t ei rispose lor : mai cangiarei La cura, c’ho de’ miei soavi frutti,
Che
vincon di dolcezza il flavo mele, E ’l nettare, c
che in ciel gustan gli Dei, Per quell’affanno sopra ogni altro amaro,
Che
seco tien d’altrui regger la cura Sotto il sembia
l trovar chi di ciò togliesse il carco Deliberossi di pregar la Vite,
Che
’l Dominio di lor prender volesse. Ma quella, che
operta d’uva ben matura e bella, Lor disse : dunque vi credete ch’io,
Che
di tanta ricchezza allegra vivo De’ frutti miei c
hi vostri, benché d’honor pieni, Ch’io lasci di Natura un tanto dono,
Che
felice mi rende in ogni tempo ; Per prender poi c
Che felice mi rende in ogni tempo ; Per prender poi così noiosa cura,
Che
non mi lasci un dì viver contenta ? Certo io sare
oco ubidienti a’ miei mandati, Farò del tronco mio tal fiamma uscire,
Che
tutti v’arderà senza pietate, Sì che ne tremeran
ne tremeran malgrado loro Le Quercie antiche, e i più sublimi Cedri,
Che
dal Libano monte al Ciel sen vanno. Così c
’hora prima de la notte oscura Entraro stanchi al buio in ampio loco,
Che
d’un palazzo era terreno albergo, Tutto odorato d
an colmi molti piatti e deschi. Ma non sì tosto prima gli assaggiaro,
Che
con romor, che gli rendeo sospesi, Ecco scuotendo
Il maestro venir de la cucina Per porre in salvo certe altre vivande,
Che
pur dianzi levate havea di mensa. A l’apparir de
gusto presi del soave pasto, Se un’altra volta l’importuno hostiero,
Che
per altro bisogno ivi tornava, A disturbarli non
Allhora s’appiattar celatamente Dietro un vasello di Cretense vino,
Che
gocciolando dal mal sano fondo Spargea ’l terreno
’hospite cittadino al suo compagno Con festevol parlar gioioso disse.
Che
ti par, frate, de le mie vivande ? Non son forse
odo a l’hoste suo rispose. Gratie ti rendo del cortese accetto
Che
fatto m’hai nel tuo nobil convito Degno del gusto
l gusto de’ celesti Heroi ; Perché il favor (e sia qual ei si voglia)
Che
fatto vien da volontate amica, Deve esser sempre
Roder la fava, o la tarlata noce Nel pover tetto mio lieto e sicuro ;
Che
in questo loco di paura pieno, E senza mai posar
con sano discorso giudicate Del corso e stato vostro il dubbio fine :
Che
anchor che retto da propitia stella Arrivar possa
o Accompagnato da la gioia immensa D’una tranquillità grata e sicura,
Che
rende l’huomo in povertà beato. Dunque col
unque colui, ch’esser felice brama, Segua del Topo rustico la norma ;
Che
viverà nella più nobil forma Beato, e morirà con
Vedendo la compagna tanto lenta, Ch’a gran fatica par che muti loco,
Che
addormentossi ; confidando troppo Nella velocità
questo la Testuggine, che ’l corso Con solecito passo affrettò tanto,
Che
giunse alfine al terminato segno, Di tutto quell’
sì fa spesso l’huom d’ingegno e forza Dotato in concorrenza di colui,
Che
molto inferior di ciò si vede, Quando opra tenta,
o inferior di ciò si vede, Quando opra tenta, onde l’honore importi ;
Che
confidato nella sua virtute Pigro dorme a l’oprar
sia, giunge al suo fine Più tosto assai, ch’un più gagliardo e lieve,
Che
pigro giaccia, che la confidenza A la sciocchezza
r colpa sol de la pigritia nata Da la sua negligenza infame e stolta,
Che
pieno il fa d’un pentimento vile, E d’una doglia
ieno il fa d’un pentimento vile, E d’una doglia sì malvagia e poltra,
Che
non sa cominciar cosa che voglia, Vedendo sé di s
lia d’un Contadin di quel contado : E sì forte d’Amor sentì l’ardore,
Che
mai non havea ben giorno né notte Pensando sempre
r più non soffrir la pena acerba Prese partito di chiederla al padre,
Che
per sua sposa a lui la concedesse. Et così fece c
così fece con parlar cortese. Ma il Contadin, cui strana cosa parve,
Che
d’una fiera divenisse moglie La giovinetta sua fi
tosto gli rispose. Se vuoi per moglie haver la mia figliuola,
Che
cotanto ami, et mio genero farti, Ti convien prim
mai per haver da tua fierezza Oltraggio alcuno, et così la fanciulla,
Che
forte teme il tuo superbo aspetto. Sì che tratti
l’ugne delle zampe acute e forti, Perché sicuri siam per sempre poi,
Che
tu non voglia, o possa farne oltraggio : E vivrem
il Contadin, che già fatto sicuro Era dal gran valor del fier Leone,
Che
non haveva più l’ugne, né i denti, Non solo di ne
uol partorir le picciol uova De la stagion de l’anno in quella parte,
Che
può bastarle a far prender il volo Ai nati figli
campo seminato assai per tempo, Sì che l’uova depose a punto allhora,
Che
incominciavan biancheggiar le spiche. Onde matura
bo Da lor lontana la provida madre Lor avvertiva con pietoso affetto,
Che
se cosa occorresse a lor d’udire, Ch’a l’orecchie
; E veduto la biada a terra china Dal peso andarsi del maturo grano,
Che
de l’aride spiche homai cadea ; Disse : vedi figl
al figliuolo : Va’ figlio dimane E tosto invita ogni parente nostro,
Che
ci servino in ciò de l’opra loro Per la mattina d
a inteso tutto a punto il fatto Non vi prendete (dice) alcun pensiero
Che
vi dia noia ; s’altro non udite, Che d’aspettar,
i prendete (dice) alcun pensiero Che vi dia noia ; s’altro non udite,
Che
d’aspettar, che vengano i parenti A volersi dar n
Il che sentito i pargoletti figli Consapevole poi ne fer la madre,
Che
con gran tema tal novella intese : E disse lor, a
e ce n’andrem pian piano A trovar novo albergo in altra parte,
Che
quando l’huom far vuol cosa da vero, Non aspetta
uesto veduto allhor Pallade saggia Restò sospesa di stupore alquanto,
Che
tale elettion fosse caduta Sovra di piante infrut
rto un ragionevole rispetto, C’habbiam che ’l mondo non pensasse mai,
Che
per l’utilità vil di quel frutto Il proprio honor
al tuo parlar accorto et saggio, Et al giudicio del sublime ingegno,
Che
non del ventre di femina vile, Ma del mio divin c
. Però sarai da i secoli futuri Meritamente ognihor saggia chiamata :
Che
veramente quella gloria è vana, Che da l’util si
tamente ognihor saggia chiamata : Che veramente quella gloria è vana,
Che
da l’util si vede ognihor lontana. Vero honor n
a Scorgea di lui da carità commosso Gli ricordava con parlar cortese,
Che
per trovarla a la seconda andasse Del corrente li
comune voler, così contraria A qual si voglia altrui genio e costume,
Che
di ragion non è da creder mai, Che natura cangian
si voglia altrui genio e costume, Che di ragion non è da creder mai,
Che
natura cangiando hora ch’è morta, Deggia corso te
uel, che l’onda tiene. Cotal esempio a l’huom discreto insegna
Che
vitio natural difficilmente Si lascia, ove invecc
e, acciò sicuro fosse De gli altri augelli, ch’ei prendea, lo stuolo,
Che
lo lasciasse, perché esso giamai Non gli havea fa
disse il Villano. Et che ti fece Quella innocente e semplice Colomba,
Che
la seguivi, et trar volevi a morte ? Et detto ciò
sso, che morir convenne. Così devrebbe farsi ad ogni huom rio,
Che
senza haver cagione offende altrui, Da quelli anc
sua malvagità viva sicuro : Perché è giustitia il vendicar il torto,
Che
l’innocenza da l’huom empio sente ; Né merita da
La Scrofa d’ira colma non sapendo Meglio risponder al parlar villano,
Che
la confonde, minacciosa dice. Io ti giuro per Ven
Che la confonde, minacciosa dice. Io ti giuro per Venere o malvagia,
Che
se più dietro vai con tue parole Me, che non mai
ti traffigerò l’invido fianco Con questo dente mio pungente e forte,
Che
fia risposta del tuo vano orgoglio. Allhor
iuramento d’osservanza degno : Poi che giuri per quella immortal Dea,
Che
t’odia sì, che ancora odia coloro, E prohibisce a
t’odia sì, che ancora odia coloro, E prohibisce a i sacrificii suoi,
Che
de le carni tue vili et impure Si faccian pasto :
lascivo un dolce ocio giocondo, Entrò folle in pensier tanto superbo,
Che
tra sé disse : Or qual di me più forte Vive anima
finì sì tosto a un tratto d’arco, O poco più lontan batter il corso,
Che
stanco si sentì con tanto affanno, Che bisognò fe
co più lontan batter il corso, Che stanco si sentì con tanto affanno,
Che
bisognò fermarsi, e prender lena. Allhora in tale
a Divien superbo, e non conosce mai La debolezza del suo vil valore :
Che
, se in contraria sorte avien che cada, Si riconos
ahea, Mentre passava per diverse vie Era inchinato da la gente tutta,
Che
con divotion s’humiliava Del nume vano a quella r
se fatto al suo nobile aspetto, Del suo stolto parer tanto gonfiossi,
Che
preso allhor da quella gloria vana, E tosto in me
olte busse, et con simil parole. Segui pur pazzo il tuo preso camino,
Che
non sei tu, ma quel, che porti, è ’l Dio, Che da
zo il tuo preso camino, Che non sei tu, ma quel, che porti, è ’l Dio,
Che
da ciascun, che vedi, è riverito. D’ogni s
nno, ch’ogni male oblia. Ond’ei rispose : anzi ’l mio canto è quello,
Che
invita a l’opre ogni mortal, che brama Menar sua
ita a l’opre ogni mortal, che brama Menar sua vita da l’ocio lontana,
Che
d’ogni mal è padre ; e gli ricorda A non marcirsi
S’io ti ricordo che tanto empio sei, E da rispetto di virtù lontano,
Che
in tutti i tempi con lascivia immensa Con le sore
accio io per mantener del nostro Seme la specie ; et arricchir colui,
Che
m’è padrone, e mi nutrisce in casa Per questo eff
on mi dando altri de la specie mia Da conservar, et ampliar la prole,
Che
le sorelle, e le figliuole, e anchora La madre st
] DEL LEONE, ET DELLA VOLPE. INCONTRANDO la Volpe il fier Leone,
Che
non prima ch’allhor veduto havea, Prese tanto tim
non prima ch’allhor veduto havea, Prese tanto timor, tanto spavento,
Che
per poco maggior morta sarebbe. Ma poi da quel no
ggiar seco presente. Dunque da tal effetto ogni huom comprende
Che
l’uso lungo, e ’l pratticar frequente Ogni diffic
DELLA VOLPE, E LO SPINO. LA Volpe un’alta siepe havea salito,
Che
intorno circondava un bel giardino, E venend
o spin, che non deveva Ella cercar d’haver da lui soccorso,
Che
dar per uso natural soleva A chi s’appressa
uso natural soleva A chi s’appressa a lui sempre di morso.
Che
ricorrer altrove essa poteva, E per altro se
lhora. Egli rispose, che principio dava A fabricar una nobil cittade,
Che
ad ogni amico suo prestasse albergo. Ma poi ch’a
ittadin vuote le strade. Volse inferir la semplicetta augella,
Che
l’ingordigia de’ Signori avari, Che non han meta
e inferir la semplicetta augella, Che l’ingordigia de’ Signori avari,
Che
non han meta a gli appetiti loro Mentre a’ suddit
udditi ognihor succiano il sangue, Fanno dishabitar l’ampie cittadi :
Che
abbandonate alfin vanno in ruina. L’avaritia de
ce consiglio di trovar il modo, Onde campar l’insidie e i tradimenti,
Che
lor tramava il Gatto, ognun potesse. Et un di lor
rer, ch’un gran sonaglio al collo Legar del Gatto si devesse al fine,
Che
’l suo venir al suon si conoscesse Da lor, c’havr
sarà di noi, dite, vi prego, Colui, che voglia esser cotanto ardito,
Che
de le forze sue sicuro in tutto Tenti porre il so
scorge in eseguir util consiglio : Però colui, che sua sentenza porge
Che
del publico ben cagione apporta, Dee pensar prima
a lunga fatica, e dal camino, Ma molto più da i molti giorni et anni,
Che
gli premean di doppia soma il fianco, Al mezo de
iso apparir del mostro horrendo Empì ’l vecchio meschin di tal paura,
Che
tosto allhor allhor cangiò pensiero. Et non sapen
se : Io ti chiamo acciò mi presti aiuto In caricarmi del caduto peso,
Che
, come vedi, ancora in terra giace : Né da te cerc
te cerco verun’altra cosa. Così molti lontan chiaman la Morte,
Che
quando se la senton poi vicina Fuggon tremando co
domandò quel, che l’està passata Ella facesse : e rispondendo quella,
Che
col batter de l’ali, e ’l mover tuono Dentro a le
rmar soleva per comun ristoro De gli affannati, e stanchi pellegrini,
Che
sotto il fiero ardor del Sole estivo Facean passa
questo esempio, aprite gli occhi : Et imparate con più san discorso,
Che
v’è mestiero in su la primavera Di vostra età pen
on volete a l’ultima vecchiezza Giunger infermi, e di miseria pieni ;
Che
l’antico proverbio è cosa vera, La vita il fine,
contra, e la cagion li chiede Del suo cantar poi ch’è vicino a morte,
Che
per natura ogni animal paventa, E pianger suol pu
hora il Cigno rispondendo disse. Io canto di mia vita il giusto fine,
Che
di necessità Natura impone A tutti madre, e gran
ti affanni, et son per sentir sempre Nel sen de la natura de le cose,
Che
sono al mondo in qual si voglia o forma O stato v
e altro animal, che da lui n’esca Per gran virtù de le celesti sfere,
Che
danno al tutto ognihor principio e fine. Così par
voglia, che sia per esser poi, Poi che nulla di noi perder si puote,
Che
non vivi nel sen de la Natura Come a Dio piace ;
gion, che dal suo santo senno Con dotto mezzo a noi discende e piove.
Che
chi tal vive e more, eterno vive Dopo la morte de
e Senza speranza di terreno aiuto Con prolisso parlar pregò la madre,
Che
facesse per lui preghi a gli Dei Ch’ei ricovrasse
. Onde la madre rispondendo disse. Deh come sarà mai, figlio diletto,
Che
sieno udite le preghiere mie, E i voti, ch’io per
o al lor benigno nume ? Ciò detto tacque lagrimando il figlio,
Che
d’indi a poco senza alcuno aiuto Miseramente a du
i tosto gridar con rauca voce, Ch’ei l’aspettasse, una loquace Rana :
Che
allhor mirando gli atti, ch’ei facea, Haveva il f
persuase di legarsi seco Ne i piè di dietro a i suoi con certo filo,
Che
per tal opra a lui recato havea. Onde il meschin,
al mezo del camin fur giunti L’iniqua Rana a far si diede il tratto,
Che
fin da prima disegnato havea. E dove dianzi pur s
Arditamente e con possente lena Si sostentava ; e risurgeva in modo,
Che
rendea vano il suo malvagio intento. Or me
li prese ; et per satiar di loro L’avido ventre, da la rana in prima,
Che
più molle che ’l topo havea la pelle, Tosto si co
do la Volpe già di questo accorta S’appresentò dinanzi al fier Leone,
Che
era dal ragionar1, che fatto il Lupo Havea contra
nor, se ’l mio venir è stato tardo A visitarvi, non fu già per altro,
Che
per cagion di quel perfetto amore, Onde di tutto
ciò il Leon comanda allhora A quegli altri animai, c’havea d’intorno,
Che
poi ch’è facil sì la medicina Spogliasser tosto d
Il dorso nudo, e ’l tuo villano core Pien di malvagità crudele e ria.
Che
così avenir possa a ogni altro tale, Che iniquo e
di malvagità crudele e ria. Che così avenir possa a ogni altro tale,
Che
iniquo e discortese accusar tenta Con falsitate,
sava il mansueto Agnello Con voce humile e con tremante core Dicendo,
Che
sendo ei di sotto a lui A la seconda del corrente
A la seconda del corrente humore Non potea torbidar l’acque di sopra,
Che
dal fonte venian limpide e pure. E non sapendo ch
Ch’ad ogni modo ei non volea scostarsi Da la natura de’ parenti suoi,
Che
gli havean fatto mille e mille offese : E che gra
li piace, a suo diletto offende, Cercando le cagioni, o vere o false
Che
sian, nel sen de la nequitia sua ; Con cui non va
tutto l’anno governò a richiesta Del Contadino. Or finalmente avenne
Che
né biada, né vin quell’anno colse Tanto sterile a
o E lascia a me la cura del governo De le stagioni del futuro tempo ;
Che
t’avvedrai qual sia ’l tuo senno e ’l mio. Così f
la messe andò tanto feconda, E la vendemia, e ’l resto del raccolto,
Che
vinse di gran lunga ogni speranza, Ogni desio di
stagione, onde si volge l’anno. E sempre quello in buona parte prese,
Che
dal parer del suo consiglio venne. Così de
iede a fuggirsi, e tornò tosto dove Trovò la madre di sospetto piena,
Che
la cagion del suo fuggir li chiese : Ond’ei trema
acchie di color più oscuro : Sembran di lucid’oro i suoi begli occhi,
Che
sono al rimirar tutti pietosi : Ha quattro piedi,
il dosso suo di negre penne. Hor questo tanto parmi empio e superbo,
Che
non sì tosto da lontan mi scorse, Che con orgogli
to tanto parmi empio e superbo, Che non sì tosto da lontan mi scorse,
Che
con orgoglio, qual non posso dirti, Due ali apren
e ali aprendo con acuto strido, Mi si fé incontra sì crudele e fiero,
Che
tutto allhor m’empì d’alto spavento. Io dal timor
emplice ardir tutto gentile. Tal si deve temer l’huomo empio e falso,
Che
fuor di santitate il volto veste, E di lupo rapac
prudente hai da far seco, Tutto te ’l troverai benigno e pio.
Che
talhor sembra un huomo in volto un santo, Ch’un D
uella rispondendo esser contenta Patir più tosto ogni crudel disagio,
Che
mai lasciar quel loco, in cui già nata Gran tempo
ra sovragiunta a l’improviso Da un carro tratto da due gran corsieri,
Che
passavan correndo a sciolta briglia, Sotto una ru
, e di sua vita al fine. Così interviene a chi nel vitio vive,
Che
spesso pria, che fuor ne traggia il piede, De l’i
elva : Ma non ti so già dir perch’io nol faccia. Questo ben ti dirò :
Che
solo al suono De la sua voce, anchor che da lonta
tano Molto da me talhora udita sia, Tosto mi sento non so che timore,
Che
mi fa forza contra ogni ragione A fuggir presto d
e mi fa forza contra ogni ragione A fuggir presto dal latrar maligno,
Che
tremar mi fa tutto il cor nel petto. Così
i farsi in alcun modo oltraggio : E tra i più forti inviolabil patti,
Che
d’osservarsi il Guffo proponesse, Con supplichevo
lor satiossi alfin l’avido ventre Non senza doglia della sozza madre,
Che
di lontan con gran timor la scorse Devorar tutto
ando per via l’altero augello Compagno, e del suo mal cagion novella,
Che
di ritorno sen veniva altero Battendo il vento co
inci l’Aquila inteso esser incorsa Nell’odioso errore a punto allhora
Che
più da quel credeasi esser lontana, Et sol per co
er quelle rispettato al mondo : E duolsi a torto del giudicio altrui,
Che
drittamente a sé contrario vede. Ogni bruttezza
la sua morte già vicina il nome, Per cortesia fra gli animali tutti,
Che
facevan soggiorno in quel paese : Che, essendo es
cortesia fra gli animali tutti, Che facevan soggiorno in quel paese :
Che
, essendo esso lor Re, debito loro Era di visitarl
iù giorni fece insin che venne L’astuta Volpe, che da un poco sangue,
Che
vedea presso a lui, sospetto prese, E più oltre p
edea presso a lui, sospetto prese, E più oltre passar non volse prima
Che
’l salutasse, e da la sua risposta Meglio congiet
ch’a pena parea che suono havesse ; E l’invitava ad accostarsi a lui,
Che
meglio intenderia de la sua sorte, Senza dargli f
do per affogarsi adhora adhora : Onde di là passando a caso il Lupo ;
Che
tratto dal romor, ch’indi sentiva Uscir de l’acqu
é la Volpe, ch’era homai vicina Per annegarsi, et altro a fare havea,
Che
spender seco più parole in vano, Disse : ah frate
fratello trammi pur di questo Pozzo fin che puoi farlo e sana e viva,
Che
poi ti conterò più adagio il fatto, E come e quan
non bisogna che ’l periglio Ti stia sopra del capo in trovar l’armi,
Che
pon salvarti da nimica mano : Che quando sei con
ia sopra del capo in trovar l’armi, Che pon salvarti da nimica mano :
Che
quando sei con l’avversario a fronte Non è allhor
con l’avversario a fronte Non è allhor da cercar, ma da oprar l’arme,
Che
ti difendan da gli assalti suoi. Così io m’appres
gelli di passar per l’aere a volo. E tosto a pregar l’Aquila si diede
Che
le piacesse d’indi trarla seco A i superni del ci
o Cercò ritrarla da quel van disio Mostrandole il pericolo imminente,
Che
deveva sortir sì vana impresa. Ma non valse ragio
non valse ragion, che s’adducesse, Per torla giù di quel cieco desio,
Che
’l lume di ragion cacciava al fondo ; Sì che cost
anto puoi le mani e i piedi, Poi che penne non hai per tal mestiero ;
Che
ben ti converrà destra mostrarti, Se da periglio
espertiglio il nome prese, Benché Nottola anchora il volgo il chiami,
Che
sol de la Civetta è proprio nome. Questi dunque g
Questi dunque giacendo in terra steso Fu preso da la Donnola rapace,
Che
volea divorarlo allhora allhora, Sotto pretesto d
he volea divorarlo allhora allhora, Sotto pretesto di ragione alcuna,
Che
la movesse giustamente a questo. Et mentre ei la
e la movesse giustamente a questo. Et mentre ei la pregava humilmente
Che
de la vita gli facesse dono, Ella rispose di non
sospetto in ben satiarne il ventre La saettar con un pungente strale,
Che
da l’un fianco a l’altro la trafisse. Così giunge
da me sì ingiusto merto. Così talhor aviene a l’huomo ingrato,
Che
quel, che ’l tolse ad empia sorte, offenda : Che
e a l’huomo ingrato, Che quel, che ’l tolse ad empia sorte, offenda :
Che
par che ’l giusto Dio merto gli renda, Quand’ei n
fuggendo la paurosa belva In un momento tanto avanti passa,
Che
quasi nel suo centro si rinselva. E mentre i ca
corna diventar moleste A lui pur dianzi fuor di modo care,
Che
l’intricar tra quelle frondi infeste. Talché co
e lo salvar da dura sorte, Queste cagion li fur di pene amare.
Che
giunta in breve per le vie più corte De i ca
lice chiamava ognihor sua sorte, Ch’ei fosse tanto dal Signore amato,
Che
seco il volea sempre, e gli facea Mille carezze,
ferite, ch’egli havuto havea, Tutto allegrossi de la propria sorte ;
Che
, se ben il tenea poveramente, L’assicurava da mis
vita passar, mentre comprende De’ Prencipi e Signor l’alta fortuna :
Che
spesse volte in gran bassezza cade, Chi posto vie
pra e a te mortale, A cui con tanto amor e studio attendi :
Che
tu prepari a te medesma il male, Ch’anzi fug
edesma il male, Ch’anzi fuggir devresti hor che l’intendi :
Che
quando al fin d’una fatica tale Giunta sarai
he mercede a tanto Affanno, il frutto fia sol doglia e pianto.
Che
i Serpi n’usciran, la cui natura Sempre è di
Seco, se di quel male ei lo sanava. E tanto fé col duro acuto dente,
Che
gli lo trasse, e di martìr lo sciolse. Ond’ei chi
per non so che, che l’affligea, Nella ferita anchor restata aperta :
Che
grato poi del premio gli sarebbe. Il che facendo
idue i piè nel fronte e nelle spalle Così gagliardamente lo percosse,
Che
’l lasciò quasi morto in mezo ’l campo ; E fuggì
stancasse, havean gravato. Ma ecco tosto motteggiarli ognuno,
Che
con l’Asino scarco issero a piedi, Con un pa
li dice, e ’l meglio crede. Ma così andando trovan nova gente,
Che
biasma, che quel giovine a cavallo Camini, e
di questo e quello Por freno, e far cessar tanta rampogna,
Che
sovente rompea loro il cervello. Or mentre sopr
tacol novo, che comparse Non senza riso universal di tutti,
Che
lo mirar tosto che prima apparse. Veduto il vec
l fiume per minor tormento. Così fa l’huomo a sé medesmo male,
Che
far contento ognun pensa e s’ingegna De l’op
né questo asseguir vale. Perché in natura tal discordia regna,
Che
se là s’odia il rio, qua s’odia il giusto, E
egna coprir le belle membra D’altra mai per lo più, che di tal pelle,
Che
tutta la mia specie adorna e veste. Tacque
r dei de la beltà più vera : La qual di quella parte esser s’intende,
Che
forma dona a l’animal vivente, Questa s’intende l
mi riserbo in vita. Da questo impari ognun prezzar quel bene,
Che
l’alma apportar suol, non la fortuna C’hor chiara
cominciò lagnarsi in vano. Ahi di natura ugual disugual sorte,
Che
non so qual destin da cielo piove : Costui s
ur pensando altrove : Tal il favore ottien da molti spesso,
Che
in altri appar minore un fallo stesso. Il favor
l collo porta, Potria prezzarti ; io no : che stimo quello,
Che
la fame mi trahe per via più corta. Sol la virt
trahe per via più corta. Sol la virtute è quel nobil gioiello,
Che
’l savio sol per sua natura apprezza, E tien
va intorno, alcuna atta non era A sostener il suo possente orgoglio ;
Che
far potrà quand’ei di mente è fuori, E da discors
emendo furor de la pazzia ? Così ne insegna l’animal discreto,
Che
insopportabil sempre e periglioso È de la mente c
forte si gonfiava il picciol ventre, Subito cominciò gonfiarsi tanto,
Che
’l suo figliuol, che la mirava in questo, De la s
eder che colui, ch’era suo figlio, Lei madre vincer di saper potesse,
Che
d’anni e mesi l’avanzava assai, Nulla stimava il
padre ad altri, o maggior d’anni In altra guisa, al giovine dar fede,
Che
con ragione la sua lingua mova ; Ché non sta con
ppose con simil parole. Pensi tu forse, che del regno il peso,
Che
tanto importa, sostener si possa Da la vaghezza e
ando lo splendor de le ricchezze, E tutte l’altre esterior grandezze,
Che
siano in quei, che senza ingegno od arte Mal pon
a beltà, di cui vestita è l’alma, Preceder deve a la beltà del volto,
Che
nulla giova senz’interno merto. Esser dee quel,
’ardito capo, che tre lingue vibra, Lo strinse sì col velenoso morso,
Che
lo traffisse di mortal ferita. Onde il Cor
he talhor dal suo proprio guadagno Danno gli nasce di tal cura pieno,
Che
lo conduce a miserabil fine. Spesso un guadagno
ch’assai ti vale L’esser sì vile, e di sì sciocco ingegno,
Che
d’oprar mio valor teco mi sdegno. Et però non p
le, e di virtute adorno : E freni l’ira con la bassa gente,
Che
talhora gli mova ingiuria, e scorno : Perché
la coda, e via tosto fuggissi. E tanto scorno, e dispiacer ne prese,
Che
viver non sapea, né comparire Fra le compagne sue
to male il lungo scorno, Venne in pensier di dar consiglio a l’altre,
Che
si troncasser la lor coda anch’esse Per fuggir di
ersciossi entro a quel guado ; Ma non sì tosto fu di quello al fondo,
Che
le spugne bevendo il grave humore A doppio il car
otendo ivi affogossi. Sia dunque accorto chi tal caso intende,
Che
’l porsi a trar qualche pensiero al fine Non rice
Si lascieranno, et da la mia durezza Consumati saranno a poco a poco,
Che
segno mostrin pur d’havermi offesa. Sentì
asciolla in pace starsi. Così devria colui lasciar le imprese,
Che
impossibili sono alle sue forze, Né contrastar co
ona al senso de la gola in preda Senza tener in questo ordine o modo,
Che
suol ragion dottar4 a chi prudente Nutrir si vuol
rir si vuol di delicati cibi Per sua salute, ma si astien dal troppo,
Che
nuocer suole, onde tal vitio nasce ; Sovente casc
del più gelato Verno ; L’huom, che dal freddo havea le man sì morte,
Che
risentir non le poteva a pena, Spesso col fiato r
o ogn’huom, ch’è savio, esempio prenda A fuggir l’amicitia di coloro,
Che
di cor doppio, e di sermon bilingue Soglion mostr
doppio, e di sermon bilingue Soglion mostrarsi a chi seco conversa :
Che
, essendo di natura empi e malvagi, Sono vuoti d’a
olui, ch’è da l’amico offeso, Sente più grave assai di ciò l’affanno,
Che
non il duol de la medesma offesa : Che quando l’h
grave assai di ciò l’affanno, Che non il duol de la medesma offesa :
Che
quando l’huom d’altrui favore aspetta, Se ’l cont
ecchiezza, e dal soverchio peso Pregò il Cavallo in supplichevol modo
Che
d’un poco del peso per alquanto Di spatio gli pia
evargli del suo ufficio il peso Per picciol tempo : onde ne nasce poi
Che
la soma di quel sopra lui cade Tutta, né trova ch
Fatto da lui d’una spelonca oscura, E prepararsi per un anno il cibo,
Che
senza faticar potria godersi. Ma quando l’
Al pensato camin, fiero ullulato Fuori mandò di tanto horror ripieno,
Che
le paurose pecorelle tutte Smarrite ne restaro, e
rna, E la pregò con mansueta voce, E parole efficaci a sua richiesta,
Che
di prestargli ella contenta fosse Un picciol tron
de’ favori suoi largo e cortese Ad huomo avaro e di nequitia pieno :
Che
con le forze stesse, ond’ei l’accrebbe Riman da q
cadde, cred’io dal cielo, Un sì fervente humor, e a me noioso,
Che
quasi un terzo mi levò del pelo : E questo m
non è ’l ciel ben chiaro. Tal di viver sicur partito piglio :
Che
per fuggirmi quel martir fatale Patir cotal
scorrendo le campagne e i boschi Con gran paura de gli altri animali,
Che
in cambio lo togliean d’un fier Leone. E dilettat
i conosciuto in prima. Così l’huom sciocco e d’ignoranza pieno
Che
il savio fa tra gli ignoranti, quando Avien, che
degnoso contentossi al patto Di cotal prova : et fé d’esser il primo,
Che
mostrasse con lui l’alte sue forze. Così d’accord
sto alfin la sua fatica vana Il vento stanco, e in sé più che sicuro,
Che
’l Sol, che meno impetuoso fiede, Far non potesse
estrezza al fin, ch’ei brama, Assai più presto, e con minore affanno,
Che
colui, che con impeto si move In discoperta forza
e disse. O pazzo e vil che sei, Poi che tanta folia tu meco ardisci,
Che
con un piede sol franger potrei L’ossa tue tutte,
corso, che vietarmi indarno tenti. E dicendo così più tra sé stesso,
Che
fermatosi a quel, che l’aspettava, Senza degnarlo
lo in cotal modo un dolce inganno. O che bell’animal vegg’io là suso,
Che
vago augello di diverse piume, Di mille varii, e
an le lodi, che colei gli dava, Entrato in speme di quel vano honore,
Che
gli augurava il suo finto sermone, Per mostrarle
o, che ’l Signor nostro altiero Me del numero far di quei non voglia,
Che
de la coda non han parte alcuna ? Così ne
a coda non han parte alcuna ? Così ne mostra l’animale astuto,
Che
chi sotto il Tiran sua vita mena È in gran perigl
enuti si son pur dianzi insieme ; E stabilita hanno fra lor tal pace,
Che
durerà nel mondo eternamente. E mandan me per mes
do vai di messaggier del fatto. Udito ciò la Volpe, che credea
Che
pur venisser da dovero i cani, Per più non dimora
tro a fuggir tosto si diede Con sua vergogna e gran piacer del Gallo.
Che
con le burle a la nemica ordite Da le burle di le
a Amaramente non haver sofferto Di quella in pace la primiera offesa,
Che
sola un poco gli ferio l’orecchia, Godendo lieto
iol mal, che sopportar potrebbe, Et quel fuggendo cade in mille danni
Che
d’improviso gli si movon dietro. Meglio è soffr
nno sopra l’altro giunto Patì gran pezzo le beccate strane,
Che
’l sangue tutto homai le havean consunto. Venut
omai di sangue piene, Di quel ch’infin adhor sì fatto m’hanno.
Che
s’altro nuovo stuol di mosche viene, Affamat
caso strano, e di nequitia pieno, Con parlar orgoglioso le commesse,
Che
in giuste parti dividesse il tutto. Ond’ella acco
Le disse. ove sorella, hai così bene Appresa del divider la ragione,
Che
con tanta dottrina hor m’hai dimostro ? A cui l’a
Né restava però di mangiar sempre De’ polli il resto quando le parea
Che
fusse di cenar la solita hora ; Tal che ognihor p
cir vuoi di tal loco, ti conviene Astenerti dal cibo, onde ti pasci :
Che
così tornerai, come eri prima, Smagrita e scarna,
bel prato di novella herbetta Per lunga usanza, e con invidia ognuno,
Che
’l compagno godesse un tanto bene, E consumasse q
, E poteva domar a modo suo De le forze di lui l’alto valore, Disse :
Che
, s’egli in suo servitio havea Tanto sudato, che v
opo le sue vittorie alfin rimane De la sua propria libertà perdente :
Che
quel, che vinto ha il suo nimico, ch’era Di lui p
armi di ciò ragion più chiara Con l’opra del valor, che regna in voi.
Che
colui, che tornando a me con prova Maggior de le
ezo un campo di tagliate biade ; E lo Sparvier mostrando una Colomba,
Che
per lo ciel volando a forza ottenne, L’Aquila dis
cciò che quinci io scenda Picchia a quell’uscio, e ’l portinaio desta
Che
m’apra il passo, ond’io per dentro al tronco Veng
ur la ria se n’avvedesse. Così sovente a l’empio avenir suole,
Che
mentre a l’altrui vita inganno ordisce, Quel, ch’
; Domandando a colui s’era la sua. Il leal Contadin rispose il vero,
Che
sua non era : onde Mercurio tosto Finse di novo d
nosciuto il buon Mercurio a pieno La gran sincerità di quel meschino,
Che
di bontà non havea par in terra, Quella d’argento
ingorda i pargoletti figli. Così fra noi mortali avenir suole,
Che
chi de l’amicitia i sacri patti Per non degna cag
e, e con l’honesto il dritto : Né per cagion benché importante assai,
Che
dal giusto si trovi esser lontana, Offesa far al
osso rotto con l’acuta punta Gli restò in gola attraversato in modo,
Che
sentiva di morte estrema pena. E per medico suo l
Venne sì gonfia del mangiato pasto, E di quella bevanda a lei soave,
Che
non potea levarsene, e cadendo Anzi più in mezo d
in su ’l mercato alcun guadagno. Ma trovatolo a sorte uno a cavallo,
Che
gli venia da la cittade incontra, Di volerlo comp
he altrui frodando il vero, Inhabile a quel far, che gli altri fanno,
Che
d’ingegno e valor dotati sono. Perché col tempo l
che non è la mia, Questa voglio lasciar, e quella prendere,
Che
mi potrà più satio e lieto rendere. Così lascia
a E d’ardimento al forte ingiuria move Assicurato da persona, o loco,
Che
lo difende da l’altrui valore. A tempo e loco è
voglio esser da voi schernita, Temendo in van del mal falsa cagione,
Che
stando in gran pericol de la vita Dar di piangerm
nchio un giorno era del Mare uscito Per novello disio di trovar cibo,
Che
gli gustasse fuor de l’onde salse ; Onde pascendo
io chi cerca di turbar mia pace Così combatto, o me gli mostro fiero,
Che
raro avien, ch’egli da me si parta Senza paura, e
Cominciò con parole affettuose A pregar l’altro in lusinghevol modo,
Che
d’aspettarlo non gli fusse grave : Et legatosi se
cor maligno, e simulato volto Il Lupo ; e fatto già vicino a l’uscio,
Che
la stalla chiudea, per certo foro Dentro guardava
gno allhor per naturale istinto Mosso a cantar co’ più soavi accenti,
Che
possa di sua vita a l’ultime hore, Visto già il f
morto al pian giacessi, Tu delle carni mie quello faresti,
Che
far a gli altri io te veduto havessi. Ciò detto
l nuotar sempre a l’indietro : Dicendo, che più bel parea quel corso,
Che
move ogni animal col capo inanti, Ch’è membro pri
o ogni importante offesa, Sarò minor di te, putrida e vile,
Che
non hai pianta a tua viltà simile ? Io l’oltrag
e disse : con qual cor cara sorella Puoi sacrificio far a quella Dea,
Che
t’è tanto nimica, e t’odia tanto, Ch’ognihor ti s
e ’l posso giamai veder da presso Con cor sicuro, pur temendo quello,
Che
tu provato ognihor par che non temi. A que
n bosco, e le campagne tutte, E stimando che qualche horribil mostro,
Che
novo habitator di quelle selve Fatto si fosse, di
e Natura i parti suoi Sparge qua e là dove le piace a sorte
Che
tutti in ogni loco haver li puoi : A romper com
doso per colpa del scrittore. Hora son stato in man di correttore :
Che
in latino e vulgar con mia gran pace : Esser me
e dotto, accotto mi risponde I dono a te mie Fabule gioconde
Che
le commenti con bon magistero. Ma poi che son v
sont annoncées par ce titre général : Chi commenche li besti||aires.
Che
sont les || fables de plusieurs bestes. La colle
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