Ma conosciuto il buon Mercurio a pieno La gran sincerità di quel meschino, Che di bontà non havea par in terra, Quella d’argento appresso, e quella d’oro In don gli diede, e ’l fé partir contento. Ma raccontando un giorno il pover huomo A molti amici suoi di quella Villa La gran ventura, ch’avenuta gli era, Uno di lor, ch’astuto era e sagace, Tentò con fraude, s’egli anchor potesse Divenir ricco, come quel divenne. E già venuto nel medesmo loco Per tagliar legna, quel, che il suo compagno A caso fece, fece egli con arte Di lasciarsi cader allhor la scure In mezzo il corso de le rapide onde : E finse lagrimar con gran sospiri, E gran querele la sua dura sorte. Onde Mercurio, che sapea l’inganno Del fraudolente, immantenente apparve A lui dinanzi ; e finto anch’egli seco Di volergli trovar la scure sua, Fuor de l’onde una d’or tosto ne trasse, Ch’al peso, e a l’occhio era di gran valore, Domandando al Villan, s’era la sua. […] Così il gran Re del cielo esalta spesso L’huomo pien di bontade, e ricco il rende ; E l’huom malvagio impoverisce, e prende Diletto in farlo star sempre depresso.
Il segno fu, che quei, che di vaghezza, Di leggiadria, di gratia, e di beltade Vedesse di gran lunga avanzar gli altri, Quelli esser di lui figli ella credesse. Quindi l’Aquila un giorno andando a spasso Per l’ampio spatio d’una ombrosa valle Da la fame assalita astretta venne Di pasturarsi : e come quella, a cui Stavan sempre nel cor gl’intesi patti Di mai non far al suo compagno offesa ; Da molti augelli per gran spatio astenne L’adunco artiglio : e tuttavia cercava Di prender quelli di più brutto aspetto, Quando dal giogo d’una eccelsa rupe Sentì ullular del suo novo compagno I non mai più da lei veduti figli Nell’aspro nido quasi anchora impiumi. Onde dal cantar loro horrido tratta Tosto vi corse : e giudicando quelli I più deformi che vedesse mai, Di lor satiossi alfin l’avido ventre Non senza doglia della sozza madre, Che di lontan con gran timor la scorse Devorar tutto il suo infelice parto : Tal che fuggendo poi colma d’affanno Al marito narrò l’horribil caso. Egli, che con gran pena intese questo, Tornò fra poco al mal guardato nido Forte piangendo il ricevuto torto : E trovando per via l’altero augello Compagno, e del suo mal cagion novella, Che di ritorno sen veniva altero Battendo il vento co i possenti vanni, Con aspra insopportabile rampogna Cominciò del suo mal seco a lagnarsi. […] Soggiungendo, che mai per le parole, Ch’egli le fece de la gran beltade De la sua prole, non havria creduto L’openion dal ver tanto lontana.
L’astutia fu, ch’un dì passando il Corvo Vicino a la sua grotta, a sé chiamollo Con debil voce, e con sermone humile Il mosse a gran pietà de la sua sorte : Et lo pregò, ch’ei divulgasse tosto De la sua morte già vicina il nome, Per cortesia fra gli animali tutti, Che facevan soggiorno in quel paese : Che, essendo esso lor Re, debito loro Era di visitarlo, e ritrovarsi Ciascun l’ultimo dì de la sua vita Per honorarlo de l’esequie estreme ; E ch’ei gran voglia havea di rivederli, E dir a chi l’amò l’ultimo vale : E testamento far per far herede Alcun di lor del destinato scetro. […] Così più giorni fece insin che venne L’astuta Volpe, che da un poco sangue, Che vedea presso a lui, sospetto prese, E più oltre passar non volse prima Che ’l salutasse, e da la sua risposta Meglio congietturar potesse il fatto : E tosto accorta a salutarlo prese Lontana un poco per mostrar gran doglia Del suo languire sospirando alquanto ; E a dirle del suo stato lo pregava. […] Rispose ella : Signor mi doglio assai De le vostre sciagure, et lo sa Dio : Ma di venir più avanti ho gran sospetto, Vedendo tutte le vestigie altrui De la spelonca incontra l’uscio volte, E nessuna guardar verso l’uscita : Ond’io fo stima molti esservi entrati, Né fatto haver alcuno indi partita : Però lasciovi in pace ; e se mai posso Farvi servigio, che in piacer vi sia, Farollo volontier, ma da lontano. Così da picciol segno alcuna volta L’huom savio impara con sua gran ventura A scoprir de’ malvaggi il rio secreto : De’ quai bisogna sol creder a l’opre, E non a quel, che in lor la lingua suona.
VIDE la Lepre un dì con lento passo La Testuggine andar per suo camino, E cominciò sprezzarla sorridendo, E mordendo con motti acerbi e gravi La gran tardezza del suo pigro piede. […] Or dato il segno, onde ciascuna havesse A cominciar il destinato corso Per giunger tosto a la prefissa meta, La Lepre, che colei nulla stimava, Si fé di mover piè sì poco conto Vedendo la compagna tanto lenta, Ch’a gran fatica par che muti loco, Che addormentossi ; confidando troppo Nella velocità del presto piede Tutto l’honor de la presente impresa. […] Quinci con gran suo scorno intende e vede Il suo rival, che debole seguendo Con un continuar facile il passo Nel camin di virtù, ch’a honor conduce, A sé stesso precorso, e tor di mano De la vittoria la felice palma Da le fatiche de’ suoi lunghi studi A poco a poco assai più forte reso : Ond’ei quasi perduto haver si sente Quell’antico vigor, ch’ardeva in lui Per colpa sol de la pigritia nata Da la sua negligenza infame e stolta, Che pieno il fa d’un pentimento vile, E d’una doglia sì malvagia e poltra, Che non sa cominciar cosa che voglia, Vedendo sé di sotto di gran lunga A molti e molti, ch’ei nulla prezzava : E tutto il resto di sua vita vive Con tedio estremo assai peggio, che morto, Senza speranza haver d’honore alcuno.
IL Corvo un giorno venne in gran desio D’esser tenuto anch’ei leggiadro e bello Come il Pavone, e di mostrarsi al mondo Come un di quella specie ; e ritrovando Tutte le penne d’un Pavon già morto, Se ne fé lieto una pomposa veste ; E vagheggiando sé medesmo disse, Or son pur bello, e son anch’io un Pavone. […] Ma quando al suon de la sua rauca voce Riconosciuto fu da gli altri, ognuno De le piume non sue tosto spogliollo, E con gran scorno fu da lor scacciato.
L’ASINO d’un Leon trovò la pelle, E tutto si coprì di quella il dorso, E gia scorrendo le campagne e i boschi Con gran paura de gli altri animali, Che in cambio lo togliean d’un fier Leone. […] Così l’huom sciocco e d’ignoranza pieno Che il savio fa tra gli ignoranti, quando Avien, che con saggio huom faccia l’istesso, Dal suono sol di sua propria favella Si scopre quel, che sua natura il fece, Con gran suo scorno, e riso di chi ’l vede.
E così non prendendo alcun partito Con gran sospiri e gemiti pregava Ercole invitto, che dal ciel scendesse Per sovvenirlo in così gran bisogno.
ET la Canna, et l’Oliva un giorno insieme Vengono di valore a gran contesa : Ciascuna l’altra vilipende e preme Con parlar, ch’a l’honor contraria, e pesa. […] L’Oliva, che nel cor sente gran duolo Di ceder tosto come cosa frale, Dura resiste al primo assalto, e ’l vento Sprezza, e leggiera in lui prende ardimento.
Io canto di mia vita il giusto fine, Che di necessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E del ben e del mal, come la sorte Di ciascun brama, e con ragion richiede : Io canto le miserie mie passate : Io canto appresso la futura pace, E l’eterno riposo, onde la vita È priva sempre, e da continue cure Di procacciarsi con fatica il vitto Sempre si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro, che, giungendo al fine Di questo viver, giungo al fine anchora Di tanti affanni, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose, Che sono al mondo in qual si voglia o forma O stato variate dal primiero Sembiante, in ch’elle havean sostanza e vita, Quiete dolce e sempiterna pace. Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine.
DA capo a un fiumicel beveva il Lupo, E l’Agnello da lui poco lontano Vide inchinato far simil effetto : E come quel, che di natura è rio, Né havea cagion, e pur volea trovarla Di venir seco a lite, e fargli offesa, Cominciò tosto con parlar altero Dirgli, che mal faceva, e da insolente A turbar l’acque col suo bere a lui, Ch’era persona di gran pregio e stima, Esso vil animal di vita indegno. […] E non sapendo che risponder l’empio Contra la forza e la ragion del vero, Soggiunse irato con altera voce, Ch’era sfacciato e di follia ripieno A dar risposta a sue saggie parole ; Ch’ad ogni modo ei non volea scostarsi Da la natura de’ parenti suoi, Che gli havean fatto mille e mille offese : E che gran voglia havea di far che a lui Toccasse un giorno di scontarle tutte Per lor col merto de le sue sciocchezze.
Ma poi ch’ei fu da quel condotto in parte, Ove scoperse l’importuna schiera De i piccioli animai, che ’l gran romore Formar potean con l’insolente grido, Stupido tutto alfin ritenne il passo : E del suo proprio error tra sé si rise : E fatto accorto da l’inteso effetto Dal suo sospetto van, disse in suo core. […] Così spesso l’huom vil la lingua move Con gran bravura, e porge altrui spavento Senza vera cagion ; ché tanto offende, Quanto ferisce de la voce il suono : Né più oltra può far di quel, che ’l vento Opra, che le parole in aria sparge.
INCONTROSSI la Cagna un giorno a caso Con una Scrofa, e lei vedendo tutta Lotosa e brutta cominciò con riso Prima a schernirla, et poi con voce aperta La dileggiava sì, che venne in breve Con lei, c’haveva nel suo cor concetto Dal lungo motteggiar un fiero sdegno, A gran contesa di parole strane. […] Anzi da questo puoi sciocca avvederti Qual conto faccia questa santa Dea Di me, che tien per sua divota ancella, Et qual mi porti amore, e gran rispetto : Poscia che chi giamai si mostra ardito D’offender la mia specie in prender cibo Da carne tale, come empio e profano Da sé discaccia, e sempre l’odia a morte.
IL Nibio e lo Sparvier vennero insieme A gran contesa, ognun sé stesso alzando Sopra l’altro di pregio, e di valore : E non potendo differir tal lite Senza il giudicio altrui, restar d’accordo Di far l’Aquila in ciò giudice loro. […] Onde mostrando il Nibio con gran suono D’altera voce un topo, c’havea preso In mezo un campo di tagliate biade ; E lo Sparvier mostrando una Colomba, Che per lo ciel volando a forza ottenne, L’Aquila disse.
Et mentre ei la pregava humilmente Che de la vita gli facesse dono, Ella rispose di non poter farlo Senza gran fallo, essendo egli nimico Di tutti gli altri augei, che intorno vanno, De’ quali essa ministra era e soldato. […] Così l’huom savio e di prudenza adorno Far dee qualunque volta si ritrova Del proprio stato in gran periglio posto : E secondo il bisogno e l’occorrenza Cangiar nell’oprar suo sermone e stile : E servirsi hor di questa, hora di quella Forma di ragionar, che più ricerca La propria occasion di sua salute Ne i simili accidenti, e ne i diversi.
UN Topo già, c’havea sommo disio Di passar d’un gran stagno a l’altra riva L’acque profonde, in gran pensier si stava D’esporsi incerto al periglioso guado.
IL Cane e ’l Gallo un gran viaggio insieme Presero a far per varii boschi e ville Passando per dar fine al lor camino : Ma non giungendo al destinato loco Prima che nascondesse il Sole il giorno, Fra lor fecer pensier di far dimora Per quella notte, fin che ’l novo albore Rendesse il lor camin via più sicuro. Così d’una gran noce in cima un ramo S’assise il Gallo, e ’l Can di quella al piede Ch’era cavato, e da cento anni e cento Roso, e reso per lui capace albergo, S’accommodò passando quella notte In dolce sonno con tranquilla pace.
Udito ciò la Volpe, che credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più non dimorar con suo gran danno Oltra lo scorno, ch’avanzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece. […] Ond’ella prese anchor maggior sospetto, E senz’altro a fuggir tosto si diede Con sua vergogna e gran piacer del Gallo.
LA Rondinella et la Cornacchia havea Di beltate fra lor gran lite accesa : Ch’ognuna l’altra in ciò vincer credea.
SOPRA certe mondezze il Gallo fuore Razzolando trahea lo sparso grano, E scoperse un gioiel di gran valore.
VIDE la Capra da una rupe al basso Il Leone impazzito e furioso Scorrer con atti strani, e torto passo Hor su, hor giù di campi un largo piano : Et da stupore, et gran cordoglio mossa, Né senza grave horror del suo periglio Tra sé medesma fé cotai parole.
LA Cornacchia veduto havea nel prato La pecorella, e gran desio le venne Di travagliarla, e trastullarsi seco ; E di quella volò tosto sul dorso, E gracchiando, e mordendole le orecchie La dileggiava, e ingiuria le facea.
Più tosto voglio esser da voi schernita, Temendo in van del mal falsa cagione, Che stando in gran pericol de la vita Dar di piangermi a’ miei vera ragione.
Ma non sì tosto tal risposta fece, Ch’allhora sovragiunta a l’improviso Da un carro tratto da due gran corsieri, Che passavan correndo a sciolta briglia, Sotto una ruota miserabilmente Restò schiacciata, e di sua vita al fine.
D’UN gran vaso di mel, ch’a un pellegrino Si ruppe, era una via sparsa nel mezo Con largo giro : ond’una copia grande Di Mosche in quello da la gola tratte Dolcemente pascean l’amato humore.
Un bel parlar a tempo è gran guadagno.
Ella, che per natura era cortese, E ricca intorno del suo gran tesoro, Gli ne fé parte, gratiosamente Donando a lui quanto le havea richiesto.
SOTTO l’ardor del caldo estivo Sole Già si seccar molte paludi e stagni Sì, che penuria d’acque havea la terra : Allhor due Rane da gran sete spinte Andaro insieme lungamente errando Per le campagne, e per le basse valli Per veder se potean trovar ventura D’alcun riposto humore al lor bisogno.
UN Can fu già, che mai quando piovea Fuor non usciva de l’albergo usato Per gran timor, che di bagnarsi havea.
DELLA VOLPE, E ’L LUPO CADUTA era la Volpe ita per bere Da l’alte sponde in un profondo pozzo, Stando per affogarsi adhora adhora : Onde di là passando a caso il Lupo ; Che tratto dal romor, ch’indi sentiva Uscir de l’acque, era a vederla corso ; Pregollo humil per l’amicitia loro Ch’ei volesse calando al basso un laccio Darle materia, onde salir potesse, Prestando aiuto a lei, ch’era sua amica, E posta de la vita in gran periglio.
Così ne mostra l’animale astuto, Che chi sotto il Tiran sua vita mena È in gran periglio di sentir la pena Del fallo anchor, che non ha in mente havuto.
Però qualunque volta iva per cibo Da lor lontana la provida madre Lor avvertiva con pietoso affetto, Che se cosa occorresse a lor d’udire, Ch’a l’orecchie di lor nova paresse, Se la tenesser con gran cura a mente Per riferirla al suo ritorno a lei. […] Il che sentito i pargoletti figli Consapevole poi ne fer la madre, Che con gran tema tal novella intese : E disse lor, adesso è ’l tempo, figli, Di dubitar qualche futuro oltraggio, Poi che ’l padron di ciò la cura prende : Però stanotte ce n’andrem pian piano A trovar novo albergo in altra parte, Che quando l’huom far vuol cosa da vero, Non aspetta gli amici, o i suoi parenti : Ma pon sé stesso con le voglie ardenti A dar debito effetto al suo pensiero.
Et un di lor, che primo a parlar prese, Fu di parer, ch’un gran sonaglio al collo Legar del Gatto si devesse al fine, Che ’l suo venir al suon si conoscesse Da lor, c’havriano del fuggir tal segno.
Quinci esso ancor per far prova maggiore Con strepito et stridor ratto si cala Sopra un grosso monton ; nel folto velo Di cui poscia il meschin l’ugne intricando, L’ugne mal atte a così gran rapina, Per prender altri alfin preso trovossi.
E mentre i cacciator lontani lassa Mercé de le sue gambe agili e preste Giunge ove una gran quercia i rami abbassa.
Così far deve ogn’huom, che in bassa sorte Esser si sente, e senza invidia il corso Di sua vita passar, mentre comprende De’ Prencipi e Signor l’alta fortuna : Che spesse volte in gran bassezza cade, Chi posto vien de la sua rota in cima.
Allhor trahendo un gran sospir dal core Ella al compagno fé simil risposta.
UN Vecchio contadino ito a far legna Nel bosco assai da sua stanza lontano Tornava a dietro d’un gran fascio carco : E stanco homai dal troppo grave peso, Da la lunga fatica, e dal camino, Ma molto più da i molti giorni et anni, Che gli premean di doppia soma il fianco, Al mezo de la via su la campagna La sarcina lasciò cadersi a terra Per riposar l’affaticate membra Sotto l’ardor del caldo estivo Sole.
Quinci avien poi, che seco andando a caccia Mi rendo pronto a mille belle imprese : E mi pasco di starne, e di fagiani, E di mille altri cibi ottimi e rari : Tal che dolce mi sembra ogni percossa, Ch’io da lui sento a mia dottrina darmi ; Perch’utile et honore alfin m’apporta, Ond’ho cagion di starmi a lui vicino : Ma tu bene a ragion fuggirlo dei, Et più quando egli ti nudrisce et pasce Di miglior cibo ; perché allhor s’appressa (Né vorrei dirlo) di tua vita il fine ; Quando egli ha gran piacer, che tu t’ingrassi, Stando in quiete, e in dolce almo riposo Per goder poi de le tue carni un giorno.
Che i Serpi n’usciran, la cui natura Sempre è di mal oprar ; e ti faranno Le prime ingiurie, e da tua ria ventura Ad ingiuriar gli altri impareranno : E, se non ti trarranno a morte oscura Il primo dì, che de l’uova usciranno, Faran col tempo eterna ingiuria poi Con tua gran pena a’ proprii figli tuoi.
M’è certo a gran ragion questo avenuto : Ch’essend’io nato per mia buona sorte Atto de gli animali al far macello ; Il medico facendo, inutilmente Derogar volsi al natural valore.
Et (quel che più mi piace in esso) è tanto Mansueto al veder, tanto gentile, Ch’a la mia vista non si mosse punto ; Anzi fermossi in atto humile e pio Quando mi vide, e mi diè gran baldanza D’andargli presso, havendo io gran desire Di meglio figurar suo bel sembiante.
Così l’un danno sopra l’altro giunto Patì gran pezzo le beccate strane, Che ’l sangue tutto homai le havean consunto.
Così fece il Villano ; et nel seguente Anno la messe andò tanto feconda, E la vendemia, e ’l resto del raccolto, Che vinse di gran lunga ogni speranza, Ogni desio di Contadino avaro.
Ma quando il Sol col mattutino raggio Lucido e chiaro in Oriente apparse, Il Topo Cittadin l’altro destando Per gran desio, c’havea di farsi honore, L’invitò a cena a le paterne case : Ove alfin giunti dopo lunga via Su l’hora prima de la notte oscura Entraro stanchi al buio in ampio loco, Che d’un palazzo era terreno albergo, Tutto odorato di soavi cibi, Onde abondante era d’intorno e pieno. […] Del qual poi che appagato hebbe ciascuno Più che a bastanza la golosa sete, Quivi posar le ben pasciute membra Con gran temenza, il resto de la notte Tutto passando con disagio e pena Senza mai chiuder occhio, o mover piede, Tanto sospetto havean d’ogni periglio.
Però giù pon l’invidia ; ché non pate Invidia quel, che di gran lunga avanza Ordinario valor di sorte eguale.
LA Testuggine un dì vistosi presso L’Aquila, che dal cielo era allhor scesa, Per riposarsi sopra il verde piano, Venne in gran voglia di poter volare Per provar quel piacer, c’haver pensava Gli augelli di passar per l’aere a volo.
Onde il Pavone gran broglio facea D’esser quel desso, confidando assai Nella bellezza de le varie penne D’aureo color, e mille gemme tinte : E di questo facendo altera mostra Con lunga oratione in quel senato, Sì che piegavan già le voci tutte Ne i suoi suffragii, contentando ognuno Ch’ei fosse quel, che in loro imperio havesse, Quando tra gli altri se gli offerse innante Il picciol Merlo da le nere piume, E se gli oppose con simil parole.
Poi giunti alfine al consueto albergo, Sedero a mensa per cenar insieme : E d’una gran polenta, che dal foco Posta s’haveano allhor allhora inanzi, A pascer cominciar le stanche membra.
Ecco il Lin nasce, et ella, che pur serba Nel cor del suo presagio il gran timore, Disse di novo con rampogna acerba.
Sol la Volpe mancava, quando il Lupo Con gran malignità cominciò solo Ad accusarla di superbia e fasto, E verso il suo Signor di poco amore.
GIÀ fu che Borea, e ’l Sol vennero insieme A gran contesa di forza e valore, Ciascun tenendo haver di ciò la palma.
Ma il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leone, Che non haveva più l’ugne, né i denti, Non solo di negargli hebbe ardimento La figlia, ch’egli li chiedea per moglie ; Ma con un grosso fusto lo percosse Si fieramente nel superbo capo, Ch’a terra lo mandò stordito, e poi In pochi colpi gli levò la vita : E sciolto andò da tal impaccio e briga.
Gli arbori allhora dal gran tedio stanchi Del pregar lungamente indarno altrui, Si risolsero alfin d’andar al Pruno, E dar a lui questo supremo grado.
De laquale in più assalti il Cervo sempre Restò vincente per la gran fortezza, Ch’in fronte havea de le ramose corna.
Mentre sì carco l’animal galloppa Ecco il primo, che ’l vede, a gran pietade Mosso di lui, che in ogni sasso intoppa.
Préface de la première édition Je me propose de publier, en faisant précéder les textes de leur histoire et de leur critique, tout ce qui reste des œuvres des fabulistes latins antérieurs à la Renaissance. C’est une vaste tâche que personne encore ne s’est imposée, et qui, je le crains du moins, m’expose à être un peu soupçonné de présomption. Pour me prémunir contre un pareil soupçon, je désire expliquer comment j’ai été conduit à l’assumer. De tous les auteurs anciens qui guident les premiers pas de l’enfant dans l’étude de la langue latine, Phèdre est celui qui lui laisse les plus agréables souvenirs. Ses fables sont courtes, faciles à comprendre et intéressantes par l’action qui en quelques vers s’y déroule.