli huomini, e a gli Dei Ho sol la cura, che lieta mi rende ; Volessi abbandonar le cose mie Per macerarmi e giorno e notte sempre Ne i tristi affanni de l’altrui governo. […] Così risolti al Fico se n’andaro Per dar a lui di tal honor la soma. Et ei rispose lor : mai cangiarei La cura, c’ho de’ miei soavi frutti, Che vincon di dolcezza il flavo mele, E ’l nettare, che in ciel gustan gli Dei, Per quell’affanno sopra ogni altro amaro, Che seco tien d’altrui regger la cura Sotto il sembiante d’un pregiato honore. […] Ma quella, che già tutta era d’intorno Coperta d’uva ben matura e bella, Lor disse : dunque vi credete ch’io, Che di tanta ricchezza allegra vivo De’ frutti miei con mio grande ornamento, Onde il cielo e la terra in pregio m’have, Possa sì facilmente al suon piegarmi De’ preghi vostri, benché d’honor pieni, Ch’io lasci di Natura un tanto dono, Che felice mi rende in ogni tempo ; Per prender poi così noiosa cura, Che non mi lasci un dì viver contenta ?
Deh come sarà mai, figlio diletto, Che sieno udite le preghiere mie, E i voti, ch’io per te porga a gli Dei ; Per te, che sempre de i lor sacri altari Le vittime predando, e di brutture Contaminando i puri alberghi santi Per mille ingiurie di vendetta degne Sei fatto odioso al lor benigno nume ?
IL Gatto entrato in un cortivo prese Un Gallo, e disegnò di darli morte Sotto alcun ragionevole pretesto, Per mangiarselo poi tutto a bell’agio, Per ciò le disse. […] Rispose a questo il Gallo : il tutto è vero : Ma lo faccio io per mantener del nostro Seme la specie ; et arricchir colui, Che m’è padrone, e mi nutrisce in casa Per questo effetto, et poi sforzato il faccio, Ché così dal padron mi vien imposto Non mi dando altri de la specie mia Da conservar, et ampliar la prole, Che le sorelle, e le figliuole, e anchora La madre stessa ; sì che a torto incolpi Me de l’altrui peccato, e a torto accusi Del ben, che tanto reca utile altrui.
PORTAVA il Contadino a la cittade Un lepre morto, c’havea preso dianzi, Per farne, in su ’l mercato alcun guadagno. Ma trovatolo a sorte uno a cavallo, Che gli venia da la cittade incontra, Di volerlo comprar sembianza fece : E prendendolo in mano, e ponderandol Per farne stima, lo chiedea del prezzo, Quando l’astuto in un medesmo punto Toccò di sprone il suo destrier veloce, E a sciolta briglia in fuga il corso prese.
TROVÒ Il Drago una lima in mezo un campo ; E stretto da la fame allhor la prese Per divorarla non sapendo quale Cosa ella fosse : e mentre la stringea Tra duri denti indarno ritentando Di spezzarla sovente, e non potea Modo trovar, che quella a lui cedesse ; Dice ella : o sciocco, di te stesso fuori Ben sei, se stimi di poter far danno, Pur picciol danno, a la durezza estrema De’ miei ferrigni e ben temprati denti, A cui cede l’acciar più saldo e forte. […] Sentì ciò il Drago, e come quel c’havea Lungamente provato indarno ogni opra Per farne stratio, alfin cangiò pensiero : Et cedendo lasciolla in pace starsi.
L’AQUILA stanca dal continuo volo Per posar sopra un sasso al pian discese : D’onde un uccellator, ch’ivi la vide, E la prese di mira, alfin la colse Con un pungente stral da l’arco spinto Mentre ella stava per gettarsi intenta Dietro a una lepre, e farne alta rapina. […] Et veduto lo stral tutto nascoso Nell’intestine del suo proprio ventre, S’avvide ancor, che de lo stral le penne De l’ali proprie sue furon già parto : E non tanto si dolse esser traffitta Per giugner di sua vita in breve al fine, Quanto che di veder l’ali sue stesse Esser ministre a lei di tanto danno.
Or venne un giorno il Cuoco Per apprestarne le vivande usate Al suo Signor : e col coltello in mano In iscambio de l’Occa il Cigno prese Per farne la cucina, error prendendo Da la sembianza de le bianche piume. […] Et via portolla : e quel sciolto rimase Per sua virtù da l’accidente strano.
Così quel servo fa, che del conservo Non ha pietade : et non consente in parte Talhor levargli del suo ufficio il peso Per picciol tempo : onde ne nasce poi Che la soma di quel sopra lui cade Tutta, né trova chi gli porga aiuto Per giusta ira del ciel, che lo permette.
GIVANO molti Lupi in compagnia Per poter meglio far preda sicura, E ’l Corvo astuto gl’incontrò per via : E disse : Il ciel vi dia buona ventura, Fratelli cari : se ’l vi piace, anch’io Compagno vi sarò con dolce cura. […] Non piaccia a Dio, Ch’io nel3 consenta mai : perché tu sei Per natura, et per arte iniquo e rio.
Talché la Volpe, ch’era homai vicina Per annegarsi, et altro a fare havea, Che spender seco più parole in vano, Disse : ah fratello trammi pur di questo Pozzo fin che puoi farlo e sana e viva, Che poi ti conterò più adagio il fatto, E come e quando, oimè, misera, avenne, Ch’io sia sicura dal presente affanno. Così spesso intervien, che dove alcuno Dovrebbe oprar la man tosto e l’ingegno Per condur l’opre d’importanza a fine, Sta vaneggiando a consumar il tempo Dietro a parole, e quel, che meno importa, Al vero fin de la bramata impresa Con danno de gli amici et sua vergogna.
Però qualunque volta iva per cibo Da lor lontana la provida madre Lor avvertiva con pietoso affetto, Che se cosa occorresse a lor d’udire, Ch’a l’orecchie di lor nova paresse, Se la tenesser con gran cura a mente Per riferirla al suo ritorno a lei. […] Il giorno dopo andò la madre anchora Per procacciarne a i figli esca novella : Né apparve in tanto metitore alcuno. Ma quando più l’ardor del mezo giorno Scaldava i campi, et aspettato indarno Gran pezzo haveva gli invitati amici A la sua stanza quel padron del campo, Alfin col suo figliuol venne in su ’l loco Per veder se gli amici ivi trovava Forse in far l’opra, a ch’ei gli havea pregati. E non vedendo esser venuto alcuno, Disse al figliuolo : Va’ figlio dimane E tosto invita ogni parente nostro, Che ci servino in ciò de l’opra loro Per la mattina del seguente giorno.
Quinci esso ancor per far prova maggiore Con strepito et stridor ratto si cala Sopra un grosso monton ; nel folto velo Di cui poscia il meschin l’ugne intricando, L’ugne mal atte a così gran rapina, Per prender altri alfin preso trovossi. Perché il Pastor veduto lui su ’l dorso De l’animal in van batter le penne Per liberarne gl’intricati piedi, V’accorre ; il prende ; e i troppo audaci vanni Trattogli a sua maggior vergogna e danno A i fanciulletti suoi per giuoco diede.
Dunque perché ti perdi indarno il tempo, E le vittime insieme, e la fatica, Per non trarne giamai profitto alcuno ? […] Io so, fratello, e ben mi tengo a mente Quel, che tu detto m’hai de l’odio antico, In cui sempre mi tien l’irata Dea ; Ma non voglio però darle risposta D’affetto tale : anzi con cor humile Pregarla sempre, e con giusta pietade Renderle honor quant’io posso maggiore, Per veder se placar posso lo sdegno Del suo superbo cor sì in me crudele : E con carezze mitigar l’offesa, Ch’ella m’ha fatto, e può farmi maggiore.
UN Vecchio contadino ito a far legna Nel bosco assai da sua stanza lontano Tornava a dietro d’un gran fascio carco : E stanco homai dal troppo grave peso, Da la lunga fatica, e dal camino, Ma molto più da i molti giorni et anni, Che gli premean di doppia soma il fianco, Al mezo de la via su la campagna La sarcina lasciò cadersi a terra Per riposar l’affaticate membra Sotto l’ardor del caldo estivo Sole. […] Così molti lontan chiaman la Morte, Che quando se la senton poi vicina Fuggon tremando con la faccia china Per non provar di lei la dura sorte.
L’astutia fu, ch’un dì passando il Corvo Vicino a la sua grotta, a sé chiamollo Con debil voce, e con sermone humile Il mosse a gran pietà de la sua sorte : Et lo pregò, ch’ei divulgasse tosto De la sua morte già vicina il nome, Per cortesia fra gli animali tutti, Che facevan soggiorno in quel paese : Che, essendo esso lor Re, debito loro Era di visitarlo, e ritrovarsi Ciascun l’ultimo dì de la sua vita Per honorarlo de l’esequie estreme ; E ch’ei gran voglia havea di rivederli, E dir a chi l’amò l’ultimo vale : E testamento far per far herede Alcun di lor del destinato scetro. Dunque ubidillo il Corvo, e sparse intorno Tosto di ciò l’ingannatrice fama Tal che di giorno in giorno andava a quello Alcun de gli animai da quel confino Come inteso l’havea tardi o per tempo Per visitarlo : ma quando a lui presso Se lo vedea il Leon, che ’l mezo morto Fingea, l’unghiava con le zampe adunche, E lo sbranava, e ne ’l rendea suo pasto.
Quinci son gita in molte e varie parti Per ricercar de’ medici il consiglio, E tutti ho scorso i Tempii de gli Dei, Per haverne di voi la medicina ; Laqual per buona sorte ho alfin trovata.
UN Topo giovinetto uscì del buco, Ove la madre non prima ch’allhora Lasciato havea dal primo dì ch’ei nacque ; Et incontrossi a caso in un Galletto Et in un Gatto, che tosto che ’l vide S’appiatò cheto in mezo del sentiero Per aspettar il Topo, che pian piano Incontra gli venia per suo diporto : E farne ad uso suo di lui rapina. […] Da cui già spaventato il picciol Topo Per l’importuno et improviso moto Diede a fuggirsi, e tornò tosto dove Trovò la madre di sospetto piena, Che la cagion del suo fuggir li chiese : Ond’ei tremando a lei così rispose. […] Io dal timor, ch’ei non mi divorasse, Mi posi in fuga : et ei mai non restossi Di seguitarmi pien di gridi e rabbia Per fin che salvo a te pur mi condussi.
Per ea enim suauissimis perdicum coturnicumque carnibus uescor. » Hæc fabula nos monet, ne iniquo feramus animo præceptorum uerbera, quæ multorum bonorum causa esse consueuere.
Così d’accordo cominciò calarsi Verso quel pellegrin soffiando forte Quanto potea da mille parti intorno Per levargli il mantel, che indosso havea. […] Ma dopo breve spatio assai più fiero Mostrando seco il Sol l’intenso ardore, Tutto di sudor carco, e vuoto quasi Di spirto, et di vigor di mover passo, Stanco depose la noiosa veste, Lasciandola tra via fra certe vepri Per non lasciar in quel camin la vita : Così di voler proprio abbandonolla Con speme di poter forse trovarla Al suo ritorno nel riposto loco : E ’l Sol di quella impresa hebbe l’honore.
IL Cane e ’l Gallo un gran viaggio insieme Presero a far per varii boschi e ville Passando per dar fine al lor camino : Ma non giungendo al destinato loco Prima che nascondesse il Sole il giorno, Fra lor fecer pensier di far dimora Per quella notte, fin che ’l novo albore Rendesse il lor camin via più sicuro. […] Ma poi ch’apparve in Oriente il raggio Del matutino Sol con lieta voce Diede il Gallo principio al canto usato : E replicando diè di sé novella A la Volpe, che poco indi lontana Havea ’l suo albergo : et tosto al canto corse Dove era il Gallo ; et con parole amiche Salutollo ridendo, e supplicollo Con sermon efficace, ch’ei volesse Scender del tronco, ov’egli alto sedea, E benigno di sé copia facesse A lei, che forte del suo amor accesa Già si sentia del suo leggiadro aspetto, E de l’alta virtù del suo bel canto : Onde abbracciarlo come caro amico Ella voleva, et nel suo albergo trarlo Per fargli a suo poter cortese accetto.
Or dato il segno, onde ciascuna havesse A cominciar il destinato corso Per giunger tosto a la prefissa meta, La Lepre, che colei nulla stimava, Si fé di mover piè sì poco conto Vedendo la compagna tanto lenta, Ch’a gran fatica par che muti loco, Che addormentossi ; confidando troppo Nella velocità del presto piede Tutto l’honor de la presente impresa. […] Quinci con gran suo scorno intende e vede Il suo rival, che debole seguendo Con un continuar facile il passo Nel camin di virtù, ch’a honor conduce, A sé stesso precorso, e tor di mano De la vittoria la felice palma Da le fatiche de’ suoi lunghi studi A poco a poco assai più forte reso : Ond’ei quasi perduto haver si sente Quell’antico vigor, ch’ardeva in lui Per colpa sol de la pigritia nata Da la sua negligenza infame e stolta, Che pieno il fa d’un pentimento vile, E d’una doglia sì malvagia e poltra, Che non sa cominciar cosa che voglia, Vedendo sé di sotto di gran lunga A molti e molti, ch’ei nulla prezzava : E tutto il resto di sua vita vive Con tedio estremo assai peggio, che morto, Senza speranza haver d’honore alcuno.
E mandan me per messaggiera intorno A publicar d’un tanto ben la fama Fra quanto può girar questo paese, Com’anchora mandato hanno altri messi In altre varie parti de la terra, Perché ognun vada al destinato loco Per allegrarsi co i novelli amici ; E giurar fedeltade e buona pace Con gli altri, che là giù soggiorno fanno. […] Udito ciò la Volpe, che credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più non dimorar con suo gran danno Oltra lo scorno, ch’avanzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece.
Il che vedendo allhor la Volpe offesa Per far de la sua prole alta vendetta Sopra di quelli immantinente corse ; E inanzi a gli occhi de l’altera madre Devorò ingorda i pargoletti figli. Così fra noi mortali avenir suole, Che chi de l’amicitia i sacri patti Per non degna cagion profano rompe, Quantunque de gli offesi amici al tutto Possa schivarsi da l’ultrice mano ; Non è però che col girar de gli anni Schivar possa di Dio la giusta spada.
Ma quando il Sol col mattutino raggio Lucido e chiaro in Oriente apparse, Il Topo Cittadin l’altro destando Per gran desio, c’havea di farsi honore, L’invitò a cena a le paterne case : Ove alfin giunti dopo lunga via Su l’hora prima de la notte oscura Entraro stanchi al buio in ampio loco, Che d’un palazzo era terreno albergo, Tutto odorato di soavi cibi, Onde abondante era d’intorno e pieno. […] Ma non sì tosto prima gli assaggiaro, Che con romor, che gli rendeo sospesi, Ecco scuotendo mille chiavi, e l’uscio Subito aprendo con un lume in mano Il maestro venir de la cucina Per porre in salvo certe altre vivande, Che pur dianzi levate havea di mensa. […] Voi, cui posto ha la cieca instabil Dea De le terrene cose in mano il freno E voi, ch’a più poter veloci andate Con sommo desiderio a i regii alberghi Per vender sol la libertà e la vita Ciechi o dal fumo de l’ambitione, O dal vano splendor del lucid’oro ; Deh raffrenate la superbia, e ’l fasto ; Deh misurate i passi vostri alquanto ; E con sano discorso giudicate Del corso e stato vostro il dubbio fine : Che anchor che retto da propitia stella Arrivar possa al desiato segno, Non ha però felice un giorno solo.
Così dee tolerar l’huomo prudente Quel, che non può per modo alcun fuggire ; E quel, che vuol necessità, seguire, Per non parer altrui di bassa mente.
PASCEANO il Cervo, et il Cavallo insieme Dentro un bel prato di novella herbetta Per lunga usanza, e con invidia ognuno, Che ’l compagno godesse un tanto bene, E consumasse quella parte, ch’esso, Se l’altro non ci fusse, havria per sua. […] Ma l’huom, che già l’havea nelle sue mani, E poteva domar a modo suo De le forze di lui l’alto valore, Disse : Che, s’egli in suo servitio havea Tanto sudato, che vittorioso Fatto l’havea del suo fiero nimico ; Era ben degno ancor, ch’esso il servisse Per qualche giorno in alcun suo bisogno, E che non intendea per modo alcuno Lasciarlo andar senza pagargli il costo Di sue fatiche, e nel ritenne a forza Sì, ch’ei rimase eternamente servo.
Così spesso n’aviene a l’huom, che intento Tutto al guadagno senza haver rispetto Del mal, che del suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò che ’l suo cor gli detta : Per che talhor dal suo proprio guadagno Danno gli nasce di tal cura pieno, Che lo conduce a miserabil fine.
IL Granchio un giorno era del Mare uscito Per novello disio di trovar cibo, Che gli gustasse fuor de l’onde salse ; Onde pascendo a suo diporto andava Lungo a la spiaggia del vicino lito.
AVENNE un dì, che ’l semplice Asinello Per camino incontrando il fier Cinghiale, Qual pazzo incominciò ridersi d’ello, Per non haver più visto un mostro tale : Ond’ei gli disse : Segui, pur, fratello, Di me burlarti, poi ch’assai ti vale L’esser sì vile, e di sì sciocco ingegno, Che d’oprar mio valor teco mi sdegno.
Ond’io chi cerca di turbar mia pace Così combatto, o me gli mostro fiero, Che raro avien, ch’egli da me si parta Senza paura, e manifesto segno Del temerario ardir mostrato indarno Per farmi oltraggio : e con orgoglio crudo Non lascio ingiuria mai senza vendetta.
Ma perché quel di terra assai più lieve Scorrea sicuro ; l’altro, che temea Per la gravezza sua girsene al fondo, Cominciò con parole affettuose A pregar l’altro in lusinghevol modo, Che d’aspettarlo non gli fusse grave : Et legatosi seco in compagnia Volesse far quel periglioso corso : Onde l’altro gli diè simil risposta.
E per trovar il modo, onde potesse In compagnia di tutte l’altre meglio Soffrir di questo male il lungo scorno, Venne in pensier di dar consiglio a l’altre, Che si troncasser la lor coda anch’esse Per fuggir di portarla il lungo impaccio : Così stimando col comune scorno Coprir il suo, che non saria notato.
Or sendo giunta la stagione estiva, Ch’ardendo secca d’ogni humor la terra, Quella che nel vicin stagno albergava, Invitò l’altra con benigno affetto A lasciar quel sì periglioso albergo Esposto a gli occhi d’ogni passaggiero, Et abondante d’ogni altro disagio, Per albergar con lei dentro a l’humore, Ch’ella eterno godea lieta e sicura.
Dinota questo, che colui, che tutto Si dona al senso de la gola in preda Senza tener in questo ordine o modo, Che suol ragion dottar4 a chi prudente Nutrir si vuol di delicati cibi Per sua salute, ma si astien dal troppo, Che nuocer suole, onde tal vitio nasce ; Sovente casca in misera fortuna, E de la Morte ancor tal volta in mano.
Onde a pregar si diè con humil voce Colui, che preso in man stretto il tenea Per dargli morte, acciò sicuro fosse De gli altri augelli, ch’ei prendea, lo stuolo, Che lo lasciasse, perché esso giamai Non gli havea fatto ingiuria, o danno alcuno.
VESTISSI il Lupo i panni d’un pastore Per ingannar le semplicette agnelle Con l’apparenza de l’altrui sembiante, Celando il troppo conosciuto pelo : E col bastone in man, co ’l fiasco al tergo, E con la Tibia pastorale al fianco, Verso il gregge vicin ratto inviossi, Sperando di condurlo entro un ovile Fatto da lui d’una spelonca oscura, E prepararsi per un anno il cibo, Che senza faticar potria godersi.
FUGGIA veloce il Toro da la vista Del possente Leon, ch’era lontano : E ’l vil Montone, che da lunge il vide Venir correndo e di paura pieno, Credendo fargli ancor maggior paura, In mezo de la via tosto fermossi Chinando il fronte, e le ritorte corna Per cozzar seco.
E così non prendendo alcun partito Con gran sospiri e gemiti pregava Ercole invitto, che dal ciel scendesse Per sovvenirlo in così gran bisogno.
Allhor quel sciocco, che sentiva quali Eran le lodi, che colei gli dava, Entrato in speme di quel vano honore, Che gli augurava il suo finto sermone, Per mostrarle c’haveva e voce e canto, Incominciò gracchiar con rauco strido Sì, che dal rostro il cibo in terra cadde.
CON solecita cura il fier Cinghiale Attorno il duro piè d’un’alta quercia Rendeva i denti suoi più acuti e lisci, Per oprarli per arme a’ suoi bisogni : Onde la Volpe ivi passando a sorte Lo domandò per qual cagion prendesse Cotal fatica poi ch’ei non si vede Haver di guerra occasion presente.
Ché s’io muto padron, non fia giamai Ch’io muti sorte ; e son presso ad ognuno Per provar sempre egual affanno e guai.
La semplicetta allhor, c’havea creduto Del suo falso parlar vero il concetto, De l’arbor scese sopra il verde piano : E s’inviò verso quei lacci ignoti, De la finta città principio finto, Per poter meglio intender la ragione, L’ordine, e ’l sito de le nove mura De la mole, che vera ella credea.
Onde tornando i cacciatori allhora Per quel confine, e non essendo ascosa La Cervia più da la spogliata vite, La vider tosto : et mentre ella seguiva Senza sospetto in ben satiarne il ventre La saettar con un pungente strale, Che da l’un fianco a l’altro la trafisse.
Onde già volto in fuga a tai romori Corre veloce entro un’antica selva Per trarsi in quella di periglio fuori.
Ma quando poscia dopo alquanti giorni Da la battaglia ria tornar il vide Di sudor carco, afflitto, polveroso, E tutto homai del proprio sangue molle Per le ferite, ch’egli havuto havea, Tutto allegrossi de la propria sorte ; Che, se ben il tenea poveramente, L’assicurava da miseria tale : E compensando il duol de le fatiche Con la dolcezza del viver in pace ; E del Cavallo ogni trionfo e pompa Con l’infelicità del mal presente, Racconsolato e di sua sorte lieto Menò contento di sua vita il resto.
Quinci avien poi, che seco andando a caccia Mi rendo pronto a mille belle imprese : E mi pasco di starne, e di fagiani, E di mille altri cibi ottimi e rari : Tal che dolce mi sembra ogni percossa, Ch’io da lui sento a mia dottrina darmi ; Perch’utile et honore alfin m’apporta, Ond’ho cagion di starmi a lui vicino : Ma tu bene a ragion fuggirlo dei, Et più quando egli ti nudrisce et pasce Di miglior cibo ; perché allhor s’appressa (Né vorrei dirlo) di tua vita il fine ; Quando egli ha gran piacer, che tu t’ingrassi, Stando in quiete, e in dolce almo riposo Per goder poi de le tue carni un giorno.
Così la gente tal esempio invita A tolerar il suo tiranno avaro, Per non far al suo mal nova ferita, Se le è di viver lungamente caro.
Ond’ella accorta da l’altrui ruina Quasi tutta la preda in un raccolse, Per farla del Leon debita parte ; E presentolla a la superba fiera ; E poco più di nulla a sé ritenne.
AFFAMATA la Volpe, e divenuta Smagrita e scarna, per un picciol buco Entrò in un tetto di galline pieno Per satiar di lor la lunga fame : Né difficil le fu la stretta entrata.
E non sapendo che risponder l’empio Contra la forza e la ragion del vero, Soggiunse irato con altera voce, Ch’era sfacciato e di follia ripieno A dar risposta a sue saggie parole ; Ch’ad ogni modo ei non volea scostarsi Da la natura de’ parenti suoi, Che gli havean fatto mille e mille offese : E che gran voglia havea di far che a lui Toccasse un giorno di scontarle tutte Per lor col merto de le sue sciocchezze.
SENTÌ ’l Leon gridar verso la sera Dentro un fosso lontan da la sua tana Immensa copia di loquaci Rane Con tal romor, che rimbombava intorno Il vicin bosco, e le campagne tutte, E stimando che qualche horribil mostro, Che novo habitator di quelle selve Fatto si fosse, disfidar volesse Le paesane belve a cruda guerra Per farsi ei sol Signor di quei confini, Uscì de la spelonca immantenente Cercando al suon, che gli feria l’orecchie, Con generoso core e d’ardir pieno Del suo sospetto la cagion fallace.
Dunque ascolti ciascun l’altrui consiglio Benignamente, e non si sdegni alcuno, Per esser padre ad altri, o maggior d’anni In altra guisa, al giovine dar fede, Che con ragione la sua lingua mova ; Ché non sta con l’età sempre il sapere : Né sempre è gioventù mendace e vana.
Da questo ogn’huom, ch’è savio, esempio prenda A fuggir l’amicitia di coloro, Che di cor doppio, e di sermon bilingue Soglion mostrarsi a chi seco conversa : Che, essendo di natura empi e malvagi, Sono vuoti d’amor, di fede scarsi ; Né conto fanno de l’amore altrui, Ma sprezzano egualmente il buono e ’l rio : Et a l’occasion sembrano amici Per trar talhor d’altrui profitto alcuno ; E poi ne lascian la memoria al vento ; E ne rendono in cambio ingiuria e biasmo, Quando del lor bisogno al fin son giunti.
La Rondinella allhor con cor sicuro De l’huom si fece molto stretta amica, Per liberarsi da periglio oscuro.
E dove dianzi pur su l’acque a galla Di par col topo havea tenuto il corso, Rivolta in dietro sotto l’acque entrando Tentava trar quel miserello al fondo Per devorarlo poi che estinto ei fosse.
E già venuto nel medesmo loco Per tagliar legna, quel, che il suo compagno A caso fece, fece egli con arte Di lasciarsi cader allhor la scure In mezzo il corso de le rapide onde : E finse lagrimar con gran sospiri, E gran querele la sua dura sorte.
Quindi l’Aquila un giorno andando a spasso Per l’ampio spatio d’una ombrosa valle Da la fame assalita astretta venne Di pasturarsi : e come quella, a cui Stavan sempre nel cor gl’intesi patti Di mai non far al suo compagno offesa ; Da molti augelli per gran spatio astenne L’adunco artiglio : e tuttavia cercava Di prender quelli di più brutto aspetto, Quando dal giogo d’una eccelsa rupe Sentì ullular del suo novo compagno I non mai più da lei veduti figli Nell’aspro nido quasi anchora impiumi.
Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine.
UN vecchio et un garzon padre e figliuolo Un Asinel menavano al mercato Per venderlo, et uscir d’affanni e duolo.
Il est vrai que, si l’on entend comme la plupart des traducteurs la phrase Per aliquot annos quædam dilectum virum amisit , l’édifice si laborieusement construit par Jannelli s’écroule.