Dicendo che ferita era da lui, A cui ricorse ne i bisogni sui.
Sed quoniam mentes quoque ferreæ libidine superantur, infelix uir non cogitans, cui faceret iniuriam, illarum forma ac illecebris delinitus intra anni circulum quinque ex illis filios procreauit.
Abstemius 62 De viro gelotypo [sic], qvi vxorem dederat cvstodiendam VIr gelotypus [sic] uxorem, quam parum pudice uiuere compererat, cuidam amico, cui plurimum fidebat, dederat custodiendam, ingentem pollicitus pecuniam, si eam ita diligenter obseruaret, ut nullo modo coniugalem uiolaret copulam.
Sed cui longa iecur nequeat satiare cupido distulit admotas in noua damna preces, spem sibi confidens alieno crescere uoto seque ratus solum munera ferre duo.
Ahi di natura ugual disugual sorte, Che non so qual destin da cielo piove : Costui si pasce, e riso avien ch’apporte Al padron, cui tal danno appar che giove : Io fin lontan perseguitato a morte Vengo, se ’l guardo pur pensando altrove : Tal il favore ottien da molti spesso, Che in altri appar minore un fallo stesso.
Così devrebbe contentarsi ognuno De la sua sorte, e de la legge eterna, Che Natura, e di Dio la voglia impone Con egual peso a gli animali tutti : E la morte abbracciar con lieto volto Come la vita si tien dolce e cara, Essendo il fin d’ogni miseria humana La morte, e questa vita un rio viaggio ; Dal qual l’huom dee bramar ridursi al porto De la tranquillità de l’altra vita Qual si voglia, che sia per esser poi, Poi che nulla di noi perder si puote, Che non vivi nel sen de la Natura Come a Dio piace ; al cui voler ognuno Dee star contento, e far legge a sé stesso De la ragion, che dal suo santo senno Con dotto mezzo a noi discende e piove. Che chi tal vive e more, eterno vive Dopo la morte de l’humana vita ; E muor vivendo dolcemente in Dio, Con cui s’unisce con mirabil modo, Quando lascia la terra, e un Dio si rende.
Così gli huomini rei sovente ingrati Si stiman di favore esser cortesi A quelli, in cui non sian gli ufficii spesi De i vitii loro iniqui e scelerati.
Ben io sollo ancora, E ben conosco ciò ch’io faccio, e a cui : Però non temo di darmi solazzo Con teco sciocca, e fa’ pur ciò che puoi.
Così il Caval perdendo ognihor la pugna Partì dolente a viva forza spinto Da la pastura di quel sito ameno : E cercando d’aiuto in quella guerra Alcun, che soccorresse al suo bisogno, Incontrò l’huomo ; a cui con prece humile L’opra sua chiese. […] Così talhora un huomo, ch’è men forte Del suo nimico, e che soccorso chiede Ad huom, che più del suo nimico vale, Dopo le sue vittorie alfin rimane De la sua propria libertà perdente : Che quel, che vinto ha il suo nimico, ch’era Di lui più forte, assai più facilmente Può vincer lui, di cui già possessore Si sente, e haver tutte le forze in mano ; Né vuol haver per altri indarno speso Il valor proprio : ché raro si trova Chi per un altro il suo metta a periglio, Senza speranza di guadagno haverne.
Sed caue si me ames, ne cui hoc dicas.
L’ANGUILLA un giorno domandò al Serpente, Con cui spesso in amor giacer soleva Dentro a l’humor d’un paludoso stagno ; Da qual cagione derivar potesse, Ch’egli da tutti gli huomini fuggito, Ella a studio cercata era da ognuno, Ambi due sendo d’una stessa forma : E mille sue compagne prese e morte Havea veduto, ond’egli sempre in pace Vivea felice aventurosa vita, Come ella ognihor viveva in pena e in doglia Con continuo timor d’acerba morte.
E quella rispondendo esser contenta Patir più tosto ogni crudel disagio, Che mai lasciar quel loco, in cui già nata Gran tempo si vivea tranquillamente, Rese alfin vano il suo cortese invito.
TROVÒ Il Drago una lima in mezo un campo ; E stretto da la fame allhor la prese Per divorarla non sapendo quale Cosa ella fosse : e mentre la stringea Tra duri denti indarno ritentando Di spezzarla sovente, e non potea Modo trovar, che quella a lui cedesse ; Dice ella : o sciocco, di te stesso fuori Ben sei, se stimi di poter far danno, Pur picciol danno, a la durezza estrema De’ miei ferrigni e ben temprati denti, A cui cede l’acciar più saldo e forte.
UN huom, di cui la moglie in certo fiume Sendo caduta alfine estinta giacque, Il cadavero suo cercava indarno Incontra ’l corso de le rapid’onde.
A cui ridendo l’Asinel rispose, Va pur, s’hai forse a fare altro camino ; Ch’egli sta meglio assai, che non vorresti.
SEGUIVA lo Sparviero una Colomba, Di cui volea satiar l’avida fame, E dando a lei la caccia entro a le reti D’un villanel, ch’a lui tese le havea, Dando di capo alfin restò prigione.
Però guardisi ognun a cui fa dono De le sue gratie, e non si fidi troppo Di chi per molta esperienza, e lunga Prattica non conosce essergli amico.
Del suo debito fin manca il consiglio, In cui de l’eseguir chiaro è ’l periglio.
Quinci esso ancor per far prova maggiore Con strepito et stridor ratto si cala Sopra un grosso monton ; nel folto velo Di cui poscia il meschin l’ugne intricando, L’ugne mal atte a così gran rapina, Per prender altri alfin preso trovossi.
Io so, fratello, e ben mi tengo a mente Quel, che tu detto m’hai de l’odio antico, In cui sempre mi tien l’irata Dea ; Ma non voglio però darle risposta D’affetto tale : anzi con cor humile Pregarla sempre, e con giusta pietade Renderle honor quant’io posso maggiore, Per veder se placar posso lo sdegno Del suo superbo cor sì in me crudele : E con carezze mitigar l’offesa, Ch’ella m’ha fatto, e può farmi maggiore.
A cui l’astuta humilmente rispose.
Così l’huomo empio, e per natura forte L’inferior di forza e di valore, Quando li piace, a suo diletto offende, Cercando le cagioni, o vere o false Che sian, nel sen de la nequitia sua ; Con cui non val né la ragion, né il vero.
Così devrebbe ognun fidarsi in Dio, Né chieder più da lui quello, che questo : Ch’ei, cui nostro bisogno è manifesto, Quel, che convien, ci dà benigno e pio.
Voi, cui posto ha la cieca instabil Dea De le terrene cose in mano il freno E voi, ch’a più poter veloci andate Con sommo desiderio a i regii alberghi Per vender sol la libertà e la vita Ciechi o dal fumo de l’ambitione, O dal vano splendor del lucid’oro ; Deh raffrenate la superbia, e ’l fasto ; Deh misurate i passi vostri alquanto ; E con sano discorso giudicate Del corso e stato vostro il dubbio fine : Che anchor che retto da propitia stella Arrivar possa al desiato segno, Non ha però felice un giorno solo. Se del savio di Frigia entro a lo specchio, In cui l’huom savio sé medesmo intende E riconosce il pazzo i proprii errori ; Mirate un poco, haver chiara potrete L’oscurità de le miserie vostre : Quinci del vero alfin fatti più accorti, E scorto di Virtute il bel camino, Fuor vi trarrete de l’error comune, Nel quale ognun precipitoso corre : Né stimarete l’oro, o ’l lucid’ostro, O le delicatissime vivande, Le feste, i giuochi, o i trionfali honori Contrapesati da continue cure, E da mille sospetti indegni et vili, Più, che la dolce amata libertade, Più, che l’almo riposo, e l’otio honesto Accompagnato da la gioia immensa D’una tranquillità grata e sicura, Che rende l’huomo in povertà beato.
Ché così al mondo alfin regger si puote, E la beltà, di cui vestita è l’alma, Preceder deve a la beltà del volto, Che nulla giova senz’interno merto.
Ma il Contadin, cui strana cosa parve, Che d’una fiera divenisse moglie La giovinetta sua figliuola, prese Partito di sbrigarsi da tai nozze In questo modo : et tosto gli rispose.
Quindi l’Aquila un giorno andando a spasso Per l’ampio spatio d’una ombrosa valle Da la fame assalita astretta venne Di pasturarsi : e come quella, a cui Stavan sempre nel cor gl’intesi patti Di mai non far al suo compagno offesa ; Da molti augelli per gran spatio astenne L’adunco artiglio : e tuttavia cercava Di prender quelli di più brutto aspetto, Quando dal giogo d’una eccelsa rupe Sentì ullular del suo novo compagno I non mai più da lei veduti figli Nell’aspro nido quasi anchora impiumi.
L’ALLODOLA è un augel poco maggiore Del Passero, et di piuma a lui simile, Ma sopra il capo un cappelletto porta Di piume, ch’assai vago in vista il rende : Questa di far il nido ha per usanza Dentro a le biade de gli aperti campi ; In cui suol partorir le picciol uova De la stagion de l’anno in quella parte, Che può bastarle a far prender il volo Ai nati figli al cominciar la messe.
Né trovaro alcun mai, cui grave fallo Ciò non paresse, consigliando il vecchio, Ch’anch’ei s’accomodasse afflitto e giallo.
Da cui già spaventato il picciol Topo Per l’importuno et improviso moto Diede a fuggirsi, e tornò tosto dove Trovò la madre di sospetto piena, Che la cagion del suo fuggir li chiese : Ond’ei tremando a lei così rispose.
Ainsi, par exemple, donnant au c le son du q, et mettant des o pour des u, il a écrit qui ou qoi, quoi pour cui ; ainsi il dit intellego pour intelligo, etc., ingrabantibus pour ingravantibus, etc. […] « Je m’en souviens, écrit le Père Vavasseur dans son livre intitulé De ludicra dictione 184, le Père Sirmond m’a souvent raconté que, lorsque Pierre Pithou eut édité pour la première fois les cinq livres de Phèdre, et par égard pour leur vieille amitié les lui eût envoyés à Rome à titre de cadeau, les Romains furent d’abord surpris de la tardive publication du volume, et, comme c’est un peuple emunctæ naris, Natura nunquam verba cui potuit dare, ils furent assez portés à croire récente et supposée une production qui se révélait au bout de tant de siècles et qui était restée si longtemps cachée.