Nacque adunque Raffaello in Urbino, città notissima in Italia, l’anno 1483, in Venerdì Santo a ore tre di notte, d’un Giovanni de’ Santi, pittore non molto eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno et atto a indirizzare i figliuoli per quella buona via che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua gioventù. […] Come mostrò ancora in questo medesimo luogo dirimpetto a questa in una storia, quando San Piero nelle mani d’Erode in prigione è guardato dagli armati, dove tanta è l’architettura che ha tenuto in tal cosa e tanta la discrezione nel casamento della prigione, che invero gli altri appresso a lui hanno più di confusione ch’egli non ha di bellezza, avendo egli cercato di continuo figurare le storie come elle sono scritte, e farvi dentro cose garbate et eccellenti: come mostra in questa l’orrore della prigione nel veder legato fra que’ due armati con le catene di ferro quel vecchio, il gravissimo sonno nelle guardie, et il lucidissimo splendor dell’Angelo nelle scure tenebre della notte luminosamente far discernere tutte le minuzie delle carcere e vivacissimamente risplendere l’armi di coloro, in modo che i lustri paiono bruniti più che se fussino verissimi e non dipinti. […] La quale invenzione [II. 75] avendola fatta Raffaello sopra la finestra, viene a esser quella facciata più scura, avvengaché quando si guarda tal pittura ti dà il lume nel viso, e contendono tanto bene insieme la luce viva con quella dipinta co’ diversi lumi della notte, che ti par vedere il fumo della torcia, lo splendor dell’Angelo, con le scure tenebre della notte sì naturali e sì vere che non diresti mai che ella fussi dipinta, avendo espresso tanto propriamente sì difficile imaginazione. Qui si scorgono nell’arme l’ombre, gli sbattimenti, i riflessi e le fumosità del calor de’ lumi, lavorati con ombra sì abbacinata che invero si può dire che egli fosse il maestro degli altri; e per cosa che contrafaccia la notte, più simile di quante la pittura ne fece già mai, questa è la più divina e da tutti tenuta la più rara. […] Considerò anco quanto importi la fuga de’ cavalli nelle battaglie, la fierezza de’ soldati, il saper fare tutte le sorti d’animali, e sopra tutto il far in modo nei ritratti somigliar gl’uomini che paino vivi e si conoschino per chi eglino sono fatti; et altre cose infinite, come sono abigliamenti di panni, calzari, celate, armadure, acconciature di femmine, capegli, barbe, vasi, alberi, grotte, sassi, fuochi, arie torbide e serene, nuvoli, piogge, saette, sereni, notte, lumi di luna, splendori di sole, et infinite altre cose che seco portano ognora i bisogni dell’arte della pittura.