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DEL LEONE, ET LE RANE.
SENTÌ ’l Leon gridar verso la sera
Dentro un fosso lontan da la sua tana
Immensa copia di loquaci Rane
Con tal romor, che rimbombava intorno
Il vicin bosco, e le campagne tutte,
E stimando che qualche horribil mostro,
Che novo habitator di quelle selve
Fatto si fosse, disfidar volesse
Le paesane belve a cruda guerra
Per farsi ei sol Signor di quei confini,
Uscì de la spelonca immantenente
Cercando al suon, che gli feria l’orecchie,
Con▶ generoso core e d’ardir pieno
Del suo sospetto la cagion fallace.
Ma poi ch’ei fu da quel condotto in parte,
Ove scoperse l’importuna schiera
De i piccioli animai, che ’l gran romore
Stupido tutto alfin ritenne il passo :
E del suo proprio error tra sé si rise :
E fatto accorto da l’inteso effetto
Dal suo sospetto van, disse in suo core.
Stolto ch’io non credea, ch’un tanto grido
Di così picciol corpo uscir potesse :
Hor qual faria quest’importuno stuolo
D’animali ad ogni opra inetti e vili
Strepito horrendo, se a la mia conforme
In sé la forma e la possanza havesse,
Quando da sì vil cor manda tal suono ?
E intanto il vider le loquaci Rane,
E tacquero e fuggiro in un momento
Da la sua vista sotto l’acque impure.
Così spesso l’huom vil la lingua move
◀Con gran bravura, e porge altrui spavento
Senza vera cagion ; ché tanto offende,
Quanto ferisce de la voce il suono :
Né più oltra può far di quel, che ’l vento
Opra, che le parole in aria sparge.
Dunque stimar non dee l’huom saggio e forte
L’inutil suon de le parole vane ;
Ma il cor, che tace ; e da gli effetti solo
Donar fomento a le sue imprese suole.
Perché colui, che di valore è ricco,
Non suol dal van parlare acquistar merto.
Chi meno val, più di parole abonda.