un di lor, che primo a parlar prese, Fu di parer, ch’un gran sonaglio
al
collo Legar del Gatto si devesse al fine, Che ’l
Fu di parer, ch’un gran sonaglio al collo Legar del Gatto si devesse
al
fine, Che ’l suo venir al suon si conoscesse Da l
onaglio al collo Legar del Gatto si devesse al fine, Che ’l suo venir
al
suon si conoscesse Da lor, c’havriano del fuggir
o ardito, Che de le forze sue sicuro in tutto Tenti porre il sonaglio
al
collo al Gatto ? A tal proposta ognun muto
Che de le forze sue sicuro in tutto Tenti porre il sonaglio al collo
al
Gatto ? A tal proposta ognun muto restossi
o al Gatto ? A tal proposta ognun muto restossi : Né seppe dar
al
ver risposta alcuna : E van restò di quel consigl
eseguirsi Senza pericol di chi ’l pone in opra, Se brama esser tenuto
al
mondo saggio. Del suo debito fin manca il consi
[87.] DEL CIGNO, E DELLA CICOGNA. IL Cigno giunto homai vicino
al
fine De la sua vita con soavi accenti Facea l’ese
e membra In breve per restar di spirto prive. La Cicogna, che in riva
al
fiume stava, In ch’ei lavar solea le bianche pium
re si sente in gran travaglio e pena : Et mi rallegro, che, giungendo
al
fine Di questo viver, giungo al fine anchora Di t
pena : Et mi rallegro, che, giungendo al fine Di questo viver, giungo
al
fine anchora Di tanti affanni, et son per sentir
i, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose, Che sono
al
mondo in qual si voglia o forma O stato variate d
Viver con quel vigor, che da me vita Trarrà sotto altra forma in mezo
al
grande Fascio de gli elementi in qual si voglia D
imal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere, Che danno
al
tutto ognihor principio e fine. Così parlò : né l
te, e questa vita un rio viaggio ; Dal qual l’huom dee bramar ridursi
al
porto De la tranquillità de l’altra vita Qual si
perder si puote, Che non vivi nel sen de la Natura Come a Dio piace ;
al
cui voler ognuno Dee star contento, e far legge a
insieme Presero a far per varii boschi e ville Passando per dar fine
al
lor camino : Ma non giungendo al destinato loco P
boschi e ville Passando per dar fine al lor camino : Ma non giungendo
al
destinato loco Prima che nascondesse il Sole il g
d’una gran noce in cima un ramo S’assise il Gallo, e ’l Can di quella
al
piede Ch’era cavato, e da cento anni e cento Roso
te il raggio Del matutino Sol con lieta voce Diede il Gallo principio
al
canto usato : E replicando diè di sé novella A la
lla A la Volpe, che poco indi lontana Havea ’l suo albergo : et tosto
al
canto corse Dove era il Gallo ; et con parole ami
ll’uscio, e ’l portinaio desta Che m’apra il passo, ond’io per dentro
al
tronco Venga a trovarti, et abbracciar ti possa C
se adosso, et atterrolla in breve, Facendo a lei quel, ch’essa haveva
al
Gallo Di far pensato con l’astutie sue, Senza che
nganno ordisce, Quel, ch’egli ingannar pensa, esso tradisce ; E rende
al
finto dir finte parole. Chi con fraude camina i
34.] DEL CERVO, ET SUO FIGLIUOLO. IL Cerbiato chiedeva un giorno
al
padre Da qual cagione proceder potesse, Ch’ogni v
guerra il can lo sfida, Egli sì facilmente in fuga volto Di lui solo
al
latrar desse le spalle, Essendo egli di corpo e d
e. E ’l Cervo in sé confuso sospirando Brevemente così rispose
al
figlio. Io ben m’accorgo haver armi e valo
non ti so già dir perch’io nol faccia. Questo ben ti dirò : Che solo
al
suono De la sua voce, anchor che da lontano Molto
eit tut suls. Par sa franchise li requist qu’il le musçat e si desist
al
veneür qui l’ensiweit que al bois esteit alé tut
e li requist qu’il le musçat e si desist al veneür qui l’ensiweit que
al
bois esteit alé tut dreit. Li pastre dist que si
lu veü. Il li respunt ne seit u fu. Od sa mein li vet enseignant que
al
bois le deit aler querant. Endementers qu’il li
mes nepurquant l’en fist aler. Quant il le vit bien esluiné, si dist
al
lu qu’il ot muscé : « Ne me sez tu ore bon gré qu
elando il troppo conosciuto pelo : E col bastone in man, co ’l fiasco
al
tergo, E con la Tibia pastorale al fianco, Verso
E col bastone in man, co ’l fiasco al tergo, E con la Tibia pastorale
al
fianco, Verso il gregge vicin ratto inviossi, Spe
ripieno, Che le paurose pecorelle tutte Smarrite ne restaro, e quello
al
grido Riconosciuto rimirando a dietro Si diedero
e di malitia pieno Rimaner suole a lungo andar, né puote Sempre venir
al
fin del suo pensiero Con la bugia del suo fallace
Fra pochi giorni le campagne assale : E si piega la Canna insino
al
suolo ; Poi si rileva alfin come habbia l’al
nte gran duolo Di ceder tosto come cosa frale, Dura resiste
al
primo assalto, e ’l vento Sprezza, e leggier
leggiera in lui prende ardimento. Ma quel, che pur non può piegarla
al
piano, Da radice la sveglie, e a terra cacci
ei : Io cedo a tutti, e sani ho i rami miei. L’humil, che cede
al
suo maggior, ventura Miglior s’acquista, e l
percosse, Che ’l lasciò quasi morto in mezo ’l campo ; E fuggì ratto
al
consueto albergo. Ma dopo lungo spatio rivenuto I
o avenuto : Ch’essend’io nato per mia buona sorte Atto de gli animali
al
far macello ; Il medico facendo, inutilmente Dero
animali al far macello ; Il medico facendo, inutilmente Derogar volsi
al
natural valore. Ognuno dunque accortamente
sente, Da riuscir con utile et honore, Se gir non vuol d’ogni miseria
al
fondo. L’ufficio, in ch’egli vale, ognun far de
Tessendo il nido a i suoi futuri figli. Così la Volpe di quel tronco
al
piede Preparò stanza a i suoi fra sterpi e dumi.
l’odiosa fame, L’Aquila tratta da medesma cura De l’arbore scendendo
al
basso prese De la compagna misera i figliuoli, Et
e, ch’ivi presso Havendo alcuni habitator del loco Immolato una Capra
al
sacrificio, Del nido la rapace Aquila scese, E pr
ie de l’adusta carne Con alquanti carboni accesi intorno Rapida salse
al
suo superbo nido. Onde soffiando a maggior furia
ti Per non degna cagion profano rompe, Quantunque de gli offesi amici
al
tutto Possa schivarsi da l’ultrice mano ; Non è p
é importante assai, Che dal giusto si trovi esser lontana, Offesa far
al
suo fedele amico ; Non havendo a piacer l’esser d
tra riva L’acque profonde, in gran pensier si stava D’esporsi incerto
al
periglioso guado. E mentre dubbio con tremante co
entrar nell’acque Tranquillamente e senza alcun travaglio. Ma quando
al
mezo del camin fur giunti L’iniqua Rana a far si
Rivolta in dietro sotto l’acque entrando Tentava trar quel miserello
al
fondo Per devorarlo poi che estinto ei fosse. Ma
odo, Che rendea vano il suo malvagio intento. Or mentre quella
al
fondo, al sommo questo Si ritraheva con egual val
endea vano il suo malvagio intento. Or mentre quella al fondo,
al
sommo questo Si ritraheva con egual valore, Nessu
il volo Torse verso un Serpente, che tra certi Sassi del mezo giorno
al
sol dormiva : E fra l’ugne ne ’l prese, e volea t
agno Del cibo, ch’io sperava essermi vita, Havermi tratto di mia vita
al
fine. Così spesso n’aviene a l’huom, che i
vita al fine. Così spesso n’aviene a l’huom, che intento Tutto
al
guadagno senza haver rispetto Del mal, che del su
UN vecchio et un garzon padre e figliuolo Un Asinel menavano
al
mercato Per venderlo, et uscir d’affanni e d
piedi, Con un parlar inutile importuno. Or disse il giovinetto
al
padre : vedi Padre, come ch’ognun di noi sen
Il Vecchio stanco l’ubidisce ; et vanno Così per breve spatio
al
lor camino : E trovan nove risa, e novo affa
dito spesso il padre un tal saluto, Scese de l’Asinello, e disse
al
figlio ; Montavi tu, ché così è ben dovuto.
marrito, Da le riprension, c’havea lor fatto Il popol vario
al
dar sentenze ardito, Legò con una fune affatto
e l’Asinello, E tra lor fecer di portarlo patto. Così pensando
al
dir di questo e quello Por freno, e far cess
Veduto il vecchio del rimedio i frutti Esser sol burle e scherni
al
pensier novo, E i suoi disegni ognihor resta
dre, mentre a spasso i’ andava Due animali ; l’uno è di colore Simile
al
tuo nel pelo, ma distinto Di varie macchie di col
color più oscuro : Sembran di lucid’oro i suoi begli occhi, Che sono
al
rimirar tutti pietosi : Ha quattro piedi, et una
tosi : Ha quattro piedi, et una lunga coda Di vario pelo tinta insino
al
fine. Et (quel che più mi piace in esso) è tanto
a insino al fine. Et (quel che più mi piace in esso) è tanto Mansueto
al
veder, tanto gentile, Ch’a la mia vista non si mo
n chiaro intese Quai fusser gli animai da lui descritti, In modo tale
al
suo figliuol rispose. Ahi come, figlio, tu
a Il ben dal male come quel, che sei Pur dianzi uscito del mio ventre
al
mondo, Et d’ogni esperienza ignudo e privo. Sappi
: E spesso un, che par rio nel fronte, copre Ogni bontà del cor sotto
al
bel manto. Non giudicar dal volto il buono, o ’
r ne’ publici consigli Si trovan molti, et molti, c’han riguardo Solo
al
particolar loro interesse Posponendo il ben publi
riguardo Solo al particolar loro interesse Posponendo il ben publico
al
privato Da l’amor ingannati di sé stessi. Nuoce
o il ben publico al privato Da l’amor ingannati di sé stessi. Nuoce
al
publico ben spesso il privato.
Oppresso anchor da quel soverchio peso, Sì che riverso andò del fiume
al
fondo. Ma risoluto il sal nell’onda molle Tosto r
studio riversciossi entro a quel guado ; Ma non sì tosto fu di quello
al
fondo, Che le spugne bevendo il grave humore A do
ue accorto chi tal caso intende, Che ’l porsi a trar qualche pensiero
al
fine Non ricerca egual mezo in varia sorte D’occa
[38.] DELLA RANA, ET SUO FIGLIUOLO. VIDE la Rana il Bue vicino
al
fosso Ito per bere, e grande invidia prese Di sua
, che di gran lunga avanza Ordinario valor di sorte eguale. E cedendo
al
voler de la natura Vivi de la tua sorte ognihor c
e Tanto gonfiossi, che crepar convenne. Così spesso interviene
al
vecchio insano Di mente, che dal tempo misurando
ni alcuno, Per esser padre ad altri, o maggior d’anni In altra guisa,
al
giovine dar fede, Che con ragione la sua lingua m
e, prego, in altra mano Di tal fatica l’importante peso. Così risolti
al
Fico se n’andaro Per dar a lui di tal honor la so
mento, Onde il cielo e la terra in pregio m’have, Possa sì facilmente
al
suon piegarmi De’ preghi vostri, benché d’honor p
nchi Del pregar lungamente indarno altrui, Si risolsero alfin d’andar
al
Pruno, E dar a lui questo supremo grado. Et ei, c
loro Le Quercie antiche, e i più sublimi Cedri, Che dal Libano monte
al
Ciel sen vanno. Così colui, ch’a le sue vo
di cure altrui Mover il cor di chi conosce e vuole Far sempre quanto
al
suo dever conviene. Chi tien l’honor, e le sue
basse valli Per veder se potean trovar ventura D’alcun riposto humore
al
lor bisogno. Et dopo haver cercato indarno assai
iù saggia era di lei, E di più lunga esperienza accorta, Così rispose
al
temerario invito. Se ci gettiam, sorella,
pre sue misura Con la prudenza ogni hor pensando il fine. Chi pensa
al
fin raffrena ogni sua voglia.
in quella parte, Che può bastarle a far prender il volo Ai nati figli
al
cominciar la messe. Ma le occorse una volta il fa
eso I pargoletti figli anchora ignudi Di quelle penne, onde sian atti
al
volo. Però qualunque volta iva per cibo Da lor lo
lor nova paresse, Se la tenesser con gran cura a mente Per riferirla
al
suo ritorno a lei. Or del campo il padrone un gio
, a ch’ei gli havea pregati. E non vedendo esser venuto alcuno, Disse
al
figliuolo : Va’ figlio dimane E tosto invita ogni
padron de la matura biada Giunto verso la sera in quella parte Disse
al
figliuol : poi che nessun si move O de gli amici,
parenti : Ma pon sé stesso con le voglie ardenti A dar debito effetto
al
suo pensiero. Non aspettar, s’esser servito vuo
fosse augello Sempre rendeva altrui simil risposta. Io prima inquanto
al
grande animo mio Aquila fui : ma hor chiaro compr
e a l’opre, e a quel, ch’io nacqui, un Corvo. Questo non altro
al
savio inferir puote, Se non ch’ognun, che temerar
ezza Del suo grado e valor mal si conviene, Sovente va d’ogni miseria
al
fondo : E divenuto favola del volgo Con suo danno
virtù del core, Dava ristoro a l’agghiacciate mani. Poi giunti alfine
al
consueto albergo, Sedero a mensa per cenar insiem
li havea dal fiato Valor di raffreddar quel caldo cibo, Ch’era nocivo
al
lor bramoso gusto. Allhor colui da meraviglia pre
er trar talhor d’altrui profitto alcuno ; E poi ne lascian la memoria
al
vento ; E ne rendono in cambio ingiuria e biasmo,
to ; E ne rendono in cambio ingiuria e biasmo, Quando del lor bisogno
al
fin son giunti. Prezza colui, che sempre amor t
[13.] DEL CERVO. IL Cervo si specchiava intorno
al
fonte, E del bel don de le ramose corna
ua persona adorna. E le biasma e le sprezza come vili Rispetto
al
peso de le corna altero, Le quali ei stima n
do care, Che l’intricar tra quelle frondi infeste. Talché come
al
partir da l’acque chiare PACELe gambe lo salvar d
[45.] DELLE FORMICHE, ET LA CICALA. MENTRE che
al
Sol nella più algente bruma Givan molte formiche
o, Che v’è mestiero in su la primavera Di vostra età pensar di quella
al
verno : Se non volete a l’ultima vecchiezza Giung
La vita il fine, il dì loda la sera. Chi vuol da savio oprar pensi
al
suo fine.
l’en porta. A une chevre le bailla, que de sun leit l’ad bien nurri ;
al
bois l’enmeine ensemble od li. Quant elë ert creü
nt, puis l’apela, si li dist tant : « Va t’en a la berbiz, ta mere, e
al
mutun que est tun pere ! Asez te ai nurri lungeme
ro a quello intrica, Come la sorte sua ve la destina. Vana era
al
fin d’uscirne ogni fatica, Sì che già stanca
e strane, Che ’l sangue tutto homai le havean consunto. Venuto
al
fiume allhor da le sue tane Il Riccio del su
esempio invita A tolerar il suo tiranno avaro, Per non far
al
suo mal nova ferita, Se le è di viver lungamente
ne havea la Terra, Da farne agevolmente utile eletta : Et domandando
al
sommo padre Giove Modestamente la cagion di quest
allegro disse. O degna figlia del tuo Padre Giove, Ben mostri
al
tuo parlar accorto et saggio, Et al giudicio del
a del tuo Padre Giove, Ben mostri al tuo parlar accorto et saggio, Et
al
giudicio del sublime ingegno, Che non del ventre
festo, Quel, che convien, ci dà benigno e pio. Lascia di te la cura
al
Re del Cielo, Se vuoi viver contento al cald
. Lascia di te la cura al Re del Cielo, Se vuoi viver contento
al
caldo, e al gelo.
i te la cura al Re del Cielo, Se vuoi viver contento al caldo, e
al
gelo.
63.] DEL LEONE IMPAZZITO, ET LA CAPRA. VIDE la Capra da una rupe
al
basso Il Leone impazzito e furioso Scorrer con at
tto lontano ? Quanto ei feroce, e più possente hor fia Havendo giunto
al
natural valore Il tremendo furor de la pazzia ?
eit destruit, e, quant il la pume manga, pur quei Deu ne li parduna ;
al
reclus suvent en pesa, tant que a une feiz se pur
le l’adenta ; une suriz ot desuz mise. Puis defendi que en nule guise
al
vilein qu’il n’i adesast ne ke desuz ne [re]garda
que par sa femme l’enginna e li pramist si grant honur que per sereit
al
Creatur. » Pur ceo ne deit nul encuper autrui fes
esser tenuto anch’ei leggiadro e bello Come il Pavone, e di mostrarsi
al
mondo Come un di quella specie ; e ritrovando Tut
rui creduto tale, Entrò de gli Pavoni anch’esso in schiera. Ma quando
al
suon de la sua rauca voce Riconosciuto fu da gli
dist, le durra. Un sun veisin le bargena, mes ne vot mie tant doner ;
al
marché les covient aler. Cil a ki le cheval estei
ovient aler. Cil a ki le cheval esteit otri’ l’autre qu’il le larreit
al
pris que cil humme i* metreit quë encuntre eus pr
umme i* metreit quë encuntre eus primes vendreit, desqu’il vendreient
al
marché ; de tutes parz l’unt otrïé. Quant el marc
nir pur parole ne pur preere deci ke ele revienge arere. Quant ele fu
al
bois venue e li lus l’ot dedenz veüe, al cheverol
revienge arere. Quant ele fu al bois venue e li lus l’ot dedenz veüe,
al
cheverol vet, si li rova que l’us overist ; ceo l
[16.] DELL’AGNELLO E DEL LUPO. VIDE l’Agnello in cima
al
tetto stando Da la finestra di lontano il Lupo ;
ì villano. Così spesso l’huom vil privo di forza E d’ardimento
al
forte ingiuria move Assicurato da persona, o loco
apareillee. Al bois ala pur demander a chescun fust qu’il pot trover
al
quel il li loënt entendre, del queil il puisse ma
uz jurs li frunt hunte e ennui ; a celui funt il tut le pis ki [plus]
al
desus les ad mis.
glia, Sotto una ruota miserabilmente Restò schiacciata, e di sua vita
al
fine. Così interviene a chi nel vitio vive
ve, Che spesso pria, che fuor ne traggia il piede, De l’infelice vita
al
fin si vede ; Perché l’huom non sa quel, che Dio
e egli era Quando la Volpe già di questo accorta S’appresentò dinanzi
al
fier Leone, Che era dal ragionar1, che fatto il L
i, con lei sì forte Sdegnato, che volea mangiarla viva. Onde l’astuta
al
meglio che potea In sé raccolta, et fatto assai b
sar tenta Con falsitate, e non inteso inganno L’innocente in assentia
al
suo Signore. Spesso sopra chi ’l fa torna l’ing
n manger, qu’il ne peüst fructifïer. Li plusur ne l[e] vodrent fere ;
al
seignur alerent retrere le cunseil lur aveit doné
e, de ses parenz fist asemblee od les meillurs de sa lignee, si s’est
al
vilein appeisee. En sa meisun suffri sun ni, la f
SAETTA. L’AQUILA stanca dal continuo volo Per posar sopra un sasso
al
pian discese : D’onde un uccellator, ch’ivi la vi
E non tanto si dolse esser traffitta Per giugner di sua vita in breve
al
fine, Quanto che di veder l’ali sue stesse Esser
e Horrendo tutto e minaccioso in vista. Ma la Volpe, che quel conobbe
al
suono De l’asinina voce, in mezo il passo Fermoss
sto horrendo e spaventoso volto M’havria mosso nel core alta paura, S’
al
roco suon de l’asinina voce Io non t’havessi cono
e sotto Le gravi sponde, et sollevando alquanto Le lente ruote invita
al
moto il plaustro : Ch’allhor, se da persona di va
i valore Facendo sforzo a la tua debil possa Mi chiamerai in soccorso
al
tuo bisogno, Sarò presente ; e col divin potere I
lo Posarsi d’una Quercia in cima un ramo, E per farlo da quel scender
al
piano, Onde potesse poi di lui cibarsi, Trovò un’
hanno altri messi In altre varie parti de la terra, Perché ognun vada
al
destinato loco Per allegrarsi co i novelli amici
avanzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece. E prendendo licenza
al
suo partire Con parlar dolce la pregava il Gallo
lur oiseus ensemble aveient. Orë avient si quë un an li osturs les os
al
huan aveit duiz, [e] echarpiz od les suens oisele
pumer, si ele cheit desuz le fust amer, ja ne savera tant rüeler que
al
mordre ne seit recunüe desur quel arbrë ele est c
Che da l’un fianco a l’altro la trafisse. Così giungendo di sua vita
al
fine Disse fra sé quell’infelice fiera. Ahi quant
Che par che ’l giusto Dio merto gli renda, Quand’ei nol crede, eguale
al
suo peccato. Non far oltraggio a chi ti fu cort
ce, n° 7 Le loup et la grue Issi avint que un lus runga un os quë
al
col li vola, e quant el col li fu entrez, mut dur
r ceo ke lui vousist aider. La grüe lance le bek avant dedenz la gule
al
malfesant ; l’os en ad treit, puis li requist que
cortese A parte un can, ch’era suo vecchio amico. Il qual mentr’ella
al
sacrificio intenta Stava divotamente inanzi a l’a
giamai profitto alcuno ? Allhor trahendo un gran sospir dal core Ella
al
compagno fé simil risposta. Io so, fratell
[41.] DEL PORCO, ET DEL CANE. STUPIDO il Porco disse un giorno
al
Cane : Non so, caro fratel, perché tu stai Vicin
un giorno al Cane : Non so, caro fratel, perché tu stai Vicin sempre
al
patron, che spesso spesso Ti batte, e più tu l’ac
ale, Ch’anzi fuggir devresti hor che l’intendi : Che quando
al
fin d’una fatica tale Giunta sarai, se accor
cor, che nato sia crudele e rio. Chi l’empio esalta, è da lui posto
al
basso.
me quella, a cui Stavan sempre nel cor gl’intesi patti Di mai non far
al
suo compagno offesa ; Da molti augelli per gran s
il caso. Egli, che con gran pena intese questo, Tornò fra poco
al
mal guardato nido Forte piangendo il ricevuto tor
deve, Resta schernito quando più si crede Esser per quelle rispettato
al
mondo : E duolsi a torto del giudicio altrui, Che
l’escrierent li pastur. Les chiens li vunt aprés huant, e il s’en vet
al
bois fuiant ; le* heriçun leist entrepris. Quant
t atachez e od ses broches* ferm afichez. U il vousist u ne deinast,
al
lu estut qu’il l’aportast. Quant el bois fu od lu
ra. E li vileins li cumanda que treis paroles de saveir il deüst dire
al
sun espeir. « Jeo volonters », li lus respunt. Id
e] dire plus ainz qu’il venist a tere sus. Quant li lu esteit arivez,
al
vilein dist : « Ore entendez ! Tut est perdu e lu
la reine, « cest filet, sil lïez ferm a tun garet, e jeo l’atacherai
al
mien : la rivere pass[er]um bien. » La suriz s’es
s’est atachee ; el gué se mettent, si s’en vunt. Quant eles vindrent
al
parfunt, si la volt la reine neier, od li cumencë
eles clot, aval descent, li e la reine ensemble prent : amdui furent
al
fil pendant. La reine fu corsu e grant ; li escuf
cest munt. Del bugle ot fet sun senescal que a pruz le tient e leal ;
al
lu bailla sa pruvosté. Tut treis [s’en] sunt en b
revent, sil chacerent ; quant pris l’eurent, si l’escorcerent. Li lus
al
bugle demanda coment le cerf departira. « Ceo est
ssot blé, e l’arunde l’ad esguardé cum li muissun defors estoënt, quë
al
blé asprimer n’osoënt. L’arunde dunc les apela, q
a grant damage ; si fist l’arundele le vilein, que les muissuns prist
al
demein.
herbe crut dedenz un pré, mes n’aparut la haie dunt fu clos li prez :
al
saillir enz s’est esteillez. Ceo funt plusurs, bi
és n’avera femme, ceo dist, s’il ne la treve a sun talent. [La] fille
al
plus haut element vodra li mulez demander : al so
sun talent. [La] fille al plus haut element vodra li mulez demander :
al
soleil en ala parler. Pur ceo qu’il esteit [li] p
mei ne deie apurtenir ; femme prendrai a bon eür. Ore en irai desquë
al
mur. » Alez i est, sa fille quist. « Tu as », fet
iù del Topo è la Colomba Degna d’honor, cotanto tu Sparviero Prevagli
al
Nibio d’ogni honore e merto. Così il giust
merto. Così il giusto Signor, che tien in corte Diversa gente
al
suo servitio ; deve Sol prezzar più colui, che ma
n une grave jut tut suls. Desuz la cüe aval li entre un escarboz deci
al
ventre. Li lus saut sus, si s’esveilla ; mut angu
eus ki despisent les menurs de eus : tant les avillent de lur diz quë
al
grant busuin sunt honiz, e meuz se seivent cil ei
in. » Le lu pernent, kë ileoc fu ; vif l’escorcent, tant l’unt tenu ;
al
lïun unt la pel bailé. [E] cil s’en vet a grant h
nt tenu ; al lïun unt la pel bailé. [E] cil s’en vet a grant hasché ;
al
soleil se sist pur garisun, la vindrent musches e
si avient que par un jur menot ses humes en labur ; dunc prierent cil
al
vilein que lur dunast cerveise e pein, si en purr
re lur aporta ; que haitié fussent, ceo lur preia. Ensemble asistrent
al
manger. « Pensez », fet ele, « del haiter ! » — «
se, Per torla giù di quel cieco desio, Che ’l lume di ragion cacciava
al
fondo ; Sì che costretta da un pregar noioso L’Aq
o aperse di questo e quel piede Tosto gli artigli, et la diè in preda
al
fato. Così la miserella, che non have L’ali leggi
feitement eurent ensemble cumpainie e leauté e fei plevie. La serpent
al
vilein preia e par amur li demanda que leit li ap
piere se met dedenz, e li vileins s’en va dolenz. Ne demurra mes que
al
demein tutes* les berbiz al vilein furent en la f
ileins s’en va dolenz. Ne demurra mes que al demein tutes* les berbiz
al
vilein furent en la faude trovees : la serpent le
arie de France, n° 55 La prière stupide d’un paysan Un vilein ala
al
muster suventefeiz pur Deu prier. A Deu requist q
umme pres de els n’aveit ne nul lur parole n’en oeit*. Li un respundi
al
seignur qu’il n’aveient nule poür, einz lur sembl
reneer e a jurer que teisuns fu : ses piez musça, quant od les porcs
al
bois ala. Ceo est custume d’asquanz genz — si est
de France, n° 77 Le loup et le hérisson Un lu s’esteit acumpainez
al
hyriçun e bien afïez. Puis avient si que li lus f
l’altro di valor, e ’l più lodato. Borea sdegnoso contentossi
al
patto Di cotal prova : et fé d’esser il primo, Ch
Tal suole spesso l’huom prudente e saggio Giunger con la destrezza
al
fin, ch’ei brama, Assai più presto, e con minore
ne, che ’l corso Con solecito passo affrettò tanto, Che giunse alfine
al
terminato segno, Di tutto quell’honor prendea la
so : Né s’accorge, ch’un sol continuo moto, Benché debole sia, giunge
al
suo fine Più tosto assai, ch’un più gagliardo e l
iume ; E la scure per caso a lui di mano Uscita andò di quello insino
al
fondo : Onde il meschin piangea dirottamente La s
to ne trasse, Ch’al peso, e a l’occhio era di gran valore, Domandando
al
Villan, s’era la sua. Allhor colui tutto ridente
Onde la mia, che sempre mi consola, È la medesma et a l’Estate e
al
verno, Né accidente alcun giamai l’invola.
chesne le meteit u li aigle sun ni aveit. Li egles vit le fu espris ;
al
gupil prie e dit : « Amis, estein le feu ! Pren t
Questa ventura, che mi viene in mano. La gente, che ti compra, e
al
collo porta, Potria prezzarti ; io no : che
teu manere. Hors de la lande amdui en vunt, ensemble vienent tresque
al
munt. Li bucs esteit desus muntez ; li lus fu tut
e de put eire ; ja ne poeie jeo merci aveir que jeo vesquisse tresque
al
seir : pur ceo m’estut de mei penser e vus leisse
nti dopo lunga via Su l’hora prima de la notte oscura Entraro stanchi
al
buio in ampio loco, Che d’un palazzo era terreno
’aurato carro Portò di novo in Oriente il giorno, L’hospite cittadino
al
suo compagno Con festevol parlar gioioso disse. C
l dubbio fine : Che anchor che retto da propitia stella Arrivar possa
al
desiato segno, Non ha però felice un giorno solo.
alberghi santi Per mille ingiurie di vendetta degne Sei fatto odioso
al
lor benigno nume ? Ciò detto tacque lagrim
paghi sua sorte De l’affanno maggior, che in altri vede. Conforto è
al
proprio il maggior mal d’altrui.
lei sbrigarsi, sol questo le disse. Se tu malvagia ciò facesti
al
Cane, De l’insolenza tua ben ti dorresti, Ben t’a
um il suleient ; quant [la] grant febleté sentirent, manger et beivre
al
ventre offrirent ; mes trop l’eurent fet j[e]uner
si bel. Tutes ses plumes esraça, quë une sule n’i leissa ; des pennes
al
poün s’aürne, trestut sun cors bel [en] aturne ;
rreies guverner. » — « Si ferai bien », il li respunt. Dunc ot cornes
al
chief* amunt. Mes ne poeit mie porter, kar ne sav
ro un’olla, che di carne piena Era d’alesso nel tepido humore Bolliva
al
foco, nell’humor fervente Entrò la Mosca da la go
to ameno : E cercando d’aiuto in quella guerra Alcun, che soccorresse
al
suo bisogno, Incontrò l’huomo ; a cui con prece h
ingegno humano Alfin restò miseramente ucciso. Onde il Cavallo
al
fin de le sue voglie Venuto homai, debite gratie
iens qu[e]’il firent. Li bus par tençun l’asaillirent, si repruverent
al
vilein la bone cerveise e le pein que par lur tra
carne in bocca, che trovò per via, Vide nell’onda, ch’era posta
al
rezzo, L’ombra maggior di quella, ch’egli ha
ale, Poi c’havendo nel mar cibo bastante Di condur la mia vita insino
al
fine, S’io di Nestore ben vivessi gli anni, Ho vo
[10.] DELL’ANGUILLA, E ’L SERPENTE. L’ANGUILLA un giorno domandò
al
Serpente, Con cui spesso in amor giacer soleva De
lieve Scorrea sicuro ; l’altro, che temea Per la gravezza sua girsene
al
fondo, Cominciò con parole affettuose A pregar l’
sta Chi l’huom combatte, ch’è di lui più forte. Ceda chi manco vale
al
più possente.
te in poco d’hora. Dinota questo, che colui, che tutto Si dona
al
senso de la gola in preda Senza tener in questo o
D’argento, e con le briglie ornate d’oro Vinceva ogn’altro più veloce
al
corso, E gli huomini atterrava armati in guerra :
ttoso canto, Ch’a quello il Cuoco del suo errore avvisto Il riconobbe
al
primo suono, e tosto Lasciollo in pace, e diè di
ssi Vittorioso co i compagni miei ; Così, s’io vinto, et morto
al
pian giacessi, Tu delle carni mie quello far
a ricca imago. Ma credendo il meschin, che quell’honore Venisse fatto
al
suo nobile aspetto, Del suo stolto parer tanto go
Di quello ancor, che dee temersi meno. Il vero mal fa l’huom timido
al
falso.
untra, si dit que bien li enseignera cum la scale purra overir si ele
al
peissun pust partir. Puis li rova amunt voler tan
il espia dedenz la faude a un vilein. Ensemble od lui porta un pein ;
al
chien voleit le pain bailler, ki la faude deveit
erla corso ; Pregollo humil per l’amicitia loro Ch’ei volesse calando
al
basso un laccio Darle materia, onde salir potesse
m di lui più forte, E prende ardir da le miserie note Di far ingiuria
al
misero, che oppresso È da cura maggiore, onde si
in terra cadde. Così scorgendo la sagace Volpe Esser del suo disegno
al
fin venuta, Gli prese il pasto, e quel mangiato d
una, Salvo si renda da periglio o morte. Provedi anzi, ch’ei venga,
al
tuo bisogno.
e seco Porta la coda, che vergogna asconde. Allhor la Volpe impaurita
al
suono Del novo editto si metteva in punto D’abban
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