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DI PALLADE, ET DI GIOVE.
GIÀ fu che ognun de gl’immortali Dei
A suo piacer un arbore si elesse
D’haver per propria insegna in sua tutela.
Così Giove la Quercia altera prese ;
Venere il Mirto ; il Pino il Dio del▶ mare ;
Apollo il Lauro ; et la sublime Pioppa
Questo veduto allhor Pallade saggia
Restò sospesa di stupore alquanto,
Che tale elettion fosse caduta
Sovra di piante infruttuose e vane,
Poi che ciascun sapea, che immensa copia
Di fruttifere pur ne havea la Terra,
Da farne agevolmente utile eletta :
Et domandando al sommo padre Giove
Modestamente la cagion di questo,
Alfine hebbe da lui cotal risposta.
La cagion, figlia, che ciascun ne indusse
A far elettion d’inutil pianta,
Fu certo un ragionevole rispetto,
C’habbiam che ’l mondo non pensasse mai,
Che per l’utilità vil di quel frutto
Il proprio honore alcun di noi vendesse,
Onde il nome divin restasse infame.
Udito ciò la generosa Dea
In sì fatto parlar la lingua sciolse.
Prendasi pur ognuno, o sommo Padre,
De gl’immortali Dei qual più gli aggrada
Ch’io quanto a me, cui sempre giova e piace
L’honor goder con l’utile congiunto,
M’eleggerò la pretiosa oliva,
Di cui voglio esser protettrice amica.
Allhor baciò la valorosa figlia
Il Padre Giove ; et tutto allegro disse.
Ben mostri al tuo parlar accorto et saggio,
Ma ◀del mio divin capo uscita sei.
Però sarai da i secoli futuri
Meritamente ognihor saggia chiamata :
Che veramente quella gloria è vana,
Che da l’util si vede ognihor lontana.
Vero honor non è quel, che in danno torna.