IL Cigno giunto homai vicino al fine De la sua vita con soavi accenti Facea l’esequie a le sue proprie membra In breve per restar di spirto prive. La Cicogna, che in riva al fiume stava, In ch’ei lavar solea le bianche piume, Se gli fa incontra, e la cagion li chiede Del suo cantar poi ch’è vicino a morte, Che per natura ogni animal paventa, E pianger suol pur a pensarvi il giorno, Ch’ella sia per venir, benché lontana. […] Io canto di mia vita il giusto fine, Che di necessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E del ben e del mal, come la sorte Di ciascun brama, e con ragion richiede : Io canto le miserie mie passate : Io canto appresso la futura pace, E l’eterno riposo, onde la vita È priva sempre, e da continue cure Di procacciarsi con fatica il vitto Sempre si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro, che, giungendo al fine Di questo viver, giungo al fine anchora Di tanti affanni, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose, Che sono al mondo in qual si voglia o forma O stato variate dal primiero Sembiante, in ch’elle havean sostanza e vita, Quiete dolce e sempiterna pace. Ché, se ben quello io non sarò, che adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno al tutto ognihor principio e fine. […] Così devrebbe contentarsi ognuno De la sua sorte, e de la legge eterna, Che Natura, e di Dio la voglia impone Con egual peso a gli animali tutti : E la morte abbracciar con lieto volto Come la vita si tien dolce e cara, Essendo il fin d’ogni miseria humana La morte, e questa vita un rio viaggio ; Dal qual l’huom dee bramar ridursi al porto De la tranquillità de l’altra vita Qual si voglia, che sia per esser poi, Poi che nulla di noi perder si puote, Che non vivi nel sen de la Natura Come a Dio piace ; al cui voler ognuno Dee star contento, e far legge a sé stesso De la ragion, che dal suo santo senno Con dotto mezzo a noi discende e piove.
IL Cane e ’l Gallo un gran viaggio insieme Presero a far per varii boschi e ville Passando per dar fine al lor camino : Ma non giungendo al destinato loco Prima che nascondesse il Sole il giorno, Fra lor fecer pensier di far dimora Per quella notte, fin che ’l novo albore Rendesse il lor camin via più sicuro. Così d’una gran noce in cima un ramo S’assise il Gallo, e ’l Can di quella al piede Ch’era cavato, e da cento anni e cento Roso, e reso per lui capace albergo, S’accommodò passando quella notte In dolce sonno con tranquilla pace. […] Però ti prego acciò che quinci io scenda Picchia a quell’uscio, e ’l portinaio desta Che m’apra il passo, ond’io per dentro al tronco Venga a trovarti, et abbracciar ti possa Come ben cara a me novella amica. […] Tal ch’egli desto a l’improviso suono Tosto uscì fuor de la sentita voce, E veduta la Volpe immantinente Le corse adosso, et atterrolla in breve, Facendo a lei quel, ch’essa haveva al Gallo Di far pensato con l’astutie sue, Senza che pur la ria se n’avvedesse. Così sovente a l’empio avenir suole, Che mentre a l’altrui vita inganno ordisce, Quel, ch’egli ingannar pensa, esso tradisce ; E rende al finto dir finte parole.
IL Cerbiato chiedeva un giorno al padre Da qual cagione proceder potesse, Ch’ogni volta, ch’a guerra il can lo sfida, Egli sì facilmente in fuga volto Di lui solo al latrar desse le spalle, Essendo egli di corpo e di valore Maggior del cane, e con la fronte armata Di dure corna a contrastar possenti Con qual si voglia più forte animale. E ’l Cervo in sé confuso sospirando Brevemente così rispose al figlio. […] Questo ben ti dirò : Che solo al suono De la sua voce, anchor che da lontano Molto da me talhora udita sia, Tosto mi sento non so che timore, Che mi fa forza contra ogni ragione A fuggir presto dal latrar maligno, Che tremar mi fa tutto il cor nel petto.
Par sa franchise li requist qu’il le musçat e si desist al veneür qui l’ensiweit que al bois esteit alé tut dreit. […] Od sa mein li vet enseignant que al bois le deit aler querant. […] Quant il le vit bien esluiné, si dist al lu qu’il ot muscé : « Ne me sez tu ore bon gré que jeo te ai issi deliveré » Li lus respundi cuintement : « Ta lange, tes mains vereiment dei jeo », fet il, « bon gré saveir ; mes une rien te di pur veir : s’il alast a ma volenté, ti oil seraient ja crevé !
VESTISSI il Lupo i panni d’un pastore Per ingannar le semplicette agnelle Con l’apparenza de l’altrui sembiante, Celando il troppo conosciuto pelo : E col bastone in man, co ’l fiasco al tergo, E con la Tibia pastorale al fianco, Verso il gregge vicin ratto inviossi, Sperando di condurlo entro un ovile Fatto da lui d’una spelonca oscura, E prepararsi per un anno il cibo, Che senza faticar potria godersi. Ma quando l’empio fu giunto tra ’l gregge, (Tra ’l gregge, il qual non lo temea credendo Dal suo vestir ch’ei fosse il suo pastore) E volse dar la voce, onde il volgesse Al pensato camin, fiero ullulato Fuori mandò di tanto horror ripieno, Che le paurose pecorelle tutte Smarrite ne restaro, e quello al grido Riconosciuto rimirando a dietro Si diedero a fuggir velocemente A i vicin tetti del nativo albergo ; Et ei di ciò restò schernito, e tristo. Tal l’huom bugiardo e di malitia pieno Rimaner suole a lungo andar, né puote Sempre venir al fin del suo pensiero Con la bugia del suo fallace inganno, Ché finalmente il ver da sé si scopre ; E l’istessa bugia ne ’l fa palese.
Ecco de’ venti impetuoso stuolo Fra pochi giorni le campagne assale : E si piega la Canna insino al suolo ; Poi si rileva alfin come habbia l’ale. L’Oliva, che nel cor sente gran duolo Di ceder tosto come cosa frale, Dura resiste al primo assalto, e ’l vento Sprezza, e leggiera in lui prende ardimento. Ma quel, che pur non può piegarla al piano, Da radice la sveglie, e a terra caccia. […] L’humil, che cede al suo maggior, ventura Miglior s’acquista, e lungamente dura.
Il che facendo il medico mal atto, Ei levando le groppe in un momento D’ambidue i piè nel fronte e nelle spalle Così gagliardamente lo percosse, Che ’l lasciò quasi morto in mezo ’l campo ; E fuggì ratto al consueto albergo. […] M’è certo a gran ragion questo avenuto : Ch’essend’io nato per mia buona sorte Atto de gli animali al far macello ; Il medico facendo, inutilmente Derogar volsi al natural valore. Ognuno dunque accortamente impari L’arte seguir, a cui sua stella il chiama : Et lasci quell’ufficio, in cui Natura, O giudicio, o favor non gli consente, Da riuscir con utile et honore, Se gir non vuol d’ogni miseria al fondo.
Così la Volpe di quel tronco al piede Preparò stanza a i suoi fra sterpi e dumi. Ma sendo un giorno uscita a la campagna De l’humil tana per cercar d’intorno Cosa, onde trarre a i pargoletti suoi Nati potesse l’odiosa fame, L’Aquila tratta da medesma cura De l’arbore scendendo al basso prese De la compagna misera i figliuoli, Et ne fé pasto a gli Aquilini suoi. […] Non molto dopo avenne, ch’ivi presso Havendo alcuni habitator del loco Immolato una Capra al sacrificio, Del nido la rapace Aquila scese, E preso havendo ne gli adunchi artigli Certe reliquie de l’adusta carne Con alquanti carboni accesi intorno Rapida salse al suo superbo nido. […] Così fra noi mortali avenir suole, Che chi de l’amicitia i sacri patti Per non degna cagion profano rompe, Quantunque de gli offesi amici al tutto Possa schivarsi da l’ultrice mano ; Non è però che col girar de gli anni Schivar possa di Dio la giusta spada. […] Però devrebbe inviolabilmente Ognun servar de l’amicitia vera Le ragion sante, e con l’honesto il dritto : Né per cagion benché importante assai, Che dal giusto si trovi esser lontana, Offesa far al suo fedele amico ; Non havendo a piacer l’esser da quello, O da Dio stesso egli medesmo colto In qualche occasion tardi o per tempo.
UN Topo già, c’havea sommo disio Di passar d’un gran stagno a l’altra riva L’acque profonde, in gran pensier si stava D’esporsi incerto al periglioso guado. […] Ma quando al mezo del camin fur giunti L’iniqua Rana a far si diede il tratto, Che fin da prima disegnato havea. E dove dianzi pur su l’acque a galla Di par col topo havea tenuto il corso, Rivolta in dietro sotto l’acque entrando Tentava trar quel miserello al fondo Per devorarlo poi che estinto ei fosse. […] Or mentre quella al fondo, al sommo questo Si ritraheva con egual valore, Nessun cedendo a le contrarie forze, Un nibio, che di là passava a caso Da l’appetito de la fame tratto Ambo li prese ; et per satiar di loro L’avido ventre, da la rana in prima, Che più molle che ’l topo havea la pelle, Tosto si cominciò render satollo.
IL Corvo spinto da la fame il volo Torse verso un Serpente, che tra certi Sassi del mezo giorno al sol dormiva : E fra l’ugne ne ’l prese, e volea trarsi De le sue carni l’importuna fame : Ma quel presto destossi, e raggirando L’ardito capo, che tre lingue vibra, Lo strinse sì col velenoso morso, Che lo traffisse di mortal ferita. […] Ecco il guadagno Del cibo, ch’io sperava essermi vita, Havermi tratto di mia vita al fine. Così spesso n’aviene a l’huom, che intento Tutto al guadagno senza haver rispetto Del mal, che del suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò che ’l suo cor gli detta : Per che talhor dal suo proprio guadagno Danno gli nasce di tal cura pieno, Che lo conduce a miserabil fine.
UN vecchio et un garzon padre e figliuolo Un Asinel menavano al mercato Per venderlo, et uscir d’affanni e duolo. […] Or disse il giovinetto al padre : vedi Padre, come ch’ognun di noi sen ride Per l’Asino, che scarco esser concedi. […] Il Vecchio stanco l’ubidisce ; et vanno Così per breve spatio al lor camino : E trovan nove risa, e novo affanno. […] Udito spesso il padre un tal saluto, Scese de l’Asinello, e disse al figlio ; Montavi tu, ché così è ben dovuto. […] Così pensando al dir di questo e quello Por freno, e far cessar tanta rampogna, Che sovente rompea loro il cervello.
Veduto ho, madre, mentre a spasso i’ andava Due animali ; l’uno è di colore Simile al tuo nel pelo, ma distinto Di varie macchie di color più oscuro : Sembran di lucid’oro i suoi begli occhi, Che sono al rimirar tutti pietosi : Ha quattro piedi, et una lunga coda Di vario pelo tinta insino al fine. Et (quel che più mi piace in esso) è tanto Mansueto al veder, tanto gentile, Ch’a la mia vista non si mosse punto ; Anzi fermossi in atto humile e pio Quando mi vide, e mi diè gran baldanza D’andargli presso, havendo io gran desire Di meglio figurar suo bel sembiante. […] Allhor la madre, che ben chiaro intese Quai fusser gli animai da lui descritti, In modo tale al suo figliuol rispose. Ahi come, figlio, tua semplicitade Te stesso inganna ; e non conosci anchora Il ben dal male come quel, che sei Pur dianzi uscito del mio ventre al mondo, Et d’ogni esperienza ignudo e privo. […] Che talhor sembra un huomo in volto un santo, Ch’un Diavolo è poi se ’l miri a l’opre : E spesso un, che par rio nel fronte, copre Ogni bontà del cor sotto al bel manto.
Così talhor ne’ publici consigli Si trovan molti, et molti, c’han riguardo Solo al particolar loro interesse Posponendo il ben publico al privato Da l’amor ingannati di sé stessi. Nuoce al publico ben spesso il privato.
Così nell’acque entrati ambo di pari, Quel, che di sale havea grave la soma, A sorte in certi sassi urtando cadde Oppresso anchor da quel soverchio peso, Sì che riverso andò del fiume al fondo. […] Il che veduto l’altro, che leggiero De le spugne portava il debil peso, Credendo sciorsi anch’ei del proprio carco, A studio riversciossi entro a quel guado ; Ma non sì tosto fu di quello al fondo, Che le spugne bevendo il grave humore A doppio il caricar di doppia soma. […] Sia dunque accorto chi tal caso intende, Che ’l porsi a trar qualche pensiero al fine Non ricerca egual mezo in varia sorte D’occasion, di loco, e di valore ; Ma in diversa persona opra diversa.
VIDE la Rana il Bue vicino al fosso Ito per bere, e grande invidia prese Di sua grandezza, et tosto entrò in desio Di farsi eguale di statura a lui. […] E cedendo al voler de la natura Vivi de la tua sorte ognihor contenta : Né tentar con pericol manifesto De le tue forze l’impossibil opra. […] Così spesso interviene al vecchio insano Di mente, che dal tempo misurando Il senno, sprezza del giovine saggio Il buon consiglio di ragion matura : E seguitando il suo pazzo discorso Si mette a far con cor superbo e vano Quel, ch’a ragion tentar non può, né deve. Dunque ascolti ciascun l’altrui consiglio Benignamente, e non si sdegni alcuno, Per esser padre ad altri, o maggior d’anni In altra guisa, al giovine dar fede, Che con ragione la sua lingua mova ; Ché non sta con l’età sempre il sapere : Né sempre è gioventù mendace e vana.
Così risolti al Fico se n’andaro Per dar a lui di tal honor la soma. […] Ma quella, che già tutta era d’intorno Coperta d’uva ben matura e bella, Lor disse : dunque vi credete ch’io, Che di tanta ricchezza allegra vivo De’ frutti miei con mio grande ornamento, Onde il cielo e la terra in pregio m’have, Possa sì facilmente al suon piegarmi De’ preghi vostri, benché d’honor pieni, Ch’io lasci di Natura un tanto dono, Che felice mi rende in ogni tempo ; Per prender poi così noiosa cura, Che non mi lasci un dì viver contenta ? […] Gli arbori allhora dal gran tedio stanchi Del pregar lungamente indarno altrui, Si risolsero alfin d’andar al Pruno, E dar a lui questo supremo grado. […] Dunque, s’io son Re vostro, a l’ombra mia Correte tutti ; e se tardate a farlo Qual poco ubidienti a’ miei mandati, Farò del tronco mio tal fiamma uscire, Che tutti v’arderà senza pietate, Sì che ne tremeran malgrado loro Le Quercie antiche, e i più sublimi Cedri, Che dal Libano monte al Ciel sen vanno. Così colui, ch’a le sue voglie serve, È pronto a ricercar l’altrui governo, Senza pensar qual sia l’ufficio suo : Né suole ambition di cure altrui Mover il cor di chi conosce e vuole Far sempre quanto al suo dever conviene.
SOTTO l’ardor del caldo estivo Sole Già si seccar molte paludi e stagni Sì, che penuria d’acque havea la terra : Allhor due Rane da gran sete spinte Andaro insieme lungamente errando Per le campagne, e per le basse valli Per veder se potean trovar ventura D’alcun riposto humore al lor bisogno. […] Ma quella, che più saggia era di lei, E di più lunga esperienza accorta, Così rispose al temerario invito. […] Chi pensa al fin raffrena ogni sua voglia.
L’ALLODOLA è un augel poco maggiore Del Passero, et di piuma a lui simile, Ma sopra il capo un cappelletto porta Di piume, ch’assai vago in vista il rende : Questa di far il nido ha per usanza Dentro a le biade de gli aperti campi ; In cui suol partorir le picciol uova De la stagion de l’anno in quella parte, Che può bastarle a far prender il volo Ai nati figli al cominciar la messe. […] Onde matura a pieno era la biada Quando anchor non haveano il volo appreso I pargoletti figli anchora ignudi Di quelle penne, onde sian atti al volo. Però qualunque volta iva per cibo Da lor lontana la provida madre Lor avvertiva con pietoso affetto, Che se cosa occorresse a lor d’udire, Ch’a l’orecchie di lor nova paresse, Se la tenesser con gran cura a mente Per riferirla al suo ritorno a lei. […] E non vedendo esser venuto alcuno, Disse al figliuolo : Va’ figlio dimane E tosto invita ogni parente nostro, Che ci servino in ciò de l’opra loro Per la mattina del seguente giorno. […] Così quel giorno non comparse alcuno : Onde il padron de la matura biada Giunto verso la sera in quella parte Disse al figliuol : poi che nessun si move O de gli amici, o de’ parenti nostri A prestarci lor opra in tal bisogno ; Fa’ che tosto diman, figlio, per tempo Qui due messore porti, onde ambidue Noi farem cotal opra ad agio nostro, Né ad alcun altro havremo obligo alcuno.
Io prima inquanto al grande animo mio Aquila fui : ma hor chiaro comprendo, Ch’io son e a l’opre, e a quel, ch’io nacqui, un Corvo. Questo non altro al savio inferir puote, Se non ch’ognun, che temerario ardisce Quella impresa tentar, ch’a la bassezza Del suo grado e valor mal si conviene, Sovente va d’ogni miseria al fondo : E divenuto favola del volgo Con suo danno e dolor schernito giace.
Poi giunti alfine al consueto albergo, Sedero a mensa per cenar insieme : E d’una gran polenta, che dal foco Posta s’haveano allhor allhora inanzi, A pascer cominciar le stanche membra. […] Et ei rispose, ch’egli havea dal fiato Valor di raffreddar quel caldo cibo, Ch’era nocivo al lor bramoso gusto. […] Da questo ogn’huom, ch’è savio, esempio prenda A fuggir l’amicitia di coloro, Che di cor doppio, e di sermon bilingue Soglion mostrarsi a chi seco conversa : Che, essendo di natura empi e malvagi, Sono vuoti d’amor, di fede scarsi ; Né conto fanno de l’amore altrui, Ma sprezzano egualmente il buono e ’l rio : Et a l’occasion sembrano amici Per trar talhor d’altrui profitto alcuno ; E poi ne lascian la memoria al vento ; E ne rendono in cambio ingiuria e biasmo, Quando del lor bisogno al fin son giunti.
IL Cervo si specchiava intorno al fonte, E del bel don de le ramose corna Si gloriava di sua altera fronte : E mentre quelle a vagheggiar pur torna, De le gambe si duol brutte e sottili, Qual non conformi a sua persona adorna. E le biasma e le sprezza come vili Rispetto al peso de le corna altero, Le quali ei stima nobili e gentili. […] Talché come al partir da l’acque chiare PACELe gambe lo salvar da dura sorte, Queste cagion li fur di pene amare.
MENTRE che al Sol nella più algente bruma Givan molte formiche in lunga schiera Portando ad asciugar l’humido grano Fuor de la buca, ove l’havean riposto ; La misera Cicala, che di fame Già si moriva, con preghiere humili Cominciò loro a supplicar soccorso. […] Giovani, voi che de’ vostri anni il fiore Dietro a le vanità perdendo andate, Senza pensar di vostra vita il fine, Aprite a questo esempio, aprite gli occhi : Et imparate con più san discorso, Che v’è mestiero in su la primavera Di vostra età pensar di quella al verno : Se non volete a l’ultima vecchiezza Giunger infermi, e di miseria pieni ; Che l’antico proverbio è cosa vera, La vita il fine, il dì loda la sera. Chi vuol da savio oprar pensi al suo fine.
A une chevre le bailla, que de sun leit l’ad bien nurri ; al bois l’enmeine ensemble od li. Quant elë ert creüe e grant, puis l’apela, si li dist tant : « Va t’en a la berbiz, ta mere, e al mutun que est tun pere !
Vana era al fin d’uscirne ogni fatica, Sì che già stanca non si move punto, E di mosche l’assal copia nimica. […] Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del suo mal forte si duole : Et poi le dice con parole humane : Ch’egli si trova in punto, s’ella vuole, Di scacciarle le mosche allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado facea, non potea trarla Se ben s’affaticasse più d’un giorno. […] Così la gente tal esempio invita A tolerar il suo tiranno avaro, Per non far al suo mal nova ferita, Se le è di viver lungamente caro.
Questo veduto allhor Pallade saggia Restò sospesa di stupore alquanto, Che tale elettion fosse caduta Sovra di piante infruttuose e vane, Poi che ciascun sapea, che immensa copia Di fruttifere pur ne havea la Terra, Da farne agevolmente utile eletta : Et domandando al sommo padre Giove Modestamente la cagion di questo, Alfine hebbe da lui cotal risposta. […] O degna figlia del tuo Padre Giove, Ben mostri al tuo parlar accorto et saggio, Et al giudicio del sublime ingegno, Che non del ventre di femina vile, Ma del mio divin capo uscita sei.
Lascia di te la cura al Re del Cielo, Se vuoi viver contento al caldo, e al gelo.
VIDE la Capra da una rupe al basso Il Leone impazzito e furioso Scorrer con atti strani, e torto passo Hor su, hor giù di campi un largo piano : Et da stupore, et gran cordoglio mossa, Né senza grave horror del suo periglio Tra sé medesma fé cotai parole. […] Quanto ei feroce, e più possente hor fia Havendo giunto al natural valore Il tremendo furor de la pazzia ?
Quant li reclus de Deu parlat, e li vileins li demandat pur quei Adam manga le fruit, par quei le people aveit destruit, e, quant il la pume manga, pur quei Deu ne li parduna ; al reclus suvent en pesa, tant que a une feiz se purpensa que le vilein apeisereit de la demande qu’il feseit. […] Puis defendi que en nule guise al vilein qu’il n’i adesast ne ke desuz ne [re]gardast ; kar il ireit a un muster a ureisun pur Deu preer. […] Ne voilez mes Adam blamer, si le fruit de l’arbre manga que nostre sire li devea : li deables li cunseilla, que par sa femme l’enginna e li pramist si grant honur que per sereit al Creatur. » Pur ceo ne deit nul encuper autrui fesance ne blamer ne mettre fame sur sun preme ; chescun reprenge sei me[is]mes.
IL Corvo un giorno venne in gran desio D’esser tenuto anch’ei leggiadro e bello Come il Pavone, e di mostrarsi al mondo Come un di quella specie ; e ritrovando Tutte le penne d’un Pavon già morto, Se ne fé lieto una pomposa veste ; E vagheggiando sé medesmo disse, Or son pur bello, e son anch’io un Pavone. […] Ma quando al suon de la sua rauca voce Riconosciuto fu da gli altri, ognuno De le piume non sue tosto spogliollo, E con gran scorno fu da lor scacciato.
Un sun veisin le bargena, mes ne vot mie tant doner ; al marché les covient aler. Cil a ki le cheval esteit otri’ l’autre qu’il le larreit al pris que cil humme i* metreit quë encuntre eus primes vendreit, desqu’il vendreient al marché ; de tutes parz l’unt otrïé.
Quant ele fu al bois venue e li lus l’ot dedenz veüe, al cheverol vet, si li rova que l’us overist ; ceo li pria od tele voiz cume la chevre aveit.
VIDE l’Agnello in cima al tetto stando Da la finestra di lontano il Lupo ; E cominciò con orgogliosa voce A provocarlo, e fargli ingiuria et onta Con dirgli tutto quel, che dir si puote D’una bestia crudel, vorace, e ria. […] Così spesso l’huom vil privo di forza E d’ardimento al forte ingiuria move Assicurato da persona, o loco, Che lo difende da l’altrui valore.
Al bois ala pur demander a chescun fust qu’il pot trover al quel il li loënt entendre, del queil il puisse mance prendre. […] Tut autresi est des mauvais, des tresfeluns e des engrés : quant uns produm les met avant e par lui sunt riche e manant, s’il [se] surpüent* meuz de lui, tuz jurs li frunt hunte e ennui ; a celui funt il tut le pis ki [plus] al desus les ad mis.
Ma non sì tosto tal risposta fece, Ch’allhora sovragiunta a l’improviso Da un carro tratto da due gran corsieri, Che passavan correndo a sciolta briglia, Sotto una ruota miserabilmente Restò schiacciata, e di sua vita al fine. Così interviene a chi nel vitio vive, Che spesso pria, che fuor ne traggia il piede, De l’infelice vita al fin si vede ; Perché l’huom non sa quel, che Dio prescrive.
E già sul colmo de l’accuse egli era Quando la Volpe già di questo accorta S’appresentò dinanzi al fier Leone, Che era dal ragionar1, che fatto il Lupo Havea contra di lei, con lei sì forte Sdegnato, che volea mangiarla viva. Onde l’astuta al meglio che potea In sé raccolta, et fatto assai buon viso, Cominciò ragionarli in questa guisa. […] Che così avenir possa a ogni altro tale, Che iniquo e discortese accusar tenta Con falsitate, e non inteso inganno L’innocente in assentia al suo Signore.
Li plusur ne l[e] vodrent fere ; al seignur alerent retrere le cunseil lur aveit doné. Quant l’arundel l’ot escuté cum il l’aveient encusee, de ses parenz fist asemblee od les meillurs de sa lignee, si s’est al vilein appeisee.
L’AQUILA stanca dal continuo volo Per posar sopra un sasso al pian discese : D’onde un uccellator, ch’ivi la vide, E la prese di mira, alfin la colse Con un pungente stral da l’arco spinto Mentre ella stava per gettarsi intenta Dietro a una lepre, e farne alta rapina. […] Et veduto lo stral tutto nascoso Nell’intestine del suo proprio ventre, S’avvide ancor, che de lo stral le penne De l’ali proprie sue furon già parto : E non tanto si dolse esser traffitta Per giugner di sua vita in breve al fine, Quanto che di veder l’ali sue stesse Esser ministre a lei di tanto danno.
Ma la Volpe, che quel conobbe al suono De l’asinina voce, in mezo il passo Fermossi tosto, e non si mosse punto : Ma ridendo tra sé di sua follia Così gli disse : invero che l’aspetto Di questo horrendo e spaventoso volto M’havria mosso nel core alta paura, S’al roco suon de l’asinina voce Io non t’havessi conosciuto in prima.
Oh là tu, che dal ciel chiamato m’hai In tuo soccorso, hor da’ principio tosto Ad aiutarti per te stesso, et opra Quanto è in te di valor per tragger fuori Di questo loto il già fermato carro : Stimola i buoi ; metti le spalle sotto Le gravi sponde, et sollevando alquanto Le lente ruote invita al moto il plaustro : Ch’allhor, se da persona di valore Facendo sforzo a la tua debil possa Mi chiamerai in soccorso al tuo bisogno, Sarò presente ; e col divin potere In te raddoppierò l’humane forze.
VIDE la Volpe da lontano il Gallo Posarsi d’una Quercia in cima un ramo, E per farlo da quel scender al piano, Onde potesse poi di lui cibarsi, Trovò un’astutia : et là correndo in fretta Così si diede a ragionar con lui, Buon dì, fratello ; O che felice nova Ho da contarti. […] E mandan me per messaggiera intorno A publicar d’un tanto ben la fama Fra quanto può girar questo paese, Com’anchora mandato hanno altri messi In altre varie parti de la terra, Perché ognun vada al destinato loco Per allegrarsi co i novelli amici ; E giurar fedeltade e buona pace Con gli altri, che là giù soggiorno fanno. […] E prendendo licenza al suo partire Con parlar dolce la pregava il Gallo Ch’ella aspettasse i suoi novelli amici, Ch’erano del suo ufficio a lei compagni : Perché con essi poi partendo insieme Daria maggior certezza a chi l’udisse Del grato annuncio di sì buon effetto : Perché fra poco a lei sarian presenti.
Orë avient si quë un an li osturs les os al huan aveit duiz, [e] echarpiz od les suens oiselez petiz. […] » Pur ceo dit hum en repruver de la pume* del duz pumer, si ele cheit desuz le fust amer, ja ne savera tant rüeler que al mordre ne seit recunüe desur quel arbrë ele est crüe.
Così giungendo di sua vita al fine Disse fra sé quell’infelice fiera. […] Così talhor aviene a l’huomo ingrato, Che quel, che ’l tolse ad empia sorte, offenda : Che par che ’l giusto Dio merto gli renda, Quand’ei nol crede, eguale al suo peccato.
Marie de France, n° 7 Le loup et la grue Issi avint que un lus runga un os quë al col li vola, e quant el col li fu entrez, mut durement en fu grecez. […] La grüe lance le bek avant dedenz la gule al malfesant ; l’os en ad treit, puis li requist que sa pramesse li rendist.
Il qual mentr’ella al sacrificio intenta Stava divotamente inanzi a l’ara, Le disse : con qual cor cara sorella Puoi sacrificio far a quella Dea, Che t’è tanto nimica, e t’odia tanto, Ch’ognihor ti sprezza, e prohibisce a tutti, Qual di nessun valor, gli augurii tuoi ? […] Allhor trahendo un gran sospir dal core Ella al compagno fé simil risposta.