e col Cavallo Un sol padrone ; et ugualmente carco Era ciascun da lui
del
proprio peso. Occorse un giorno, che sendo in cam
al soverchio peso Pregò il Cavallo in supplichevol modo Che d’un poco
del
peso per alquanto Di spatio gli piacesse di sgrav
nir a fine : E negando di farlo il suo compagno Cadendo lasso in mezo
del
sentiero Terminò col viaggio anchor la vita.
socio la gravosa pelle. Allhor si dolse quel crudele indarno Del mal
del
suo compagno, et della pena Del doppio peso : che
te Tutto sul dorso suo venuto gli era. Così quel servo fa, che
del
conservo Non ha pietade : et non consente in part
el conservo Non ha pietade : et non consente in parte Talhor levargli
del
suo ufficio il peso Per picciol tempo : onde ne n
uel sopra lui cade Tutta, né trova chi gli porga aiuto Per giusta ira
del
ciel, che lo permette. Se l’huom possente ha de
Così Giove la Quercia altera prese ; Venere il Mirto ; il Pino il Dio
del
mare ; Apollo il Lauro ; et la sublime Pioppa In
Dio del mare ; Apollo il Lauro ; et la sublime Pioppa In gloria cesse
del
famoso Alcide. Questo veduto allhor Pallad
nome divin restasse infame. Udito ciò la generosa Dea Per dar
del
suo saper degna risposta In sì fatto parlar la li
o sommo Padre, De gl’immortali Dei qual più gli aggrada Inutil pianta
del
suo pregio insegna, Ch’io quanto a me, cui sempre
figlia Il Padre Giove ; et tutto allegro disse. O degna figlia
del
tuo Padre Giove, Ben mostri al tuo parlar accorto
dre Giove, Ben mostri al tuo parlar accorto et saggio, Et al giudicio
del
sublime ingegno, Che non del ventre di femina vil
parlar accorto et saggio, Et al giudicio del sublime ingegno, Che non
del
ventre di femina vile, Ma del mio divin capo usci
l giudicio del sublime ingegno, Che non del ventre di femina vile, Ma
del
mio divin capo uscita sei. Però sarai da i secoli
do tuo Quest’anno quel poder, c’hai da me preso E lascia a me la cura
del
governo De le stagioni del futuro tempo ; Che t’a
r, c’hai da me preso E lascia a me la cura del governo De le stagioni
del
futuro tempo ; Che t’avvedrai qual sia ’l tuo sen
seguente Anno la messe andò tanto feconda, E la vendemia, e ’l resto
del
raccolto, Che vinse di gran lunga ogni speranza,
tadino avaro. Da quella volta in poi lasciò il Villano Sempre la cura
del
governo a Giove D’ogni stagione, onde si volge l’
si volge l’anno. E sempre quello in buona parte prese, Che dal parer
del
suo consiglio venne. Così devrebbe ognun f
Quel, che convien, ci dà benigno e pio. Lascia di te la cura al Re
del
Cielo, Se vuoi viver contento al caldo, e al
[50.] DEL GRANCHIO, ET LA VOLPE. IL Granchio un giorno era
del
Mare uscito Per novello disio di trovar cibo, Che
l’onde salse ; Onde pascendo a suo diporto andava Lungo a la spiaggia
del
vicino lito. E la Volpe, che intorno iva cercando
ontan subito corse, E tosto l’afferrò per divorarlo. Ei che s’accorse
del
crudele effetto, Né scampo a sua salute haver pot
vivessi gli anni, Ho voluto cercar novella strada Di pasturarmi fuor
del
luogo usato, In parti entrando a mia natura avver
, per certo foro Dentro guardava ; e l’Asinel vedendo Giacersi a lato
del
suo infermo padre, Chiamollo a sé, pregandol ch’e
amino ; Ch’egli sta meglio assai, che non vorresti. Tal ti dee
del
nimico esser sospetto Il volto, che d’amor ti mos
spetto Il volto, che d’amor ti mostra segno ; Se con l’occhio miglior
del
sano ingegno Non vedi qual gli giace il cor nel p
ivi in rissa, e star vuoi senza pene, Sospetta dal nimico anchor
del
bene.
ettar chi gl’invitasse Ciascun di loro a ristorar si diede La fame, e
del
camin l’aspro disagio, Intorno a’ varii delicati
to si nascose. Ma partito colui, che fu cagione De la paura, e
del
disturbo loro, Tornar di novo a l’assaggiato cibo
di sospetto pieni : Né però si sapean levar da mensa Dal gusto presi
del
soave pasto, Se un’altra volta l’importuno hostie
Cretense vino, Che gocciolando dal mal sano fondo Spargea ’l terreno
del
liquor soave. Del qual poi che appagato hebbe cia
a stanco, In cotal modo a l’hoste suo rispose. Gratie ti rendo
del
cortese accetto Che fatto m’hai nel tuo nobil con
rendo del cortese accetto Che fatto m’hai nel tuo nobil convito Degno
del
gusto de’ celesti Heroi ; Perché il favor (e sia
bertà e la vita Ciechi o dal fumo de l’ambitione, O dal vano splendor
del
lucid’oro ; Deh raffrenate la superbia, e ’l fast
Arrivar possa al desiato segno, Non ha però felice un giorno solo. Se
del
savio di Frigia entro a lo specchio, In cui l’huo
n poco, haver chiara potrete L’oscurità de le miserie vostre : Quinci
del
vero alfin fatti più accorti, E scorto di Virtute
o in povertà beato. Dunque colui, ch’esser felice brama, Segua
del
Topo rustico la norma ; Che viverà nella più nobi
aveir ; bien s’aperceut ke par le lin sereient oiseus mis a lur fin ;
del
lin pot hum la reiz lacier, dunt hum les pot tuz
ele duna a sun lin peis, ja par nul de eus nul perdra meis. Cil fist
del
lin engins plusurs : dunc prist oisels granz e me
lin engins plusurs : dunc prist oisels granz e menurs ; n’eüssent pas
del
mal eü, s’il eüssent dunc cunseil creü. Ceste sem
sun mal le volt oster, si damage l’en deit venir, dunc est trop tart
del
repentir.
Orsù fratelli andate A mostrarmi di ciò ragion più chiara Con l’opra
del
valor, che regna in voi. Che colui, che tornando
voi. Che colui, che tornando a me con prova Maggior de le sue forze e
del
suo grado, Men darà indicio con più degno effetto
o effetto, Colui da mia sentenza havrà la lode E de la maggioranza, e
del
valore. Così da lei partiti, ognun si mosse A que
biltate e di virtute Nibio vagli tu men de lo Sparviero. E quanto più
del
Topo è la Colomba Degna d’honor, cotanto tu Sparv
gli occhi, Cerca preporsi alla virtute altrui. Di ciascun l’opra è
del
valore il saggio5. 5. Var. 1577: L’opra d’ognu
primo a parlar prese, Fu di parer, ch’un gran sonaglio al collo Legar
del
Gatto si devesse al fine, Che ’l suo venir al suo
se al fine, Che ’l suo venir al suon si conoscesse Da lor, c’havriano
del
fuggir tal segno. Tosto approvossi tal par
ge in eseguir util consiglio : Però colui, che sua sentenza porge Che
del
publico ben cagione apporta, Dee pensar prima, ch
ben cagione apporta, Dee pensar prima, che la lingua snodi, Se ’l fin
del
parer suo puote eseguirsi Senza pericol di chi ’l
ria tornar il vide Di sudor carco, afflitto, polveroso, E tutto homai
del
proprio sangue molle Per le ferite, ch’egli havut
da miseria tale : E compensando il duol de le fatiche Con la dolcezza
del
viver in pace ; E del Cavallo ogni trionfo e pomp
mpensando il duol de le fatiche Con la dolcezza del viver in pace ; E
del
Cavallo ogni trionfo e pompa Con l’infelicità del
l viver in pace ; E del Cavallo ogni trionfo e pompa Con l’infelicità
del
mal presente, Racconsolato e di sua sorte lieto M
lasciò cadersi a terra Per riposar l’affaticate membra Sotto l’ardor
del
caldo estivo Sole. E rivolgendo con la mente spes
ognihor l’afflisse, Con la memoria de i passati guai Cresceva il duol
del
suo presente affanno. E come quel, ch’a tedio hav
zi a lui Con ricercar ciò, ch’ei volea, comparse. L’improviso apparir
del
mostro horrendo Empì ’l vecchio meschin di tal pa
sposta darle, Disse : Io ti chiamo acciò mi presti aiuto In caricarmi
del
caduto peso, Che, come vedi, ancora in terra giac
TOPO GIOVINE, ET la Gatta, e ’l Galletto. UN Topo giovinetto uscì
del
buco, Ove la madre non prima ch’allhora Lasciato
alletto Et in un Gatto, che tosto che ’l vide S’appiatò cheto in mezo
del
sentiero Per aspettar il Topo, che pian piano Inc
i, e tornò tosto dove Trovò la madre di sospetto piena, Che la cagion
del
suo fuggir li chiese : Ond’ei tremando a lei così
e rabbia Per fin che salvo a te pur mi condussi. E questa è la cagion
del
mio spavento, De la mia fuga, e del mio tanto aff
mi condussi. E questa è la cagion del mio spavento, De la mia fuga, e
del
mio tanto affanno. Allhor la madre, che be
conosci anchora Il ben dal male come quel, che sei Pur dianzi uscito
del
mio ventre al mondo, Et d’ogni esperienza ignudo
come tu semplice sei, Tutto benigno, e pien di scherzi vani ; Né mai
del
sangue altrui si nutre e pasce : E sol per giuoco
miri a l’opre : E spesso un, che par rio nel fronte, copre Ogni bontà
del
cor sotto al bel manto. Non giudicar dal volto
Ariosti, G. M. Verdizzotti e il loro influsso nella vita e nell’opera
del
Tasso, Ravenna, A. Longo, 1970, p. 161-200.
Contenu 1. Épître dédicatoire à « Il Sig. Giulio Capra
del
Sig. Gio. Battista, dottore, et cavaliere » ; 2.
Perry Sources présumées « A i lettori. Del padre, e
del
figliuolo, che menavan l’asino » P721 F
5. « Delli due vasi » P378 Faerno, 1 16. « Dell’agnello e
del
lupo » P98 Faerno, 87 17. « Del caval
16 18. « Del sole, e Borea » P46 19. « Della volpe, et
del
riccio » P427 Faerno, 17 20. « Della
galletto » P716 Abstemius, I, 67 22. « Del toro e
del
montone » P217 23. « Dell’asino, e ’l ca
rad. vernaculaire de l’Æsopus Dorpii). 29. « Della cornacchia, et
del
cane » P127 Faerno, 12 30. « Dell
a, et del cane » P127 Faerno, 12 30. « Della volpe, e
del
gallo » P671 Poggio Bracciolini, Facetiae,
cervo, e ’l cavallo, e l’huomo » P269 41. « Del porco, et
del
cane » PØ Abstemius, I, 41 42. « Del
la cicala » P112-373 Faerno, 7 46. « Della volpe, et
del
pardo » P12 47. « Della mosca » P167,
PØ Faerno, 43 53. « D’un marito, che cercava al contrario
del
fiume la moglie affogata » P682 Faerno,
ittadino, e ’l topo villano » P352 57. « Del contadino, et
del
cavalliero » P402 Faerno, 15 58.
asino, e ’l lupo » PØ Faerno, 55 60. « Dell’asino, e
del
lupo » P187 Faerno, 4 61. « Della vol
ito, et la capra » P341 Faerno, 5 64. « Dell’asino, e
del
cinghiale » P484 Faerno, 54 65. « Del
one, et della volpe » P10 Faerno, 18 66. « Dell’aquila, e
del
corvo » P2 67. « Della volpe ingrassata
api » PØ ; cf. P400 Abstemius, I, 38. 73. « Del pavone, e
del
merlo » P219 Faerno, 22 74. « Del gal
42 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 74 85. « Del gatto, e
del
gallo » P16 Gabriele Faerno, Fabulae centum
Gabriele Faerno, Fabulae centum, 65 89. « Del leone innamorato, e
del
contadino » P140 90. « Della scrofa, e
77 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 70 93. « De gli arbori, e
del
pruno » P262 Gabriele Faerno, Fabulae centu
P325 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 96 98. « Dell’asino, e
del
vitello » ??? 99. « Del contadino, e Gio
Donderi, Bruno, « Giovanni Mario Verdizzotti, un favolista italiano
del
Cinquecento », Ambra, nº 6, 2005, p. 50-65. Consu
00, 220 p. Toldo, Pietro, « Fonti e propaggini italiane delle favole
del
La Fontaine », Giornale Storico della Letteratura
« Giovanni Mario Verdizzotti, letterato veneziano, amico e ispiratore
del
Tasso », Lettere italiane, nº 1, 1968, p. 214-226
Ariosti, G. M. Verdizzotti e il loro influsso nella vita e nell’opera
del
Tasso, Ravenna, A. Longo, 1970, p. 161-200. Vent
Ariosti, G. M. Verdizzotti e il loro influsso nella vita e nell’opera
del
Tasso, Ravenna, A. Longo, 1970, p. 201-221. Vent
Ariosti, G. M. Verdizzotti e il loro influsso nella vita e nell’opera
del
Tasso, Ravenna, A. Longo, 1970, p. 257-272. Vent
, « Giovanni Mario Verdizzotti, pittore e incisore, amico e discepolo
del
Tiziano », Bollettino del Museo civico di Padova,
otti, pittore e incisore, amico e discepolo del Tiziano », Bollettino
del
Museo civico di Padova, nº 59, 1970, p. 33-73.
l Pardo Vedi la pelle mia di varie macchie Con ordine e misura al par
del
cielo, Ch’è di stelle dipinto, adorna tutta Con t
orta A qualunque la vede : e tal è ’l pregio Suo, che Baccho figliuol
del
sommo Giove Non si sdegna coprir le belle membra
la faccia bruna, E sempre forma variar conviene. Più bello è il bel
del
cor, che il bel del volto.
empre forma variar conviene. Più bello è il bel del cor, che il bel
del
volto.
ai copiosa preda, E sendo a l’Asinel toccato in sorte Il far le parti
del
comun guadagno, Il tutto giustamente in tre divis
orta da l’altrui ruina Quasi tutta la preda in un raccolse, Per farla
del
Leon debita parte ; E presentolla a la superba fi
tiero d’allegrezza pieno Le disse. ove sorella, hai così bene Appresa
del
divider la ragione, Che con tanta dottrina hor m’
la via di sua salute Senza tema di biasmo, o d’alcun danno. Se vuoi
del
tuo mistier cavar guadagno, D’un tuo maggior
tenesser con gran cura a mente Per riferirla al suo ritorno a lei. Or
del
campo il padrone un giorno venne Di là passando c
figliuolo insieme ; E veduto la biada a terra china Dal peso andarsi
del
maturo grano, Che de l’aride spiche homai cadea ;
tri Di questa Villa, e pregagli in mio nome A venir tutti a l’apparir
del
Sole A darci in presto del servitio loro In tagli
agli in mio nome A venir tutti a l’apparir del Sole A darci in presto
del
servitio loro In tagliar questa homai matura biad
novella : Né apparve in tanto metitore alcuno. Ma quando più l’ardor
del
mezo giorno Scaldava i campi, et aspettato indarn
arno Gran pezzo haveva gli invitati amici A la sua stanza quel padron
del
campo, Alfin col suo figliuol venne in su ’l loco
i parente nostro, Che ci servino in ciò de l’opra loro Per la mattina
del
seguente giorno. Gli augelli allhor l’ordi
t que hors le traient : bien est dreiz que la peine en aient. Issi va
del
mauveis sergant, que tut en jur va repruchant sun
sun grant servise a sun seignur : ne [se] prent garde de l’honur [ne
del
bien ne del gueredun k’il ad eü en sa maisun]. De
ervise a sun seignur : ne [se] prent garde de l’honur [ne del bien ne
del
gueredun k’il ad eü en sa maisun]. De ceo qu’il m
più brutto aspetto, Quando dal giogo d’una eccelsa rupe Sentì ullular
del
suo novo compagno I non mai più da lei veduti fig
o il ricevuto torto : E trovando per via l’altero augello Compagno, e
del
suo mal cagion novella, Che di ritorno sen veniva
vento co i possenti vanni, Con aspra insopportabile rampogna Cominciò
del
suo mal seco a lagnarsi. Quinci l’Aquila i
unto allhora Che più da quel credeasi esser lontana, Et sol per colpa
del
giudicio torto Del Guffo tratto dal paterno affet
più si crede Esser per quelle rispettato al mondo : E duolsi a torto
del
giudicio altrui, Che drittamente a sé contrario v
to rimirando a dietro Si diedero a fuggir velocemente A i vicin tetti
del
nativo albergo ; Et ei di ciò restò schernito, e
litia pieno Rimaner suole a lungo andar, né puote Sempre venir al fin
del
suo pensiero Con la bugia del suo fallace inganno
ngo andar, né puote Sempre venir al fin del suo pensiero Con la bugia
del
suo fallace inganno, Ché finalmente il ver da sé
haut la porte, cheïr la leit. La corneille fut en agueit : avant ala,
del
bek feri, si bien que la scale un poi overi ; le
pertuset ot fet petit, [si] que li egles pas nel vit. Par ceste fable
del
peissun nus mustre essample del felun que par agu
li egles pas nel vit. Par ceste fable del peissun nus mustre essample
del
felun que par agueit e par engin mescunseille sun
o sciocca, a che ti metti in core Di ciò paura, se natura larga Ti fu
del
dono, ond’a me tanto è scarsa ? Havendo tu per du
gion m’affanno a torto. Ma che so io, che ’l Signor nostro altiero Me
del
numero far di quei non voglia, Che de la coda non
r la pena Del fallo anchor, che non ha in mente havuto. Chi servo è
del
Tiran vive in periglio, Né li giova innocenz
e piume, E se gli oppose con simil parole. Pensi tu forse, che
del
regno il peso, Che tanto importa, sostener si pos
il peso, Che tanto importa, sostener si possa Da la vaghezza esterior
del
manto Più, che da la virtù d’un saggio core, E da
in sorte haverlo, Con sicurezza di noi tutti insieme, E de la vita, e
del
tuo proprio honore. Non seppe a tai parole
puote, E la beltà, di cui vestita è l’alma, Preceder deve a la beltà
del
volto, Che nulla giova senz’interno merto. Esse
nte li escriz, ki fu defreiz e enveilliz ; malades jut mut lungement,
del
relever n’i ot n[i]ent. Tutes les bestes s’asembl
e as esquanz n’i chaut n[i]ent, e teus i a i vunt pur dun a la devise
del
leün, e saver voleient li plusur si en lui ad mes
nunpuissant ad poi amis. » Par me[is]mes ceste reisun pernum essample
del
leün : ki que unc chiecë en nunpoeir, si piert sa
[72.] DELL’ORSO, E LE API. L’ORSO
del
bosco fuor da fame tratto Trovò due case d’Api, e
orno a quelle Incominciò lecar il mel, che in terra Gocciolando cadea
del
buco fuori, Del buco, che per tutto era già pieno
utto era già pieno. E mentre ch’ei così pascendo andava La lunga fame
del
liquor soave, Una Ape il vide, et li mordea l’ore
oquace Rana : Che allhor mirando gli atti, ch’ei facea, Haveva il fin
del
suo pensiero inteso : Et aprendosi il calle innan
nell’acque Tranquillamente e senza alcun travaglio. Ma quando al mezo
del
camin fur giunti L’iniqua Rana a far si diede il
imor e dal bisogno Prendeva di valor doppio argomento, Tardi avveduto
del
nimico inganno, Arditamente e con possente lena S
torto offesa, A la vita, o a l’honor tramando inganno, Primo nel fil
del
proprio laccio cade, E da la forte man giusta di
llo ridendo, e supplicollo Con sermon efficace, ch’ei volesse Scender
del
tronco, ov’egli alto sedea, E benigno di sé copia
o, ov’egli alto sedea, E benigno di sé copia facesse A lei, che forte
del
suo amor accesa Già si sentia del suo leggiadro a
i sé copia facesse A lei, che forte del suo amor accesa Già si sentia
del
suo leggiadro aspetto, E de l’alta virtù del suo
mor accesa Già si sentia del suo leggiadro aspetto, E de l’alta virtù
del
suo bel canto : Onde abbracciarlo come caro amico
en un muster e si ura. Un sun cheval aveit mut cher, si l’atacha hors
del
muster. A Deu requist qu’il li aidast e que un a
ant cum fist cestë ureisun, sun cheval emblent li larrun. Quant il fu
del
muster eissuz, si esteit si cheval perduz. Arere
serunt ars tuit mi oisel. » Par cest essample entendum nus que si est
del
riche orguillus : ja del povre n’avera merci pur
» Par cest essample entendum nus que si est del riche orguillus : ja
del
povre n’avera merci pur sa pleinte ne pur sun cri
que jeo la vodreie manger ; ne me larreient aprismer. » Issi est [il]
del
tricheür : en esfrei est e en poür - sa conscïenc
nscïence le reprent – que tuz cunuissent sun talent. Forment li peise
del
leal, quë hume ne tient ses fez a mal.
gli Aquilini suoi. Il che veduto allhor l’afflitta madre Restò
del
caso rio trista e dolente ; Et non potendo farne
Non molto dopo avenne, ch’ivi presso Havendo alcuni habitator
del
loco Immolato una Capra al sacrificio, Del nido l
materia il foco spinse. Tal ch’uscita la fiamma, e circondando Tutto
del
vampo suo già intorno il nido, De l’Aquila i figl
medesmo colto In qualche occasion tardi o per tempo. Vindice è Dio
del
giusto a torto offeso.
DELLA GRUE. IL Lupo devorato havea un agnello ; Et per la fretta,
del
mangiar c’havea, Un osso rotto con l’acuta punta
ser ti deve L’haver già tratto a salvamento il collo Fuor delle fauci
del
rapace Lupo. Così gli huomini rei sovente
tiato a pieno L’ingorda brama, e ’l temerario ardire, Venne sì gonfia
del
mangiato pasto, E di quella bevanda a lei soave,
anda a lei soave, Che non potea levarsene, e cadendo Anzi più in mezo
del
liquor profondo De la vicina morte in mano andava
pinto da la fame il volo Torse verso un Serpente, che tra certi Sassi
del
mezo giorno al sol dormiva : E fra l’ugne ne ’l p
huom, che intento Tutto al guadagno senza haver rispetto Del mal, che
del
suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò che
llace. Cos’io resterò essempio a gli altri avari, Ch’ogn’un
del
proprio a contentarsi impari. Chi vuol l’incert
Ch’ogn’un del proprio a contentarsi impari. Chi vuol l’incerto vien
del
certo a nulla.
ndo cadde Oppresso anchor da quel soverchio peso, Sì che riverso andò
del
fiume al fondo. Ma risoluto il sal nell’onda moll
leggiero De le spugne portava il debil peso, Credendo sciorsi anch’ei
del
proprio carco, A studio riversciossi entro a quel
abitar insieme. Et sendo un giorno a la campagna usciti Su la stagion
del
più gelato Verno ; L’huom, che dal freddo havea l
se, Rispose, che col caldo, che gli usciva Nel fiato fuor da la virtù
del
core, Dava ristoro a l’agghiacciate mani. Poi giu
a memoria al vento ; E ne rendono in cambio ingiuria e biasmo, Quando
del
lor bisogno al fin son giunti. Prezza colui, ch
to gonfiossi, Che preso allhor da quella gloria vana, E tosto in mezo
del
camin fermato Levando per superbia in alto il cap
volea Mirando hor qua hor là mover un passo : E d’esser nato un Asino
del
tutto Già si scordava, se non era allhora Il suo
[69.] DI DUE RANE C’HAVEAN SETE. SOTTO l’ardor
del
caldo estivo Sole Già si seccar molte paludi e st
d’alto muro cinte, Quantunque dolce nel principio fia L’acque gustar
del
nostro ardor ristoro ; Dubito ancor, che se malva
arla sorridendo, E mordendo con motti acerbi e gravi La gran tardezza
del
suo pigro piede. La Testuggine allhor di sdegno a
sdegno accesa Al corso sfida la veloce Lepre : Et ambedue per giudice
del
fatto Chiamar d’accordo la sagace Volpe. Or dato
r che muti loco, Che addormentossi ; confidando troppo Nella velocità
del
presto piede Tutto l’honor de la presente impresa
ient ; un en ad pris, od tut s’en va. Un gupil vient qui l’encuntra ;
del
furmage ot grant desirer qu’il en peüst sa part m
estut cheïr e li gupil le vet seisir. Puis n’ot il cure de sun chant,
del
furmagë ot sun talant. Ceo est essample des orgui
gior cose attende, Senza difesa far nol cura, o stima. L’oppression
del
forte è ardir del vile.
Senza difesa far nol cura, o stima. L’oppression del forte è ardir
del
vile.
ran bisogno. Il che fatto più volte alfin commosso Da la pietà
del
suo grave lamento Sceso dal Cielo sopra un nuvol
non suole Porger soccorso a l’huom, ch’è neghitoso, S’ei da sé stesso
del
suo ben bramoso Ad aiutarsi cominciar non vuole.
i mancasse, Degno saresti a mio giudicio certo D’esser tu sol l’augel
del
sommo Giove. Allhor quel sciocco, che sent
l rostro il cibo in terra cadde. Così scorgendo la sagace Volpe Esser
del
suo disegno al fin venuta, Gli prese il pasto, e
iun digiuno. Sì ch’io non temo, che mi rompa l’ossa Altri, che
del
padron il duro legno, Sia ch’ei si sia ; né
ignore, Pur che ne stia de la sua sorte al segno, Né provi stato
del
primier peggiore. Nulla è il loco cangiar con s
etta Forse per far l’ufficio, che tu stessa Facendo vai di messaggier
del
fatto. Udito ciò la Volpe, che credea Che
la pregava il Gallo Ch’ella aspettasse i suoi novelli amici, Ch’erano
del
suo ufficio a lei compagni : Perché con essi poi
, E senz’altro a fuggir tosto si diede Con sua vergogna e gran piacer
del
Gallo. Che con le burle a la nemica ordite Da le
ele fera sa volenté. Li chevaler li ad cunté que mut li ert mesavenu
del
larun qu’il ot despendu ; si ele ne li seit cunse
u del larun qu’il ot despendu ; si ele ne li seit cunseil doner, hors
del
païs l’estut aler. La prude femme li respundi : «
Maudite seit tel nureture ! » Pur ceo dit hum en repruver de la pume*
del
duz pumer, si ele cheit desuz le fust amer, ja ne
el arbrë ele est crüe. Sa nature peot hum guenchir, mais nul n’en put
del
tut eissir.
ue ele mena cum il se deust par tut guarder e des veneürs desturner e
del
lu* qu’il ne l’encuntrast qu’il ne l’ocesist e ma
pas », fet il, « duter. Il ne nus veut fere nul mal ; de l’autre part
del
cheval est descenduz, si est mucez : de nus veer
Marie de France, n° 87 Les deux loups Deus lus hors [
del
] bois s’encuntrerent ; la se resturent, si parler
e pramistrent jamés bien ne ferunt, ceo distrent. Ceo veit hum suvent
del
felun, ki a mut petit d’acheisun laisse le bien q
n nella spelonca homai Da gli anni reso debile, et infermo, Et inetto
del
tutto a procacciarsi, Come quando era giovine sol
hi l’amò l’ultimo vale : E testamento far per far herede Alcun di lor
del
destinato scetro. Dunque ubidillo il Corvo
mostrar gran doglia Del suo languire sospirando alquanto ; E a dirle
del
suo stato lo pregava. Le rispose il Leon c
Marie de France, n° 71 Le loup et le hérisson Del lu dit e
del
heriçun, que jadis furent cumpainun. Li hiriçuns
üssez ore einz lessé, mes jo t’ai bien suzveizïé. » Ceo peot hum veer
del
felun, ke veut trahir sun cumpainun : il me[is]me
vean consunto. Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio
del
suo mal forte si duole : Et poi le dice con
allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi che
del
fango, ove ella aspro soggiorno Suo malgrado
e con tremante core Dicendo, Che sendo ei di sotto a lui A la seconda
del
corrente humore Non potea torbidar l’acque di sop
pure. E non sapendo che risponder l’empio Contra la forza e la ragion
del
vero, Soggiunse irato con altera voce, Ch’era sfa
eise ; n’i averez rien que vus despleise, asez averez ferine e greins
del
blé que remeint as vileins. La reine vient par sa
jeo l’atacherai al mien : la rivere pass[er]um bien. » La suriz s’est
del
fil lïee, a la reine s’est atachee ; el gué se me
ns cumpainuns, tant facent a eus grant honur, si rien lur deit custer
del
lur, que durement ne seient liez, si par eus seie
Ella, che non volea per modo alcuno Folle patir d’esser minor
del
Bue, Né creder che colui, ch’era suo figlio, Lei
al vecchio insano Di mente, che dal tempo misurando Il senno, sprezza
del
giovine saggio Il buon consiglio di ragion matura
; et ciò provava a i segni Del proprio corpo senza piume tutto, E che
del
pel del Topo era vestito, Con cui conformità per
provava a i segni Del proprio corpo senza piume tutto, E che del pel
del
Topo era vestito, Con cui conformità per specie h
ver poco consiglio. Il figlio tosto ubidiente cede A le parole
del
suo buon parente, E fa quel, ch’ei gli dice,
ggio D’openioni altrui varie e diverse Ambi fornir il resto
del
viaggio. Così due pesi l’Asinel sofferse,
tutti, Che lo mirar tosto che prima apparse. Veduto il vecchio
del
rimedio i frutti Esser sol burle e scherni a
lent dit que ambedeus achatereit u ambesdeus les i larreit. Veer pöez
del
nunsavant que sun mal us prise autretant cume sun
aiderai anceis : tel est la custume e la leis. » Ceo veit hum suvent
del
felun : tant enchantet sun cumpainun qu’il me[is]
sposa. Ma il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor
del
fier Leone, Che non haveva più l’ugne, né i denti
de sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l suo nimico Vedendolo
del
tutto inerme e privo Di quel, che contra lui poss
pino : E sentitosi il piè punto e ferito Di lui si dolse, e
del
suo rio destino. Dicendo che ferita era da l
buche tient ; quant en mi le puncel [par]vient, en l’ewe vit l’umbre
del
furmage ; purpensa sei en sun curage que aveir le
, Al momentaneo preferir si deve : Perch’a noi sembrar suol
del
tutto esterno Quel, che si perde allhor, che si r
il est pruz e curteis ; li osturs est sis senescaus, que n’esteit mie
del
tut leiaus. Li elges sist par un grant chaut sur
anz treire. Esopë apel’um cest livre, qu’il translata e fist escrire,
del
griu en latin le turna. Li reis Alvrez, que mut l
Che di necessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E
del
ben e del mal, come la sorte Di ciascun brama, e
cessità Natura impone A tutti madre, e gran dispensatrice E del ben e
del
mal, come la sorte Di ciascun brama, e con ragion
é, né d’altri havea Cura, che punto l’annoiasse mai, Già tutto gonfio
del
concesso honore Stimando sé maggior di quel, ch’e
utti ; e se tardate a farlo Qual poco ubidienti a’ miei mandati, Farò
del
tronco mio tal fiamma uscire, Che tutti v’arderà
mei. » Autresi est de meinte gent, se tut ne* veit a lur talent, cume
del
cok et de la gemme ; veu l’avums de humme et de f
ris. Sa mençunge est plus covenable e meuz resemble chose estable que
del
gupil la veritez. » Nul de eus ne deit estre juge
me, ch’esclusa de l’amata luce Vivo infelice sotto eterna notte Priva
del
maggior ben, ch’al mondo sia, Vedete star senza q
piano : Et da stupore, et gran cordoglio mossa, Né senza grave horror
del
suo periglio Tra sé medesma fé cotai parole. O de
ce : E prendendolo in mano, e ponderandol Per farne stima, lo chiedea
del
prezzo, Quando l’astuto in un medesmo punto Toccò
egli in suo servitio havea Tanto sudato, che vittorioso Fatto l’havea
del
suo fiero nimico ; Era ben degno ancor, ch’esso i
ch’è men forte Del suo nimico, e che soccorso chiede Ad huom, che più
del
suo nimico vale, Dopo le sue vittorie alfin riman
est eissuz ; dunc furent il tuz deceüz. Par cest essample le vus di,
del
nunsavant est autresi ; ki creit* ceo quë estre n
; jeo sui pur le mien fet amee e mut cheri e bien gardee. » Issi fet
del
natre felun : quant il ad [le] bien en bandun, ve
vorace, e ria. Allhor fermato il Lupo, e nulla mosso A sdegno
del
parlar suo dispettoso, Ma con la mente tutta chet
così rispose. Più tosto voglio esser da voi schernita, Temendo in van
del
mal falsa cagione, Che stando in gran pericol de
creatures s’asemblerent ; a la Destinee en alerent, si li mustrerent
del
soleil que de femme prendre quert cunseil. La De
avant ; tant par destreit tant par amur li estut cunustre la verrur ;
del
sanc li dist que ele espandi e que li autre estei
emander a chescun fust qu’il pot trover al quel il li loënt entendre,
del
queil il puisse mance prendre. Quant ensemble en
l’huom non sa quel, che Dio prescrive. Pria che morte ti colga esci
del
vitio.
al latrar desse le spalle, Essendo egli di corpo e di valore Maggior
del
cane, e con la fronte armata Di dure corna a cont
e di mel piene Volendosi da quello alzar a volo Parte da la gravezza
del
pasciuto Ventre, parte dal mel tenace fatto Dal S
[53.] D’UN MARITO, CHE CERCAVA AL CON-trario
del
fiume la moglie affogata. UN huom, di cui la m
, Che la seguivi, et trar volevi a morte ? Et detto ciò gli diè tanto
del
capo Sopra d’un sasso, che morir convenne.
rop crei[en]t autri parole, que tut les deceit e afole. Li fous quide
del
veizïé quel voillë aver cunseillé si cume sei, me
dell’improviso colpo. Et veduto lo stral tutto nascoso Nell’intestine
del
suo proprio ventre, S’avvide ancor, che de lo str
nella prospera fortuna Divien superbo, e non conosce mai La debolezza
del
suo vil valore : Che, se in contraria sorte avien
nciar si diede Così leggiadro e dilettoso canto, Ch’a quello il Cuoco
del
suo errore avvisto Il riconobbe al primo suono, e
suoi lavori. Ella, che per natura era cortese, E ricca intorno
del
suo gran tesoro, Gli ne fé parte, gratiosamente D
Un sì fervente humor, e a me noioso, Che quasi un terzo mi levò
del
pelo : E questo m’è un ricordo tanto amaro,
e mie cunsentir ; atendre en deit tel guer[e]dun cum[e] li chien fist
del
larun.
anco per tempo. Ch’aspettar non bisogna che ’l periglio Ti stia sopra
del
capo in trovar l’armi, Che pon salvarti da nimica
l si conviene, Sovente va d’ogni miseria al fondo : E divenuto favola
del
volgo Con suo danno e dolor schernito giace. Og
uell’infelice fiera. Ahi quanto di ragion mi vien la Morte Spogliando
del
vigor, che mi reggea, Poi ch’io medesma la cagion
de vïande eurent suffreite ; ne la berbiz plus ne vesqui : sis sires
del
tut la perdi. Ceste essample vus veut mustrer : d
tieng jeo pur fol que od mes denz ne trenchai tun col. » Autresi est
del
mal seignur : si povres hom li fet honur e puis d
ue par euls eie estrif ne noise. Il n’unt pas tuz le bref oï ki vient
del
rei, jol vus afi : ne m’estuvereit pas remüer, si
[13.] DEL CERVO. IL Cervo si specchiava intorno al fonte, E
del
bel don de le ramose corna Si gloriava di su
an più facilmente, Persuadendo più l’opra, che ’l dire. Non biasmar
del
tuo vitio un altro mai. 2. [NdE] Var. les édit
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