n lite accesa : Ch’ognuna l’altra in ciò vincer credea. Ma poi
che
fatto havean lunga contesa, La Cornacchia, c
credea. Ma poi che fatto havean lunga contesa, La Cornacchia,
che
’l meglio haver teneasi, Usò cotal ragione i
eglio haver teneasi, Usò cotal ragione in sua difesa. Misera a
che
la tua beltà deveasi Tanto prezzar, se nell’
nell’estate sola Esser a pena tal da te vedeasi ? Onde la mia,
che
sempre mi consola, È la medesma et a l’Estat
verno, Né accidente alcun giamai l’invola. Quel bene adunque,
che
si gode eterno, Al momentaneo preferir si de
ferir si deve : Perch’a noi sembrar suol del tutto esterno Quel,
che
si perde allhor, che si riceve. Il ben, che sem
Perch’a noi sembrar suol del tutto esterno Quel, che si perde allhor,
che
si riceve. Il ben, che sempre dura, è vero bene
del tutto esterno Quel, che si perde allhor, che si riceve. Il ben,
che
sempre dura, è vero bene.
con riso Prima a schernirla, et poi con voce aperta La dileggiava sì,
che
venne in breve Con lei, c’haveva nel suo cor conc
contesa di parole strane. Ma crescendo più grave tuttavia L’ingiuria,
che
la Cagna le facea Con un parlar, che non havea ri
o più grave tuttavia L’ingiuria, che la Cagna le facea Con un parlar,
che
non havea risposta ; La Scrofa d’ira colma non sa
giuro per Venere o malvagia, Che se più dietro vai con tue parole Me,
che
non mai t’offesi, ingiuriando, La farem d’altro,
n tue parole Me, che non mai t’offesi, ingiuriando, La farem d’altro,
che
di ciancie alfine: Ch’io ti traffigerò l’invido f
: certo a te ben si conviene Tal giuramento d’osservanza degno : Poi
che
giuri per quella immortal Dea, Che t’odia sì, che
ervanza degno : Poi che giuri per quella immortal Dea, Che t’odia sì,
che
ancora odia coloro, E prohibisce a i sacrificii s
esto puoi sciocca avvederti Qual conto faccia questa santa Dea Di me,
che
tien per sua divota ancella, Et qual mi porti amo
sua divota ancella, Et qual mi porti amore, e gran rispetto : Poscia
che
chi giamai si mostra ardito D’offender la mia spe
e. E tu sei morta, e viva in odio a tutti. Così l’huom saggio,
che
’l suo biasmo sente Da chi col vero il punge et l
o il punge et lo molesta, Torna in sua lode con risposta honesta Quel
che
di darle infamia appar possente. Un parlar sagg
l Regno, E come Re de gli altri un bando fece Gridar, ch’ogni animal,
che
senza coda Fusse dal suo tener gisse lontano, E i
lontano, E in esiglio da lui lontan vivesse Essendo privo de l’honor,
che
seco Porta la coda, che vergogna asconde. Allhor
lui lontan vivesse Essendo privo de l’honor, che seco Porta la coda,
che
vergogna asconde. Allhor la Volpe impaurita al su
o paese, Quando la Simia di tal fatto accorta Le disse : o sciocca, a
che
ti metti in core Di ciò paura, se natura larga Ti
iolo segno ? Onde la Volpe a lei così rispose. Conosco troppo il ver,
che
tu mi dici ; E che quanto a ragion m’affanno a to
a Volpe a lei così rispose. Conosco troppo il ver, che tu mi dici ; E
che
quanto a ragion m’affanno a torto. Ma che so io,
il ver, che tu mi dici ; E che quanto a ragion m’affanno a torto. Ma
che
so io, che ’l Signor nostro altiero Me del numero
e tu mi dici ; E che quanto a ragion m’affanno a torto. Ma che so io,
che
’l Signor nostro altiero Me del numero far di que
sua vita mena È in gran periglio di sentir la pena Del fallo anchor,
che
non ha in mente havuto. Chi servo è del Tiran v
PENTE. IL Corvo spinto da la fame il volo Torse verso un Serpente,
che
tra certi Sassi del mezo giorno al sol dormiva :
importuna fame : Ma quel presto destossi, e raggirando L’ardito capo,
che
tre lingue vibra, Lo strinse sì col velenoso mors
i mortal ferita. Onde il Corvo sentito esser già preso Da lui,
che
suo prigione esser credea, Et mancarsi lo spirto
rsi lo spirto adhor adhora, Tra sé medesmo sospirando disse. Misero a
che
son giunto ? Ecco il guadagno Del cibo, ch’io spe
rmi tratto di mia vita al fine. Così spesso n’aviene a l’huom,
che
intento Tutto al guadagno senza haver rispetto De
a l’huom, che intento Tutto al guadagno senza haver rispetto Del mal,
che
del suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò
spetto Del mal, che del suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò
che
’l suo cor gli detta : Per che talhor dal suo pro
ar ne senta altrui, Si mette a far ciò che ’l suo cor gli detta : Per
che
talhor dal suo proprio guadagno Danno gli nasce d
maniera brutta, Ch’ei tenea nel nuotar sempre a l’indietro : Dicendo,
che
più bel parea quel corso, Che move ogni animal co
ti, Ch’è membro principal di tutto il corpo. Allhor il figlio,
che
veduto havea Il padre e tutti i genitori suoi2 F
cangi stile, Mostrami prima tu di ciò la via ; Ch’io seguirotti, poi
che
quella norma Del vero caminar, che più t’aggrada,
ciò la via ; Ch’io seguirotti, poi che quella norma Del vero caminar,
che
più t’aggrada, Appreso havrò dal tuo medesmo esem
rada, Appreso havrò dal tuo medesmo esempio : Perch’io non ho veduto,
che
giamai Habbi tu seguitato altra maniera ; Ond’io
ni buon padre sempre Mostrarsi a i figli di virtute esempio, Se vuol,
che
’l suo parlar, che li riprende Del vitio appreso,
e Mostrarsi a i figli di virtute esempio, Se vuol, che ’l suo parlar,
che
li riprende Del vitio appreso, habbia valore e fo
’autorità spogliato e privo, In mover altri a seguitar virtute Colui,
che
sta nel vitio immerso sempre. Però devria colui,
mino : Ch’a quel si ridurrian più facilmente, Persuadendo più l’opra,
che
’l dire. Non biasmar del tuo vitio un altro mai
ì ch’ei nacque ; Et incontrossi a caso in un Galletto Et in un Gatto,
che
tosto che ’l vide S’appiatò cheto in mezo del sen
cque ; Et incontrossi a caso in un Galletto Et in un Gatto, che tosto
che
’l vide S’appiatò cheto in mezo del sentiero Per
he ’l vide S’appiatò cheto in mezo del sentiero Per aspettar il Topo,
che
pian piano Incontra gli venia per suo diporto : E
suo diporto : E farne ad uso suo di lui rapina. Ma il picciol Gallo,
che
lo scorse anch’esso, Corse veloce dibattendo l’al
piedi, et una lunga coda Di vario pelo tinta insino al fine. Et (quel
che
più mi piace in esso) è tanto Mansueto al veder,
vendo io gran desire Di meglio figurar suo bel sembiante. Ma l’altro,
che
di quello è via minore, Due piedi ha solo, et una
: et ei mai non restossi Di seguitarmi pien di gridi e rabbia Per fin
che
salvo a te pur mi condussi. E questa è la cagion
nto, De la mia fuga, e del mio tanto affanno. Allhor la madre,
che
ben chiaro intese Quai fusser gli animai da lui d
Te stesso inganna ; e non conosci anchora Il ben dal male come quel,
che
sei Pur dianzi uscito del mio ventre al mondo, Et
del mio ventre al mondo, Et d’ogni esperienza ignudo e privo. Sappi,
che
l’animal, che tanto humile Prima ti parve, e di b
e al mondo, Et d’ogni esperienza ignudo e privo. Sappi, che l’animal,
che
tanto humile Prima ti parve, e di bontà ripieno,
tanto humile Prima ti parve, e di bontà ripieno, È il più malvaggio,
che
si trovi in terra, Perfido, iniquo, fiero, discor
an da l’ugne sue, Se non vuoi darti in man d’acerba morte. E l’altro,
che
sì fiero e discortese Tanto ti parve, e di nequit
i farti nocumento alcuno. Dunque non dubitar di quel suo vano Impeto,
che
ti sembra in vista rio : E temi quel, che di lont
ar di quel suo vano Impeto, che ti sembra in vista rio : E temi quel,
che
di lontan mostrossi Al tuo semplice ardir tutto g
sua perfida mente L’iniqua voglia d’ingiustitia piena : Ma non colui,
che
favellando altero Talhor si mostra, e per costume
llando altero Talhor si mostra, e per costume vano Superbo in vista :
che
da l’opre poi, Se con modo prudente hai da far se
olto un santo, Ch’un Diavolo è poi se ’l miri a l’opre : E spesso un,
che
par rio nel fronte, copre Ogni bontà del cor sott
[18.] DEL SOLE, E BOREA. GIÀ fu
che
Borea, e ’l Sol vennero insieme A gran contesa di
sputando Tra lor di questo in van perdeano il tempo, Fu primo il Sol,
che
per finir le liti, Visto in viaggio un pellegrin
ovo argomento Di venir a provar le forze nostre. Vedi quel pellegrin,
che
di là viene ? Or quel di noi, che più tosto la ve
forze nostre. Vedi quel pellegrin, che di là viene ? Or quel di noi,
che
più tosto la veste Di dosso gli trarrà, quel sia
ndo forte Quanto potea da mille parti intorno Per levargli il mantel,
che
indosso havea. Ma colui, che dal freddo era assal
le parti intorno Per levargli il mantel, che indosso havea. Ma colui,
che
dal freddo era assalito Del fiato suo, tanto più
liava. Or visto alfin la sua fatica vana Il vento stanco, e in sé più
che
sicuro, Che ’l Sol, che meno impetuoso fiede, Far
sua fatica vana Il vento stanco, e in sé più che sicuro, Che ’l Sol,
che
meno impetuoso fiede, Far non potesse in ciò prov
iò prova maggiore ; Cessò lasciando a lui di questa impresa La parte,
che
a ragione a lui toccava. Allhora il Sole i
il Sole incomminciò scaldarlo A poco a poco con l’ardente raggio Sì,
che
’l buon pellegrino anch’esso venne A poco a poco
fin, ch’ei brama, Assai più presto, e con minore affanno, Che colui,
che
con impeto si move In discoperta forza a le sue v
si move In discoperta forza a le sue voglie. La destrezza val più,
che
viva forza.
oro da la vista Del possente Leon, ch’era lontano : E ’l vil Montone,
che
da lunge il vide Venir correndo e di paura pieno,
ozzar seco. Allhor giungendo il Toro Sen rise, e disse. O pazzo e vil
che
sei, Poi che tanta folia tu meco ardisci, Che con
llhor giungendo il Toro Sen rise, e disse. O pazzo e vil che sei, Poi
che
tanta folia tu meco ardisci, Che con un piede sol
ssi di contender teco, Né da cura maggior cacciato io fussi Al corso,
che
vietarmi indarno tenti. E dicendo così più tra sé
ndarno tenti. E dicendo così più tra sé stesso, Che fermatosi a quel,
che
l’aspettava, Senza degnarlo pur d’un guardo solo
a Del suo valor, ch’a ciò fosse cagione. Così talhora un huom,
che
poco vaglia, Battaglia move a l’huom di lui più f
ù forte, E prende ardir da le miserie note Di far ingiuria al misero,
che
oppresso È da cura maggiore, onde si vanta Poi va
giore, onde si vanta Poi vanamente de le proprie forze, Mentre colui,
che
a maggior cose attende, Senza difesa far nol cura
uercia ; Et un pezzo di cascio havea nel rostro. Onde l’astuta Volpe,
che
’l vedea, Cominciò seco ragionar tessendo A quell
ciò seco ragionar tessendo A quello in cotal modo un dolce inganno. O
che
bell’animal vegg’io là suso, Che vago augello di
i, e bei colori adorno. Dio ti mantenga o generoso uccello ; Ché, pur
che
’l canto sol non ti mancasse, Degno saresti a mio
o D’esser tu sol l’augel del sommo Giove. Allhor quel sciocco,
che
sentiva quali Eran le lodi, che colei gli dava, E
mo Giove. Allhor quel sciocco, che sentiva quali Eran le lodi,
che
colei gli dava, Entrato in speme di quel vano hon
le c’haveva e voce e canto, Incominciò gracchiar con rauco strido Sì,
che
dal rostro il cibo in terra cadde. Così scorgendo
to disse. Corvo, fratel, tu certo adorno sei D’ogni alta dote,
che
d’honor sia degna, Sol de l’ingegno in ogni parte
honor sia degna, Sol de l’ingegno in ogni parte manchi. Colui,
che
in tua presenza assai ti loda, A tua semplicitade
n ciò giudice loro. Onde esponendo sua ragion ciascuno Dinanzi a lei,
che
decidesse il punto De la difficultà fra loro nata
lli andate A mostrarmi di ciò ragion più chiara Con l’opra del valor,
che
regna in voi. Che colui, che tornando a me con pr
ragion più chiara Con l’opra del valor, che regna in voi. Che colui,
che
tornando a me con prova Maggior de le sue forze e
nza, e del valore. Così da lei partiti, ognun si mosse A quel tentar,
che
più potea sua forza : E dopo breve spatio a lei t
Colomba, Che per lo ciel volando a forza ottenne, L’Aquila disse. Poi
che
con l’effetto Chiara ciascun di voi fatto m’havet
to m’havete Del valor dubbio, onde pendea la lite, Mia sentenza sarà,
che
quanto meno De l’altera Colomba il Topo vale, Tan
revagli al Nibio d’ogni honore e merto. Così il giusto Signor,
che
tien in corte Diversa gente al suo servitio ; dev
in corte Diversa gente al suo servitio ; deve Sol prezzar più colui,
che
maggior segno Di valor mostra de gli effetti a pr
e maggior segno Di valor mostra de gli effetti a prova : E non colui,
che
con sembianze vane Di cose esterior, che ingombra
fetti a prova : E non colui, che con sembianze vane Di cose esterior,
che
ingombran gli occhi, Cerca preporsi alla virtute
cadavero suo cercava indarno Incontra ’l corso de le rapid’onde. Tal
che
più d’un, che la fatica vana Scorgea di lui da ca
cercava indarno Incontra ’l corso de le rapid’onde. Tal che più d’un,
che
la fatica vana Scorgea di lui da carità commosso
r cortese, Che per trovarla a la seconda andasse Del corrente liquor,
che
in giù trahea. Ma quel, che poco tal pensier cura
a la seconda andasse Del corrente liquor, che in giù trahea. Ma quel,
che
poco tal pensier curava Così rispose : Io non far
è morta, Deggia corso tener se non diverso Tutto, o contrario a quel,
che
l’onda tiene. Cotal esempio a l’huom discr
ficilmente Si lascia, ove invecchiato habbia la mente Ostinato voler,
che
in altri regna. Chi d’alcun vitio ha in sé most
Chi d’alcun vitio ha in sé mostrato eccesso Fa ch’altri, anchor
che
spento, il crede in esso.
al Cane : Non so, caro fratel, perché tu stai Vicin sempre al patron,
che
spesso spesso Ti batte, e più tu l’accarezzi ogni
he spesso spesso Ti batte, e più tu l’accarezzi ognihora : Tal ch’io,
che
mai da lui non sento offesa, Anzi nutrito son due
presso Con cor sicuro, pur temendo quello, Che tu provato ognihor par
che
non temi. A questo il Cane, io ti dirò (ri
. A questo il Cane, io ti dirò (rispose) Di ciò quella cagion,
che
il ver m’insegna. Mi percuote il patron tal volta
a esser atto Ne i suoi servigi, e più felice farmi. Quinci avien poi,
che
seco andando a caccia Mi rendo pronto a mille bel
co di starne, e di fagiani, E di mille altri cibi ottimi e rari : Tal
che
dolce mi sembra ogni percossa, Ch’io da lui sento
a (Né vorrei dirlo) di tua vita il fine ; Quando egli ha gran piacer,
che
tu t’ingrassi, Stando in quiete, e in dolce almo
lmo riposo Per goder poi de le tue carni un giorno. Utile è il mal,
che
per buon fin si pate.
[45.] DELLE FORMICHE, ET LA CICALA. MENTRE
che
al Sol nella più algente bruma Givan molte formic
umido grano Fuor de la buca, ove l’havean riposto ; La misera Cicala,
che
di fame Già si moriva, con preghiere humili Comin
i moriva, con preghiere humili Cominciò loro a supplicar soccorso. Il
che
sentendo una di lor più antica D’anni, e di lunga
i lor più antica D’anni, e di lunga esperienza dotta Le domandò quel,
che
l’està passata Ella facesse : e rispondendo quell
le estivo Facean passaggio per gli aperti campi. Allhor colei,
che
tal risposta intese, Con accorto parlar disse rid
rlar disse ridendo. Dunque, se allhor così cantar solevi Senza pensar
che
far devesti il Verno, Hor ballerai per far più be
e far devesti il Verno, Hor ballerai per far più bello il giuoco : Il
che
tanto puoi far più agevolmente, Quanto hai di cib
nte, Quanto hai di cibo il ventre hora men carco. Giovani, voi
che
de’ vostri anni il fiore Dietro a le vanità perde
a general conciglio Gli augelli tutti per crear tra loro Un novo Re,
che
la custodia havesse De gli altri, e sopra lor dom
di questo facendo altera mostra Con lunga oratione in quel senato, Sì
che
piegavan già le voci tutte Ne i suoi suffragii, c
voci tutte Ne i suoi suffragii, contentando ognuno Ch’ei fosse quel,
che
in loro imperio havesse, Quando tra gli altri se
nere piume, E se gli oppose con simil parole. Pensi tu forse,
che
del regno il peso, Che tanto importa, sostener si
nto importa, sostener si possa Da la vaghezza esterior del manto Più,
che
da la virtù d’un saggio core, E da le forze d’un
ra et invitta ? Cedi, misero, cedi a un altro il peso Di tanto grado,
che
di te più forte Possa più degnamente in sorte hav
’altra persona di più nobil merto. Così far si devria da quei,
che
danno Altrui la cura de l’human governo, La salut
no, La salute de’ popoli, e de’ regni Sol commettendo in man di quei,
che
sanno E posson con valor regger altrui, E sostene
le ricchezze, E tutte l’altre esterior grandezze, Che siano in quei,
che
senza ingegno od arte Mal pon regger sé stessi, e
eltà del volto, Che nulla giova senz’interno merto. Esser dee quel,
che
regge, e saggio, e forte.
cuno, et così la fanciulla, Che forte teme il tuo superbo aspetto. Sì
che
tratti di bocca i fieri denti, E l’ugne delle zam
evole, concluse Alfin tra sé di voler prima i denti Perder, e l’ugne,
che
star vivo senza Colei, che più, che ’l viver prop
é di voler prima i denti Perder, e l’ugne, che star vivo senza Colei,
che
più, che ’l viver proprio amava. Et così contentò
r prima i denti Perder, e l’ugne, che star vivo senza Colei, che più,
che
’l viver proprio amava. Et così contentò che ’l C
vo senza Colei, che più, che ’l viver proprio amava. Et così contentò
che
’l Contadino Di sua man propria gli trahesse allh
gne tutte : E poi gli chiese la bramata sposa. Ma il Contadin,
che
già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leon
cio e briga. La favola in virtù saggia ammonisce L’huom forte,
che
con altri accordo brama, A non lasciarsi tor l’ar
i di mano, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir,
che
’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo
avenir, che ’l suo nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel,
che
contra lui possente il rese, Cangi pensiero di fe
duca a l’ultima ruina, Senza poter haver da lui contrasto. L’huomo,
che
brama col nimico pace, Non lasci mai quel, c
rasto. L’huomo, che brama col nimico pace, Non lasci mai quel,
che
lo rende audace.
e sue proprie membra In breve per restar di spirto prive. La Cicogna,
che
in riva al fiume stava, In ch’ei lavar solea le b
a il vitto Sempre si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro,
che
, giungendo al fine Di questo viver, giungo al fin
vita, Quiete dolce e sempiterna pace. Ché, se ben quello io non sarò,
che
adesso Mi sento, onde potria dir forse alcuno Ch’
otria dir forse alcuno Ch’io non sia per sentir mai mal né bene ; Io,
che
cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò, che
i mal né bene ; Io, che cangiato havrò sorte e figura, In quel vivrò,
che
mi darà fortuna Viver con quel vigor, che da me v
te e figura, In quel vivrò, che mi darà fortuna Viver con quel vigor,
che
da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo al gr
rma in mezo al grande Fascio de gli elementi in qual si voglia Di lor
che
’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal
voglia Di lor che ’l corpo estinto si risolva, O forse altro animal,
che
da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere,
r ridursi al porto De la tranquillità de l’altra vita Qual si voglia,
che
sia per esser poi, Poi che nulla di noi perder si
anquillità de l’altra vita Qual si voglia, che sia per esser poi, Poi
che
nulla di noi perder si puote, Che non vivi nel se
voler ognuno Dee star contento, e far legge a sé stesso De la ragion,
che
dal suo santo senno Con dotto mezzo a noi discend
Dio si rende. Se viver lieto eternamente vuoi Non temer quel,
che
tu fuggir non puoi.
[52.] DELL’ASINO, LA SIMIA, ET LA TALPA. L’ASINO si dolea
che
l’ampia fronte Non havea, come il Bue, di corne a
mia facea minor lamento Di non haver la coda, onde coprisse Le parti,
che
modestia asconder suole. Tal che sentito allhor l
ver la coda, onde coprisse Le parti, che modestia asconder suole. Tal
che
sentito allhor la cieca Talpa D’ambodue la querel
, e tai parole mosse. Deh perché fate invan tante querele Voi,
che
per altro pur felici sete ? Se me, ch’esclusa de
l mondo sia, Vedete star senza querela in pace ? Dunque colui,
che
sé misero crede, Stia ne gli affanni suoi costant
te e forte ; E nel voler di Dio paghi sua sorte De l’affanno maggior,
che
in altri vede. Conforto è al proprio il maggior
sua. E tanto un giorno in lor crebbe il dispetto, L’odio e la rabbia,
che
con pugna horrenda Vennero insieme a discoperta g
stura di quel sito ameno : E cercando d’aiuto in quella guerra Alcun,
che
soccorresse al suo bisogno, Incontrò l’huomo ; a
Incontrò l’huomo ; a cui con prece humile L’opra sua chiese. Ond’ei,
che
disegnato Gran tempo haveva di soggetto farsi Que
er li servigi suoi, Tosto pronto s’offerse in sua difesa : Ma disse ;
che
, se ben d’ingegno e forza Era bastante a superar
to a scorger più lontano Di queste conditioni il dubbio fine, Fé ciò,
che
volse l’huom : lasciossi porre E sella e briglia
resto di sua vita In dolce libertà passando lieto. Ma l’huom,
che
già l’havea nelle sue mani, E poteva domar a modo
’alto valore, Disse : Che, s’egli in suo servitio havea Tanto sudato,
che
vittorioso Fatto l’havea del suo fiero nimico ; E
ancor, ch’esso il servisse Per qualche giorno in alcun suo bisogno, E
che
non intendea per modo alcuno Lasciarlo andar senz
servo. Così talhora un huomo, ch’è men forte Del suo nimico, e
che
soccorso chiede Ad huom, che più del suo nimico v
huomo, ch’è men forte Del suo nimico, e che soccorso chiede Ad huom,
che
più del suo nimico vale, Dopo le sue vittorie alf
vittorie alfin rimane De la sua propria libertà perdente : Che quel,
che
vinto ha il suo nimico, ch’era Di lui più forte,
il suo metta a periglio, Senza speranza di guadagno haverne. Forza,
che
d’altrui pende, è vinta e serva.
TUGGINE, ET L’AQUILA. LA Testuggine un dì vistosi presso L’Aquila,
che
dal cielo era allhor scesa, Per riposarsi sopra i
ampi Per darle il modo, onde volar potesse. Il generoso augel,
che
non volea Al suo sciocco pensier dar argomento Di
lo imminente, Che deveva sortir sì vana impresa. Ma non valse ragion,
che
s’adducesse, Per torla giù di quel cieco desio, C
giù di quel cieco desio, Che ’l lume di ragion cacciava al fondo ; Sì
che
costretta da un pregar noioso L’Aquila alfin per
mensa, Le dimandò se allhor volar volea. La Testuggine allhor,
che
affatto cieca Resa era già dal suo folle appetito
già dal suo folle appetito, Le rispose bramarlo oltra ogni stima ; E
che
pensava haver appresa a pieno Del volar l’arte da
resa a pieno Del volar l’arte dal camin già fatto Fra l’ugne sue ; sì
che
lasciarla tosto Ella devesse andar per l’aria a n
ntar, ch’a te natura vieta, Adopra quanto puoi le mani e i piedi, Poi
che
penne non hai per tal mestiero ; Che ben ti conve
ede Tosto gli artigli, et la diè in preda al fato. Così la miserella,
che
non have L’ali leggiere, onde sostenga il peso De
NE. PASSANDO un’acqua il Cane con un pezzo Di carne in bocca,
che
trovò per via, Vide nell’onda, ch’era posta
Et disse. Poi ch’est’altro è un più bel pezzo Certo, et maggiore
che
non è la mia, Questa voglio lasciar, e quell
cader nell’onda, E volendo pigliar l’altra maggiore, Vede,
che
mentre questa si profonda, Sparisce quella n
si profonda, Sparisce quella nel turbato humore : E pargli
che
la sua quell’altra asconda Sott’acqua sì, ch
re : E pargli che la sua quell’altra asconda Sott’acqua sì,
che
non può trarla fuore : S’accorge alfin, che
Sott’acqua sì, che non può trarla fuore : S’accorge alfin,
che
la vana sembianza De la sua l’havea posto in
so lontan da la sua tana Immensa copia di loquaci Rane Con tal romor,
che
rimbombava intorno Il vicin bosco, e le campagne
he rimbombava intorno Il vicin bosco, e le campagne tutte, E stimando
che
qualche horribil mostro, Che novo habitator di qu
r di quei confini, Uscì de la spelonca immantenente Cercando al suon,
che
gli feria l’orecchie, Con generoso core e d’ardir
otto in parte, Ove scoperse l’importuna schiera De i piccioli animai,
che
’l gran romore Formar potean con l’insolente grid
e, Quanto ferisce de la voce il suono : Né più oltra può far di quel,
che
’l vento Opra, che le parole in aria sparge.
e la voce il suono : Né più oltra può far di quel, che ’l vento Opra,
che
le parole in aria sparge. Dunque stimar no
ee l’huom saggio e forte L’inutil suon de le parole vane ; Ma il cor,
che
tace ; e da gli effetti solo Donar fomento a le s
gli effetti solo Donar fomento a le sue imprese suole. Perché colui,
che
di valore è ricco, Non suol dal van parlare acqui
Con parlar, ch’a l’honor contraria, e pesa. Dice l’Oliva. Io,
che
con forze estreme Sostener soglio ogni impor
tempeste Sostegno ognihor co’ miei nervosi rami : Tu, pur
che
minima aura in te si deste, Batti il terren
ami. Cede qual vinta allhor la canna a queste Parole, e par
che
non risponder brami Fin che ’l tempo non ven
la canna a queste Parole, e par che non risponder brami Fin
che
’l tempo non venga, onde sicura Risponder po
al suolo ; Poi si rileva alfin come habbia l’ale. L’Oliva,
che
nel cor sente gran duolo Di ceder tosto come
’l vento Sprezza, e leggiera in lui prende ardimento. Ma quel,
che
pur non può piegarla al piano, Da radice la
r morta sei : Io cedo a tutti, e sani ho i rami miei. L’humil,
che
cede al suo maggior, ventura Miglior s’acqui
A I LETTORI. DEL PADRE, E DEL FIGLIUOLO,
che
menavan l’asino. UN vecchio et un garzon padre
re : vedi Padre, come ch’ognun di noi sen ride Per l’Asino,
che
scarco esser concedi. Però montavi sopra ; e ta
a, e novo affanno. Già senton dir da ognun per quel confino, O
che
discretion d’huomo saputo, Ch’a piedi lascia
sì è ben dovuto. Ché così cesserà tanto bisbiglio De la gente,
che
passa, e che mi vede Di tua salute haver poc
to. Ché così cesserà tanto bisbiglio De la gente, che passa, e
che
mi vede Di tua salute haver poco consiglio.
l meglio crede. Ma così andando trovan nova gente, Che biasma,
che
quel giovine a cavallo Camini, e a piedi il
io L’huom rozo, e gli parea questo il più saggio, E d’huom,
che
fosse di prudenza specchio. Onde credeano in pa
l sofferse, Il padre su le spalle, il figlio in groppa, Fin
che
trovò chi l’occhio in lui converse. Mentre sì c
lui converse. Mentre sì carco l’animal galloppa Ecco il primo,
che
’l vede, a gran pietade Mosso di lui, che in
pa Ecco il primo, che ’l vede, a gran pietade Mosso di lui,
che
in ogni sasso intoppa. E con cor pien d’amor e
o ; O sete ingrati, s’è d’altrui ragione. Non comprendete voi,
che
strano mostro Parete a chi vi mira in questa
ti sparse Sì de la Terra, come pellegrini A lo spettacol novo,
che
comparse Non senza riso universal di tutti,
parse Non senza riso universal di tutti, Che lo mirar tosto
che
prima apparse. Veduto il vecchio del rimedio i
E i suoi disegni ognihor restar distrutti, Tosto disse tra sé : poi
che
non trovo Modo, ond’io possa ognun render co
rno a la campagna usciti Su la stagion del più gelato Verno ; L’huom,
che
dal freddo havea le man sì morte, Che risentir no
to dal compagno allhora De la cagion, perch’ei così facesse, Rispose,
che
col caldo, che gli usciva Nel fiato fuor da la vi
allhora De la cagion, perch’ei così facesse, Rispose, che col caldo,
che
gli usciva Nel fiato fuor da la virtù del core, D
eto albergo, Sedero a mensa per cenar insieme : E d’una gran polenta,
che
dal foco Posta s’haveano allhor allhora inanzi, A
sopportabil cibo. Allhor di novo il Satiro, c’havea Da quello inteso,
che
scaldar poteva Col fiato quel, che gli parea di f
Satiro, c’havea Da quello inteso, che scaldar poteva Col fiato quel,
che
gli parea di freddo, Stupido pur che fredda a lui
e scaldar poteva Col fiato quel, che gli parea di freddo, Stupido pur
che
fredda a lui paresse Quella pur troppo allhor cal
o rispetto In cotal modo a l’huom sdegnoso disse. Frate dapoi,
che
da tua bocca io veggio Il caldo, e ’l freddo usci
a e biasmo, Quando del lor bisogno al fin son giunti. Prezza colui,
che
sempre amor ti mostra.
picciol ventre, Subito cominciò gonfiarsi tanto, Che ’l suo figliuol,
che
la mirava in questo, De la sua morte assai temend
più segui torneratti in danno E de l’honore, e de la vita insieme. A
che
, se volse e la Natura e Dio Farti una Rana, vuoi
o Di farti un Bue ? ch’a te impossibil fia : Et converrai crepar pria
che
tu giunga Di quella forma a la centesma parte. Pe
a centesma parte. Però giù pon l’invidia ; ché non pate Invidia quel,
che
di gran lunga avanza Ordinario valor di sorte egu
con pericol manifesto De le tue forze l’impossibil opra. Ella,
che
non volea per modo alcuno Folle patir d’esser min
on volea per modo alcuno Folle patir d’esser minor del Bue, Né creder
che
colui, ch’era suo figlio, Lei madre vincer di sap
parole vane, E stimando accortezza il proprio humore Tanto gonfiossi,
che
crepar convenne. Così spesso interviene al
r convenne. Così spesso interviene al vecchio insano Di mente,
che
dal tempo misurando Il senno, sprezza del giovine
e sua ve la destina. Vana era al fin d’uscirne ogni fatica, Sì
che
già stanca non si move punto, E di mosche l’
che allhor d’attorno, Co’ spini suoi, come talhora suole : Poi
che
del fango, ove ella aspro soggiorno Suo malg
rla Se ben s’affaticasse più d’un giorno. Onde la Volpe a lui,
che
liberarla Come amico volea di tanto affanno,
fanno, Gratie rendendo in cotal modo parla. Non far fratello :
che
poco più danno Far mi pon queste homai di sa
che viene, Affamate a la prima havranno a trarmi Quel poco,
che
mi resta entro a le vene ; Onde potrei più in f
ro a le vene ; Onde potrei più in fretta a morte andarmi : Tal
che
meglio è restar quel poco in vita Di spatio,
armi : Tal che meglio è restar quel poco in vita Di spatio,
che
dal ciel sento lasciarmi. Così la gente tal ese
par del cielo, Ch’è di stelle dipinto, adorna tutta Con tal vaghezza,
che
stupore apporta A qualunque la vede : e tal è ’l
zza, che stupore apporta A qualunque la vede : e tal è ’l pregio Suo,
che
Baccho figliuol del sommo Giove Non si sdegna cop
mo Giove Non si sdegna coprir le belle membra D’altra mai per lo più,
che
di tal pelle, Che tutta la mia specie adorna e ve
l vivente, Questa s’intende la bellezza interna, Non quella esterior,
che
d’accidente Esterior patir può sempre oltraggio ;
me ceder tu dei, Se non sei folle in tutto, ognihor la palma ; A me ;
che
quanto hai tu vario d’aspetto Il dorso tutto, ho
mille lodate imprese : E per ciò bella sono in quel, ch’importa Più,
che
la pelle facile a smarrire L’apparente beltà, ch’
bruna, E sempre forma variar conviene. Più bello è il bel del cor,
che
il bel del volto.
[78.] DEL PARDO, E LE SIMIE. IL Pardo,
che
a le Simie è per natura Fiero nimico, e si p
cotal lavoro. Corre lor dietro, e in gran timor le adduce, Sì
che
come da lui lontana e presta Di lor ciascuna
i conduce. E si salvan così da l’ugna infesta Del fier nimico,
che
vuol divorarle, Sopra un gran pin, ch’al c
arle, Sopra un gran pin, ch’al ciel alza la testa. Il Pardo,
che
non può là su arrivarle, Fatto ogni prova, a
ui saltella e passa. Egli sta cheto, e non respira a pena, Fin
che
le crede esser ben lasse e stanche ; E per g
Alfin si leva, e i denti opra e le branche Crudel fra lor pria,
che
si renda satio, Fin ch’ognuna di lor di vita
ahe la fame Ad un sol tratto per ben lungo spatio. Tal l’huom,
che
studia al fin de le sue brame Venir un dì, n
i tradimenti, Che lor tramava il Gatto, ognun potesse. Et un di lor,
che
primo a parlar prese, Fu di parer, ch’un gran son
gnuno. In questa opinione entraron tutti. Ma alfin levossi un,
che
più etade e senno Havea de gli altri, et disse in
modo. Anch’io, Signori, tal consiglio approvo : Anch’io son di parer
che
ciò si faccia : Ma chi sarà di noi, dite, vi preg
parer che ciò si faccia : Ma chi sarà di noi, dite, vi prego, Colui,
che
voglia esser cotanto ardito, Che de le forze sue
en dove il periglio Si scorge in eseguir util consiglio : Però colui,
che
sua sentenza porge Che del publico ben cagione ap
sentenza porge Che del publico ben cagione apporta, Dee pensar prima,
che
la lingua snodi, Se ’l fin del parer suo puote es
tto Trovò due case d’Api, e intorno a quelle Incominciò lecar il mel,
che
in terra Gocciolando cadea del buco fuori, Del bu
ecar il mel, che in terra Gocciolando cadea del buco fuori, Del buco,
che
per tutto era già pieno. E mentre ch’ei così pasc
dentro a’ lor nidi. Ond’egli irato immantenente corse Dietro a colei,
che
tosto entrata in casa Da la proterva sua rabbia s
trasse Con fiero sdegno ; e l’altre tutte quante Destò ad un tratto,
che
col morso acuto, E col pungente stral de la lor c
l ruina. Tal ch’ei trafitto da gli aculei strani De l’infinito stuol,
che
lo feriva, Senza rimedio di poter salvarsi, Ceder
o cibo. Così talhor l’huom per fuggir s’adopra Un picciol mal,
che
sopportar potrebbe, Et quel fuggendo cade in mill
[47.] DELLA MOSCA. GIÀ dentro un’olla,
che
di carne piena Era d’alesso nel tepido humore Bol
nell’humor fervente Entrò la Mosca da la gola tratta Del grasso cibo,
che
nuotar vedea : Del qual dapoi, c’hebbe satiato a
ia vita un simil fine. Così dee tolerar l’huomo prudente Quel,
che
non può per modo alcun fuggire ; E quel, che vuol
r l’huomo prudente Quel, che non può per modo alcun fuggire ; E quel,
che
vuol necessità, seguire, Per non parer altrui di
vuol necessità, seguire, Per non parer altrui di bassa mente. Quel,
che
schivar non puoi, sopporta in pace.
’accese. Ma mentre ch’ella con amor le cova, La Rondinella,
che
tal opra intese, Come colei, che saggia era,
or le cova, La Rondinella, che tal opra intese, Come colei,
che
saggia era, et accorta, La semplicetta in co
Che tu prepari a te medesma il male, Ch’anzi fuggir devresti hor
che
l’intendi : Che quando al fin d’una fatica t
eranno : E, se non ti trarranno a morte oscura Il primo dì,
che
de l’uova usciranno, Faran col tempo eterna
e : E per buon’opra rende pene e guai, Et è superbo a quel,
che
gli è più humile : Né può placar un benefici
e gli è più humile : Né può placar un beneficio pio Un cor,
che
nato sia crudele e rio. Chi l’empio esalta, è d
altri arbori tutti Che l’Uliva di lor l’imperio havesse : Ma quella,
che
di sua sorte contenta Già si viveva una tranquill
acconsentir d’haver tal carco ; E così disse : ben pazza sarei S’io,
che
de le mie frondi e grasse e belle Sì, che son car
sse : ben pazza sarei S’io, che de le mie frondi e grasse e belle Sì,
che
son care a gli huomini, e a gli Dei Ho sol la cur
e e belle Sì, che son care a gli huomini, e a gli Dei Ho sol la cura,
che
lieta mi rende ; Volessi abbandonar le cose mie P
iei soavi frutti, Che vincon di dolcezza il flavo mele, E ’l nettare,
che
in ciel gustan gli Dei, Per quell’affanno sopra o
di pregar la Vite, Che ’l Dominio di lor prender volesse. Ma quella,
che
già tutta era d’intorno Coperta d’uva ben matura
sero alfin d’andar al Pruno, E dar a lui questo supremo grado. Et ei,
che
né di sé, né d’altri havea Cura, che punto l’anno
lui questo supremo grado. Et ei, che né di sé, né d’altri havea Cura,
che
punto l’annoiasse mai, Già tutto gonfio del conce
el tronco mio tal fiamma uscire, Che tutti v’arderà senza pietate, Sì
che
ne tremeran malgrado loro Le Quercie antiche, e i
ato adesso È giunto il tempo, ond’io faccia vendetta Di mille offese,
che
facesti altrui. Tu la notte qual pazzo e canti e
offese, che facesti altrui. Tu la notte qual pazzo e canti e gridi Sì
che
si desta ognun da l’importuno Suon de la voce tua
ispose : anzi ’l mio canto è quello, Che invita a l’opre ogni mortal,
che
brama Menar sua vita da l’ocio lontana, Che d’ogn
passerò più avanti rimembrando L’altre tue colpe di castigo degne. E
che
dirai profano, scelerato, Incontinente, e di luss
rofano, scelerato, Incontinente, e di lussuria pieno, S’io ti ricordo
che
tanto empio sei, E da rispetto di virtù lontano,
prole, Che le sorelle, e le figliuole, e anchora La madre stessa ; sì
che
a torto incolpi Me de l’altrui peccato, e a torto
che a torto incolpi Me de l’altrui peccato, e a torto accusi Del ben,
che
tanto reca utile altrui. Allhor il Gatto :
se una volta il farlo in mezo D’un campo seminato assai per tempo, Sì
che
l’uova depose a punto allhora, Che incominciavan
me è matura Già questa biada sì, c’homai si perde ? Però diman prima,
che
nasca il giorno, Vattene a ritrovar gli amici nos
osto. Et ella allhor : nessun timor vi tocchi Figli di questo ancor ;
che
s’ei n’aspetta Gli amici, qualche giorno anchor c
; che s’ei n’aspetta Gli amici, qualche giorno anchor ci vuole Prima,
che
questo campo habbia la messe. Il giorno do
) alcun pensiero Che vi dia noia ; s’altro non udite, Che d’aspettar,
che
vengano i parenti A volersi dar noia in questa cu
esta cura. E l’altro giorno a trovar pasto andando Di novo gli ammonì
che
intentamente Notasser ciò, che seguitar devea. Co
rovar pasto andando Di novo gli ammonì che intentamente Notasser ciò,
che
seguitar devea. Così quel giorno non comparse alc
ra biada Giunto verso la sera in quella parte Disse al figliuol : poi
che
nessun si move O de gli amici, o de’ parenti nost
amici, o de’ parenti nostri A prestarci lor opra in tal bisogno ; Fa’
che
tosto diman, figlio, per tempo Qui due messore po
ra ad agio nostro, Né ad alcun altro havremo obligo alcuno. Il
che
sentito i pargoletti figli Consapevole poi ne fer
r, adesso è ’l tempo, figli, Di dubitar qualche futuro oltraggio, Poi
che
’l padron di ciò la cura prende : Però stanotte c
r a nuoto il facil guado. Così nell’acque entrati ambo di pari, Quel,
che
di sale havea grave la soma, A sorte in certi sas
certi sassi urtando cadde Oppresso anchor da quel soverchio peso, Sì
che
riverso andò del fiume al fondo. Ma risoluto il s
rse, e uscì senza periglio De l’acque fuor d’ogni gravezza scarco. Il
che
veduto l’altro, che leggiero De le spugne portava
riglio De l’acque fuor d’ogni gravezza scarco. Il che veduto l’altro,
che
leggiero De le spugne portava il debil peso, Cred
i loco, e di valore ; Ma in diversa persona opra diversa. Non quel,
che
ad un convien, conviensi a tutti.
[49.] DI PALLADE, ET DI GIOVE. GIÀ fu
che
ognun de gl’immortali Dei A suo piacer un arbore
he tale elettion fosse caduta Sovra di piante infruttuose e vane, Poi
che
ciascun sapea, che immensa copia Di fruttifere pu
sse caduta Sovra di piante infruttuose e vane, Poi che ciascun sapea,
che
immensa copia Di fruttifere pur ne havea la Terra
questo, Alfine hebbe da lui cotal risposta. La cagion, figlia,
che
ciascun ne indusse A far elettion d’inutil pianta
elettion d’inutil pianta, Fu certo un ragionevole rispetto, C’habbiam
che
’l mondo non pensasse mai, Che per l’utilità vil
vana, Che da l’util si vede ognihor lontana. Vero honor non è quel,
che
in danno torna.
o da lui poco lontano Vide inchinato far simil effetto : E come quel,
che
di natura è rio, Né havea cagion, e pur volea tro
eco a lite, e fargli offesa, Cominciò tosto con parlar altero Dirgli,
che
mal faceva, e da insolente A turbar l’acque col s
l’acque di sopra, Che dal fonte venian limpide e pure. E non sapendo
che
risponder l’empio Contra la forza e la ragion del
atura de’ parenti suoi, Che gli havean fatto mille e mille offese : E
che
gran voglia havea di far che a lui Toccasse un gi
li havean fatto mille e mille offese : E che gran voglia havea di far
che
a lui Toccasse un giorno di scontarle tutte Per l
n dir più basso, Ma con ragioni più possenti e salde, Il Lupo iniquo,
che
già in sé confuso Era rimaso, adosso al miser cor
[5.] DEL MULO. UN Mulo già,
che
d’abondante biada Ben pasciuto era, e si godeva l
forte Vive animal in terra ? io già fui figlio D’un possente corsier,
che
con la sella D’argento, e con le briglie ornate d
mati in guerra : E però tal esser convegno anch’io. Avenne poi
che
bisognò correndo Un certo spatio di lungo camino
ai La debolezza del suo vil valore : Che, se in contraria sorte avien
che
cada, Si riconosce suo malgrado, e sente Non esse
rte avien che cada, Si riconosce suo malgrado, e sente Non esser quel
che
si teneva in prima. La buona sorte ogni vil cor
[48.] DELL’ASINO, CHE PORTAVA IL SIMOLACRO. UN ASINEL,
che
sopra il tergo vile Havea di Giove un simolacro d
humiliava Del nume vano a quella ricca imago. Ma credendo il meschin,
che
quell’honore Venisse fatto al suo nobile aspetto,
un Asino del tutto Già si scordava, se non era allhora Il suo padron,
che
con un grosso fusto Percotendo le natiche asinine
parole. Segui pur pazzo il tuo preso camino, Che non sei tu, ma quel,
che
porti, è ’l Dio, Che da ciascun, che vedi, è rive
camino, Che non sei tu, ma quel, che porti, è ’l Dio, Che da ciascun,
che
vedi, è riverito. D’ogni superbo cor quest
ano, Disse, Al mio gusto poco utile apporta Questa ventura,
che
mi viene in mano. La gente, che ti compra, e al
utile apporta Questa ventura, che mi viene in mano. La gente,
che
ti compra, e al collo porta, Potria prezzart
nte, che ti compra, e al collo porta, Potria prezzarti ; io no :
che
stimo quello, Che la fame mi trahe per via p
bello. Onde l’huomo ignorante e l’odia e sprezza, Come colui,
che
fugge ogni fatica, Et ama l’ocio per accidia
lmente Tutto otioso e di mestitia pieno Facea soggiorno, et non sapea
che
farsi. E così non prendendo alcun partito Con gra
dendo alcun partito Con gran sospiri e gemiti pregava Ercole invitto,
che
dal ciel scendesse Per sovvenirlo in così gran bi
che dal ciel scendesse Per sovvenirlo in così gran bisogno. Il
che
fatto più volte alfin commosso Da la pietà del su
lorioso Alcide, E cominciò parlargli in cotal guisa. Oh là tu,
che
dal ciel chiamato m’hai In tuo soccorso, hor da’
potere In te raddoppierò l’humane forze. Ci dà questo a veder,
che
Dio non suole Porger soccorso a l’huom, ch’è negh
ono Disse il Vitello : Or vedi un campo armato ; E però parmi,
che
sarebbe buono Torci di questo loco periglios
tuono. Onde gli fu da l’Asino risposo : Togliti pur di qua tu,
che
in periglio Ti trovi ; ch’io di ciò non son
sa, E sempre è di mia carne ogniun digiuno. Sì ch’io non temo,
che
mi rompa l’ossa Altri, che del padron il dur
ogniun digiuno. Sì ch’io non temo, che mi rompa l’ossa Altri,
che
del padron il duro legno, Sia ch’ei si sia ;
io a sdegno Il cangiar patria, e loco, e ancor Signore, Pur
che
ne stia de la sua sorte al segno, Né provi stato
NON era anchora il Lin venuto in uso Di seminarsi, quando un fu,
che
primo Raccolse il seme in varie parti fuso :
l seme Vi sparse ad altri vita, ad altri morte. La Rondinella,
che
presaga teme Quell’opra nova, e la virtute i
Lino, ogni altro augel convoca insieme : E lor mostra il periglio,
che
s’attende Da quella pianta, e persuader vuol
rsuader vuole A prohibirne il mal, ch’essa comprende : E dice,
che
quel seme, onde si duole, Devrebbe trarsi pr
: E dice, che quel seme, onde si duole, Devrebbe trarsi pria,
che
n’esca l’herba : Ma perde indarno il tempo e
Ma perde indarno il tempo e le parole. Ecco il Lin nasce, et ella,
che
pur serba Nel cor del suo presagio il gran t
curo. Vive con l’huomo, e sempre si nutrica D’ogni altra cosa,
che
d’esca o di grano, Cibo de l’huomo per usanz
conoscer quelli Fra l’altre specie de i diversi augelli. Il segno fu,
che
quei, che di vaghezza, Di leggiadria, di gratia,
uelli Fra l’altre specie de i diversi augelli. Il segno fu, che quei,
che
di vaghezza, Di leggiadria, di gratia, e di belta
oro horrido tratta Tosto vi corse : e giudicando quelli I più deformi
che
vedesse mai, Di lor satiossi alfin l’avido ventre
an con gran timor la scorse Devorar tutto il suo infelice parto : Tal
che
fuggendo poi colma d’affanno Al marito narrò l’ho
ndo poi colma d’affanno Al marito narrò l’horribil caso. Egli,
che
con gran pena intese questo, Tornò fra poco al ma
usò con seco1 Del torto a lui contra sua voglia fatto. Soggiungendo,
che
mai per le parole, Ch’egli le fece de la gran bel
accidente Partendosi da lei tristo e confuso. Così talhora l’huom,
che
da l’amore Di sé medesmo fatto in tutto cieco Sti
da l’amore Di sé medesmo fatto in tutto cieco Stima le cose sue più,
che
non deve, Resta schernito quando più si crede Ess
anto Gli concedesse la natura e ’l cielo ; Tentò con l’arte far quel,
che
vietato Era a sue forze indebolite e vane, Nova a
dillo il Corvo, e sparse intorno Tosto di ciò l’ingannatrice fama Tal
che
di giorno in giorno andava a quello Alcun de gli
per tempo Per visitarlo : ma quando a lui presso Se lo vedea il Leon,
che
’l mezo morto Fingea, l’unghiava con le zampe adu
, E lo sbranava, e ne ’l rendea suo pasto. Così più giorni fece insin
che
venne L’astuta Volpe, che da un poco sangue, Che
endea suo pasto. Così più giorni fece insin che venne L’astuta Volpe,
che
da un poco sangue, Che vedea presso a lui, sospet
pregava. Le rispose il Leon con voce grave, E ch’a pena parea
che
suono havesse ; E l’invitava ad accostarsi a lui,
indi partita : Però lasciovi in pace ; e se mai posso Farvi servigio,
che
in piacer vi sia, Farollo volontier, ma da lontan
il rio secreto : De’ quai bisogna sol creder a l’opre, E non a quel,
che
in lor la lingua suona. Non il parlar, ma l’opr
tretta S’invitaro l’un l’altro insieme a cena. Ma fu primo il villan,
che
’l caro amico Nel suo povero albergo ricevesse. E
, che ’l caro amico Nel suo povero albergo ricevesse. E tra le canne,
che
servian per muro De l’humile capanna d’un pastore
ervian per muro De l’humile capanna d’un pastore, Di cece, e ghiande,
che
in più giorni accolse, Tutto contento, e pien d’a
piatti e deschi. Ma non sì tosto prima gli assaggiaro, Che con romor,
che
gli rendeo sospesi, Ecco scuotendo mille chiavi,
’ guai, E dietro a l’uscio tosto si nascose. Ma partito colui,
che
fu cagione De la paura, e del disturbo loro, Torn
dal mal sano fondo Spargea ’l terreno del liquor soave. Del qual poi
che
appagato hebbe ciascuno Più che a bastanza la gol
erreno del liquor soave. Del qual poi che appagato hebbe ciascuno Più
che
a bastanza la golosa sete, Quivi posar le ben pas
isse. Che ti par, frate, de le mie vivande ? Non son forse elle altro
che
cece, o ghiande ? A tal sermon colui, ch’e
tutti i modi caro, E di grata mercè premio s’acquista. Ma ben dirò ;
che
m’è più dolce assai Roder la fava, o la tarlata n
scorso giudicate Del corso e stato vostro il dubbio fine : Che anchor
che
retto da propitia stella Arrivar possa al desiato
trapesati da continue cure, E da mille sospetti indegni et vili, Più,
che
la dolce amata libertade, Più, che l’almo riposo,
lle sospetti indegni et vili, Più, che la dolce amata libertade, Più,
che
l’almo riposo, e l’otio honesto Accompagnato da l
per dar fine al lor camino : Ma non giungendo al destinato loco Prima
che
nascondesse il Sole il giorno, Fra lor fecer pens
il giorno, Fra lor fecer pensier di far dimora Per quella notte, fin
che
’l novo albore Rendesse il lor camin via più sicu
principio al canto usato : E replicando diè di sé novella A la Volpe,
che
poco indi lontana Havea ’l suo albergo : et tosto
del tronco, ov’egli alto sedea, E benigno di sé copia facesse A lei,
che
forte del suo amor accesa Già si sentia del suo l
suo albergo trarlo Per fargli a suo poter cortese accetto. Il Gallo,
che
cognobbe il finto viso, E ’l parlar simulato de l
e d’esser teco, E farti ogni piacer a poter mio. Però ti prego acciò
che
quinci io scenda Picchia a quell’uscio, e ’l port
quel, ch’essa haveva al Gallo Di far pensato con l’astutie sue, Senza
che
pur la ria se n’avvedesse. Così sovente a
ar il destinato corso Per giunger tosto a la prefissa meta, La Lepre,
che
colei nulla stimava, Si fé di mover piè sì poco c
è sì poco conto Vedendo la compagna tanto lenta, Ch’a gran fatica par
che
muti loco, Che addormentossi ; confidando troppo
piede Tutto l’honor de la presente impresa. In questo la Testuggine,
che
’l corso Con solecito passo affrettò tanto, Che g
fine Più tosto assai, ch’un più gagliardo e lieve, Che pigro giaccia,
che
la confidenza A la sciocchezza è figlia, e a l’ot
n ogni tempo. Quinci con gran suo scorno intende e vede Il suo rival,
che
debole seguendo Con un continuar facile il passo
vile, E d’una doglia sì malvagia e poltra, Che non sa cominciar cosa
che
voglia, Vedendo sé di sotto di gran lunga A molti
a : E tutto il resto di sua vita vive Con tedio estremo assai peggio,
che
morto, Senza speranza haver d’honore alcuno. In
d’un chiodo a caso il piede, Onde restò trafitto amaramente Da quel,
che
dentro tutto entrato gli era. E cercando rimedio
e, e di martìr lo sciolse. Ond’ei chiedendo il pattuito dono L’Asino,
che
pagar già nol poteva, Lo pregò caramente a rimira
agar già nol poteva, Lo pregò caramente a rimirarli Meglio per non so
che
, che l’affligea, Nella ferita anchor restata aper
già nol poteva, Lo pregò caramente a rimirarli Meglio per non so che,
che
l’affligea, Nella ferita anchor restata aperta :
rita anchor restata aperta : Che grato poi del premio gli sarebbe. Il
che
facendo il medico mal atto, Ei levando le groppe
fretta Così si diede a ragionar con lui, Buon dì, fratello ; O
che
felice nova Ho da contarti. Non molto lontano Da
i co i novelli amici ; E giurar fedeltade e buona pace Con gli altri,
che
là giù soggiorno fanno. Però scendi anchor tu da
sa di sì caro aviso : Ch’a tutti porgerà pace, e salute : E credo ben
che
la novella intorno Tosto si spargerà per tutto il
argerà per tutto il mondo, C’homai ne dee sentir gioia infinita : Poi
che
due cani veltri anchor lontani Veggio venir ver n
tani Veggio venir ver noi correndo in fretta Forse per far l’ufficio,
che
tu stessa Facendo vai di messaggier del fatto.
tessa Facendo vai di messaggier del fatto. Udito ciò la Volpe,
che
credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più
lhora Salvo si rese et da gli inganni suoi. Così l’huom savio,
che
burlato viene Da chi profession d’accorto face, S
piangea dirottamente La sua disgratia sì, ch’a pietà mosse Mercurio,
che
cortese entrò in pensiero Di voler aiutarlo allho
quel divenne. E già venuto nel medesmo loco Per tagliar legna, quel,
che
il suo compagno A caso fece, fece egli con arte D
ar con gran sospiri, E gran querele la sua dura sorte. Onde Mercurio,
che
sapea l’inganno Del fraudolente, immantenente app
’era la sua. Allhor colui tutto ridente e lieto Non sì tosto la vide,
che
mentita Mente affermò che quell’istessa, quella Q
tutto ridente e lieto Non sì tosto la vide, che mentita Mente affermò
che
quell’istessa, quella Quella sola, e non altra er
e quell’istessa, quella Quella sola, e non altra era la sua ; La sua,
che
dianzi pur caduta gli era. Compresa allhor
sol dar non gli volle, Ma non essergli pur anchor cortese De la sua,
che
di ferro era nel fiume ; E da sé lo scacciò con b
IGLIO, ET DELLA DONNOLA. ERA caduto il Vespertiglio a terra Uccel,
che
per natura odia la luce, E senza piume sol di not
farlo Senza gran fallo, essendo egli nimico Di tutti gli altri augei,
che
intorno vanno, De’ quali essa ministra era e sold
era ; et ciò provava a i segni Del proprio corpo senza piume tutto, E
che
del pel del Topo era vestito, Con cui conformità
a volta a caso incorso Nel pericolo stesso in man d’un’altra Donnola,
che
mangiarselo volea ; E supplicando a lei, che de l
man d’un’altra Donnola, che mangiarselo volea ; E supplicando a lei,
che
de la vita Don gli facesse ; udì da quella, ch’es
e stile : E servirsi hor di questa, hora di quella Forma di ragionar,
che
più ricerca La propria occasion di sua salute Ne
a voce A provocarlo, e fargli ingiuria et onta Con dirgli tutto quel,
che
dir si puote D’una bestia crudel, vorace, e ria.
quello Con un basso parlar così rispose. Sciocco tu non sei tu quel,
che
mi dice Tal villania ; ma questa casa, dove Ti st
questa casa, dove Ti stai rinchiuso, e colà su sicuro Dal mio valor,
che
ti faria risposta Degna de’ merti tuoi, se in que
n questo prato Fosti in tal modo di parlarmi ardito. Questa, dico, è,
che
tua viltà sicura Da me rendendo, tai parole move,
a suo diporto andava Lungo a la spiaggia del vicino lito. E la Volpe,
che
intorno iva cercando Da satiar la fame, che già q
vicino lito. E la Volpe, che intorno iva cercando Da satiar la fame,
che
già quatro Intieri giorni le rodeva il ventre, Vi
isto quel di lontan subito corse, E tosto l’afferrò per divorarlo. Ei
che
s’accorse del crudele effetto, Né scampo a sua sa
farmi, Perdendo col mio albergo ancor la vita. Così fa l’huom,
che
da troppo desio Di cose nove la sua patria lassa,
de. Ma perché quel di terra assai più lieve Scorrea sicuro ; l’altro,
che
temea Per la gravezza sua girsene al fondo, Comin
sserti compagno ; Ma l’esserti vicin poco m’aggrada : Perché, s’avien
che
l’onda ruinosa A me scorrendo, o a te percota il
avien che l’onda ruinosa A me scorrendo, o a te percota il fianco Sì,
che
stando congiunti ad un ci urtiamo, Come allhor sa
la tua forte scorcia Te renderà dal suo furor protervo ; Così la mia,
che
per sé stessa è frale, Agevolmente fia rotta, e s
ta la stagione estiva, Ch’ardendo secca d’ogni humor la terra, Quella
che
nel vicin stagno albergava, Invitò l’altra con be
l fine. Così interviene a chi nel vitio vive, Che spesso pria,
che
fuor ne traggia il piede, De l’infelice vita al f
piede, De l’infelice vita al fin si vede ; Perché l’huom non sa quel,
che
Dio prescrive. Pria che morte ti colga esci del
al fin si vede ; Perché l’huom non sa quel, che Dio prescrive. Pria
che
morte ti colga esci del vitio.
capo alfin restò prigione. Onde a pregar si diè con humil voce Colui,
che
preso in man stretto il tenea Per dargli morte, a
gli havea fatto ingiuria, o danno alcuno. Allhor disse il Villano. Et
che
ti fece Quella innocente e semplice Colomba, Che
olevi a morte ? Et detto ciò gli diè tanto del capo Sopra d’un sasso,
che
morir convenne. Così devrebbe farsi ad ogn
i huom rio, Che senza haver cagione offende altrui, Da quelli anchor,
che
mai da quello offesa Non han sentito, perché ogni
condusse in un momento. E promettendo di prestarli aiuto, Come colei,
che
ben nuotar sapea, Lo persuase di legarsi seco Ne
acque entrando Tentava trar quel miserello al fondo Per devorarlo poi
che
estinto ei fosse. Ma quel, che dal timor e dal bi
l miserello al fondo Per devorarlo poi che estinto ei fosse. Ma quel,
che
dal timor e dal bisogno Prendeva di valor doppio
heva con egual valore, Nessun cedendo a le contrarie forze, Un nibio,
che
di là passava a caso Da l’appetito de la fame tra
per satiar di loro L’avido ventre, da la rana in prima, Che più molle
che
’l topo havea la pelle, Tosto si cominciò render
la pelle, Tosto si cominciò render satollo. Così talhor avien,
che
l’huomo iniquo, Ch’a far altrui si move a torto o
almente carco Era ciascun da lui del proprio peso. Occorse un giorno,
che
sendo in camino Ambi guidati dal padrone insieme,
ele indarno Del mal del suo compagno, et della pena Del doppio peso :
che
schivando in parte Tutto sul dorso suo venuto gli
parte Tutto sul dorso suo venuto gli era. Così quel servo fa,
che
del conservo Non ha pietade : et non consente in
lui cade Tutta, né trova chi gli porga aiuto Per giusta ira del ciel,
che
lo permette. Se l’huom possente ha de l’huom de
[70.] D’UN CANE, CHE TE-meva la pioggia. UN Can fu già,
che
mai quando piovea Fuor non usciva de l’alber
o piovea Fuor non usciva de l’albergo usato Per gran timor,
che
di bagnarsi havea. Onde da un altro Can, ch’era
o a lui compagno antico, De la cagione un dì fu domandato. Ei,
che
de’ suoi pensier solea l’amico Consapevole f
enza pieno, Per non cader di novo a sorte tale, Di quello ancor,
che
dee temersi meno. Il vero mal fa l’huom timido
r lei subito corse Horrendo tutto e minaccioso in vista. Ma la Volpe,
che
quel conobbe al suono De l’asinina voce, in mezo
mosse punto : Ma ridendo tra sé di sua follia Così gli disse : invero
che
l’aspetto Di questo horrendo e spaventoso volto M
e d’ignoranza pieno Che il savio fa tra gli ignoranti, quando Avien,
che
con saggio huom faccia l’istesso, Dal suono sol d
accia l’istesso, Dal suono sol di sua propria favella Si scopre quel,
che
sua natura il fece, Con gran suo scorno, e riso d
ndosa vite entro una macchia, E sotto i rami suoi cheta s’ascose : Sì
che
scorrendo i cacciatori intorno Sorte non hebber d
ce fiera. Ahi quanto di ragion mi vien la Morte Spogliando del vigor,
che
mi reggea, Poi ch’io medesma la cagion ne fui, Of
ngiusto merto. Così talhor aviene a l’huomo ingrato, Che quel,
che
’l tolse ad empia sorte, offenda : Che par che ’l
omo ingrato, Che quel, che ’l tolse ad empia sorte, offenda : Che par
che
’l giusto Dio merto gli renda, Quand’ei nol crede
[7.] DELL’ASINO, IL CORVO, E ’L LUPO. A UN Asin,
che
piagato il dorso havea, Sopra disceso un Cor
si pasce, e riso avien ch’apporte Al padron, cui tal danno appar
che
giove : Io fin lontan perseguitato a morte
Che in altri appar minore un fallo stesso. Il favore è cagion,
che
’l torto regna.
a morte. Ma mentre ei si trovava in tale stato Forte doleasi,
che
le corne a questo Fossero quelle, che l’have
stato Forte doleasi, che le corne a questo Fossero quelle,
che
l’havean guidato. Tal l’huomo suol tener spesso
to Quel, ch’utile gli apporta e giovamento, E prezzar quel,
che
gli è d’aspro tormento Cagione, onde rimane affli
è d’aspro tormento Cagione, onde rimane afflitto e mesto. Non quel,
che
par ; ma quel, ch’è buono, apprezza.
dendole le orecchie La dileggiava, e ingiuria le facea. La pecorella,
che
non sapea come Da lei sbrigarsi, sol questo le di
cui : Però non temo di darmi solazzo Con teco sciocca, e fa’ pur ciò
che
puoi. Così l’huomo insolente ancorché vile
può mostrarsi rio Dà spesso impazzo : ché benigno e pio L’intende, e
che
non suol cangiar suo stile. Contra bontade ogni
to accorta S’appresentò dinanzi al fier Leone, Che era dal ragionar1,
che
fatto il Lupo Havea contra di lei, con lei sì for
r1, che fatto il Lupo Havea contra di lei, con lei sì forte Sdegnato,
che
volea mangiarla viva. Onde l’astuta al meglio che
sì forte Sdegnato, che volea mangiarla viva. Onde l’astuta al meglio
che
potea In sé raccolta, et fatto assai buon viso, C
Del Lupo tratta a lui sì di recente, Ch’egli resti anchor vivo allhor
che
l’hai Posta sul tergo tuo calda, è quel solo Rime
vivo allhor che l’hai Posta sul tergo tuo calda, è quel solo Rimedio,
che
può trar di tanto affanno Com’io desio la tua rea
la stretta entrata. Ma quando satia fu, sì grosso il ventre Trovossi,
che
non hebbe il modo mai D’uscirne, e si dolea la no
olli il resto quando le parea Che fusse di cenar la solita hora ; Tal
che
ognihor più ingrassava, e venia gonfia, E inhabil
la morte, Se di quella il patron vi fosse entrato. La Donnola,
che
spesso i suoi lamenti Sentito haveva, da pietà si
a, onde dal picciol buco Passar potrai dove vorrai sicura. Perché fin
che
qui dentro ognihor ti stai Pascendo a voglia tua
ce, E a sciolta briglia in fuga il corso prese. Or visto il Contadin,
che
invano havrebbe Fatto ogni prova per voler seguir
mio amore in pace. Così talhor altrui l’huom donar suole Quel,
che
per modo alcun vender non puote, Celando il suo p
note Mentre non ne può far ciò, ch’egli vuole. Volontier dona quel,
che
non puoi vendere.
nti indarno ritentando Di spezzarla sovente, e non potea Modo trovar,
che
quella a lui cedesse ; Dice ella : o sciocco, di
igni e ben temprati denti, A cui cede l’acciar più saldo e forte. Tal
che
prima i tuoi denti a pezzo a pezzo Si lascieranno
forze, Né contrastar con quel, ch’è più possente Di virtute e valor :
che
nulla acquista Chi l’huom combatte, ch’è di lui p
e faticarsi indarno. E mentre stavan dibattendo l’ali Diversi augei,
che
quelle hanno per cibo, Di questo accorti tosto si
o si calaro, E le divorar tutte in poco d’hora. Dinota questo,
che
colui, che tutto Si dona al senso de la gola in p
, E le divorar tutte in poco d’hora. Dinota questo, che colui,
che
tutto Si dona al senso de la gola in preda Senza
a sé, pregandol ch’ei l’aprisse, Ché visitar il genitor volea. Et ei,
che
’l conoscea, negò di farlo. Allhor il Lupo in sé
, Va pur, s’hai forse a fare altro camino ; Ch’egli sta meglio assai,
che
non vorresti. Tal ti dee del nimico esser
e non vorresti. Tal ti dee del nimico esser sospetto Il volto,
che
d’amor ti mostra segno ; Se con l’occhio miglior
ettarsi intenta Dietro a una lepre, e farne alta rapina. Ella,
che
trappassar sentissi il fianco Dal crudo ferro, e
tutto nascoso Nell’intestine del suo proprio ventre, S’avvide ancor,
che
de lo stral le penne De l’ali proprie sue furon g
olse esser traffitta Per giugner di sua vita in breve al fine, Quanto
che
di veder l’ali sue stesse Esser ministre a lei di
l’ardor del caldo estivo Sole Già si seccar molte paludi e stagni Sì,
che
penuria d’acque havea la terra : Allhor due Rane
’altra con parole pronte A saltar seco nel bramato humore. Ma quella,
che
più saggia era di lei, E di più lunga esperienza
principio fia L’acque gustar del nostro ardor ristoro ; Dubito ancor,
che
se malvagia stella Seccar facesse l’abondante hum
iù parole in vano, Disse : ah fratello trammi pur di questo Pozzo fin
che
puoi farlo e sana e viva, Che poi ti conterò più
Ch’io sia sicura dal presente affanno. Così spesso intervien,
che
dove alcuno Dovrebbe oprar la man tosto e l’ingeg
a fine, Sta vaneggiando a consumar il tempo Dietro a parole, e quel,
che
meno importa, Al vero fin de la bramata impresa C
nte. Stolta (ei rispose) io m’affatico adesso E non indarno per quel,
che
potrebbe Tardi avenirmi, e forse anco per tempo.
rebbe Tardi avenirmi, e forse anco per tempo. Ch’aspettar non bisogna
che
’l periglio Ti stia sopra del capo in trovar l’ar
la pace io voglio Apparecchiarmi de la guerra a l’uso Di tutto quel,
che
mi può far mistiero. Così dee farsi l’huom
r tendeva i lacci, Ond’ei cogliesse i semplici augelletti, La Lodola,
che
a lui vicina stava Mirando il fatto sopra un verd
un verde pruno, Gli dimandò quel ch’ei facesse allhora. Egli rispose,
che
principio dava A fabricar una nobil cittade, Che
intender la ragione, L’ordine, e ’l sito de le nove mura De la mole,
che
vera ella credea. E tanto alfin si fece a lor vic
n agnel ne i curvi artigli Levossi, e via portollo, onde si tolse. Il
che
vedendo il Corvo non lontano De l’atto generoso e
maggior vergogna e danno A i fanciulletti suoi per giuoco diede. Tal
che
restando spennacchiato il Corvo, E in parte fuor
rvo. Questo non altro al savio inferir puote, Se non ch’ognun,
che
temerario ardisce Quella impresa tentar, ch’a la
simil risposta. Io so, fratello, e ben mi tengo a mente Quel,
che
tu detto m’hai de l’odio antico, In cui sempre mi
te il debil perde : E l’humiltade ogni durezza doma ; E spesso avien,
che
la vittoria porta De l’huom superbo e di feroce c
oce core Colui, ch’a tempo e loco accorto cede. Vince più cortesia,
che
forza d’armi.
iada, né vin quell’anno colse Tanto sterile andò la terra allhora. Di
che
Giove sen rise, e ’l Contadino Le perdute fatiche
Così devrebbe ognun fidarsi in Dio, Né chieder più da lui quello,
che
questo : Ch’ei, cui nostro bisogno è manifesto, Q
lui quello, che questo : Ch’ei, cui nostro bisogno è manifesto, Quel,
che
convien, ci dà benigno e pio. Lascia di te la c
o, E tolto a scherno da l’humana gente : E con Giove si dolse,
che
innocente Essendo, gli era ogni huom sempre
digiuno D’offenderti, se men sarai clemente : E, se col primo,
che
ti fece offesa, L’ira mostrato havesti, e ’l
to e ferito Di lui si dolse, e del suo rio destino. Dicendo
che
ferita era da lui, A cui ricorse ne i bisogn
ra da lui, A cui ricorse ne i bisogni sui. Ma rispose lo spin,
che
non deveva Ella cercar d’haver da lui soccor
tia unite insieme D’insieme anco habitar preser partito, Sperando pur
che
’l conversar frequente Crescesse in lor di più si
gna misera i figliuoli, Et ne fé pasto a gli Aquilini suoi. Il
che
veduto allhor l’afflitta madre Restò del caso rio
r da sostenersi a volo, Si lasciaro cader sopra il terreno. Il
che
vedendo allhor la Volpe offesa Per far de la sua
offesi amici al tutto Possa schivarsi da l’ultrice mano ; Non è però
che
col girar de gli anni Schivar possa di Dio la giu
Senza fermarsi in quel medesmo punto. Allhor tutti gli augei,
che
la sentiro, Accorti de l’error, ch’ella prendea D
de la vita Dar di piangermi a’ miei vera ragione. Più grave appar,
che
la vergogna, il danno.
la il lungo impaccio : Così stimando col comune scorno Coprir il suo,
che
non saria notato. Dunque chiamando tutte l’altre
torna a bene, et è conveniente A la necessità della tua sorte ? Certo
che
tu ben pazza sei se ’l credi. Così talhor
faccia. Questo ben ti dirò : Che solo al suono De la sua voce, anchor
che
da lontano Molto da me talhora udita sia, Tosto m
r che da lontano Molto da me talhora udita sia, Tosto mi sento non so
che
timore, Che mi fa forza contra ogni ragione A fug
, onde tornato a casa Fornir potesse alcuni suoi lavori. Ella,
che
per natura era cortese, E ricca intorno del suo g
utta con la parte stessa, Ch’era già membro di lei stessa uscito : Sì
che
’l Villano iniquo e discortese Tutta la pose in p
ALLO. L’ASINO d’un Signor nodrito in corte Vide un nobil corsier ;
che
d’orzo e grano Era pasciuto, e ben membruto, e gr
to Menò contento di sua vita il resto. Così far deve ogn’huom,
che
in bassa sorte Esser si sente, e senza invidia il
ce Asinel venner d’accordo D’esser compagni, e divider tra loro Quel,
che
ciascun di lor prendesse in caccia. E fatto un gi
iò la scelerata fame. Poi volto in atto furibondo e fiero A la Volpe,
che
attonita mirava Quel caso strano, e di nequitia p
el non ricevendo oltraggio, Incontratolo ancor sentì minore La paura,
che
d’esso hebbe pur dianzi. Quinci la terza volta ri
r, se da accidente strano Reso gli vien dal suo pensier lontano Quel,
che
più d’acquistar s’industria, et ama. Non cura i
te le preghiere mie, E i voti, ch’io per te porga a gli Dei ; Per te,
che
sempre de i lor sacri altari Le vittime predando,
procaccia Da le fatiche altrui frodando il vero, Inhabile a quel far,
che
gli altri fanno, Che d’ingegno e valor dotati son
[64.] DELL’ASINO, E DEL CINGHIALE. AVENNE un dì,
che
’l semplice Asinello Per camino incontrando
mai : perché tu sei Per natura, et per arte iniquo e rio. Tal
che
, sì come haver da te potrei Aiuto in divorar
caldo estivo Sole. E rivolgendo con la mente spesso L’aspra calamità,
che
ognihor l’afflisse, Con la memoria de i passati g
Sources présumées « A i lettori. Del padre, e del figliuolo,
che
menavan l’asino » P721 Faerno, 100
Della mosca » P167, cf. P80 Faerno, 14 48. « Dell’asino,
che
portava il simolacro » P182 Faerno, 95
la simia, et la talpa » PØ Faerno, 43 53. « D’un marito,
che
cercava al contrario del fiume la moglie affogata
» P43 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 37 70. « D’un cane,
che
temeva la pioggia » PØ Faerno, 67 < Ab
P16 Gabriele Faerno, Fabulae centum, 42 86. « Dello sparviero
che
seguiva una colomba » ??? 87. « Del
s sont extraordinaires. Car comme dit l’Italien, Chi m’accariçia piu
che
non suole, o ingannato m’ha, o ingannar me vuole.
let on lit : Stampato in Milano per Francesco Bernardino || da Valle
che
sta alla Pescaria Vecchia ad instantia || de D. M
uscrit renferme deux fables en prose intitulées, l’une : Della Capra
che
pasciera nel monte , l’autre : Della Cichala et
erger, qui est la dernière : Et per lo puro e simplice pastore colui
che
parla ciò che egli à in cuore. Amen. Le tout se
la dernière : Et per lo puro e simplice pastore colui che parla ciò
che
egli à in cuore. Amen. Le tout se termine au fe
rammatica , etc. Puis vient un prologue dont voici le début : Quelli
che
sanno le scritture, devrebbono bene mettere le lo
able, qui est intitulée : Del Gallo , commence par ces mots : Dicie
che
uno Ghallo andando per prochacciare sua vivanda s
lorié. La première est annoncée par ces mots : Il comincia dal gallo
che
ne traua dellescha nella brutture e trouo la piet
e, del Lione e Lupo e Pechora. Fol. 99 b. Favola del Lione e del Topo
che
dà noia. Fol. 100 b. Favola del Topo cittadino e
i chiama Isopo volgarizzato per uno da Siena. Et comincia del Ghallo
che
cerchava dell’ escha nella bruttura e trovò la pi
cette souscription : Finito el libro d’Ysopo del quale piaccia a Dio
che
chi lo leggie ne tragga qualche frutto. Amen.
iama Isopo volgha||rezzato per uno da Siena. Et cho||minça del ghallo
che
cerchaua || dellescha nella bruttura, e trouò la
e souscription : Finito. El libro di ysopo del quale piacca || Addio
che
chi lo leggio ne tragha qualche || frutto. Amen.
pe e del Granchio , Del Mercatante e della sua Moglie , Del Villano
che
moriva e del Diavolo . Elle a été élaborée par MM
come gia fui : verace Esopo et Accio Zuccho translatore. Le cose :
che
a fanciulli et a ignoranti Vano per man : s
e mie Fabule gioconde Che le commenti con bon magistero. Ma poi
che
son varie le persone, Convien che nel tuo sti
nti con bon magistero. Ma poi che son varie le persone, Convien
che
nel tuo stil habbi avertentia, Fermando sempr
utto di tanta eccellentia Gusti ciascuno con ferma rasone, Fa
che
dichiara giusta mia sententia.
ostolo Zeno, cioè giunte e osservazioni intorno agli storici Italiani
che
hanno scritto latinamente, rammentati dal Vossio
azione XLVII, la nomenclature, p. 265 à 274.) 169. « Opera inedita,
che
scritta a mano conservasi nell’ Ambrogiana, sicco
▲